11 Maggio 2024
Cultura & Società

Dal tuttologo allo specialista – Rita Remagnino

Le antiche conquiste del sapere non tralasciavano mai l’aspetto spirituale e davano ad ogni verità soggettiva una sua dignità. Perché il moderno progresso scientifico si impone invece come un fenomeno «auto-evidente»?

 

Lo scienziato di antica memoria, cioè il mago classico, non si limitava ad officiare riti ma curava il corpo, conosceva la storia, il firmamento, l’alchimia, l’erboristeria, e soprattutto l’animo umano. Anche Socrate descrivendo Ulisse disse che l’aretè (la bravura dell’uomo, il suo valore spirituale) passava dalla visione totale: “L’areté implica il rispetto per la totalità e l’unicità della vita e, di conseguenza, il rifiuto della specializzazione. Implica il disprezzo per l’efficienza… O, piuttosto, una concezione molto più elevata dell’efficienza, che esiste non in un solo settore della vita, ma nella vita stessa.

 

 

«Tutto è uno» avevano insegnato i saggi vedici molto tempo prima che Parmenide, sostenuto in seguito da Zenone, affermasse che la molteplicità apparente delle cose visibili, così come le loro mutevoli forme e i loro moti, erano la sembianza della singola realtà eterna chiamata «Essere».

Ma poi erano arrivati Platone e Aristotele con la loro idea di anima e corpo, oggettività e soggettività, intuizione e ragione, rispettabilità scientifica e immaginazione artistica. Il dualismo ebbe la meglio, la «sapienza» si trasformò in «filosofia» e nulla fu più come prima.

Se la sapienza dell’Era arcaica era un modo di essere, la filosofia era un modo di pensare. Mentre il sapiente incarnava la verità in quanto esperienza diretta, «sapeva» di magia e misticismo, di matematica e astronomia, il filosofo fece della verità un oggetto di pensiero e di ricerca circoscritti all’uomo.

Il passaggio successivo si realizzò nella sostituzione della filosofia/teologia con la scienza, come hanno sottolineato in The Age of Transition Hopkins e Wallerstein: “Si può dire che la più importante innovazione nelle strutture della conoscenza, nell’epoca moderna, sia stata la sostituzione della filosofia/teologia con la scienza, come metafora centrale dell’organizzazione della conoscenza. E, soprattutto, la predominanza di uno specifico metodo scientifico (che, semplicisticamente potremmo definire newtoniano) che ha rivendicato essere l’unica modalità legittima di conoscenza.

Da sempre l’ottenimento di una cosa implica la perdita di qualcos’altro, e difatti il passaggio dal macroscopico al microscopico comportò la rinuncia ad affrontare certi aspetti cruciali dell’esperienza, essendo il «segreto», il vero mistero, avvicinabile unicamente dalla percezione.

Con il potenziamento dell’attività mentale arrivarono inoltre delusioni e insoddisfazioni, perché nessuno poteva garantire che dopo tanti ragionamenti ci sarebbe stato un «risultato», il quale poteva tranquillamente non arrivare mai.

A differenza della sapienza che di fatto era un’iniziazione perpetua, lo sforzo del pensiero si aspettava immancabilmente qualcosa in cambio, un’illuminazione. Per rispondere ai dubbi e alle critiche il nuovo clero laico decise così di frammentare quel Tutto che la mente non riusciva più a comprendere nella sua interezza, dividendo in pezzi persino il corpo umano: il fegato a te, il cuore a lui, le ossa a me, la pelle a quell’altro.

Ne uscì fuori una specie di macchina senz’anima e priva di connessioni esterne che di «naturale» non aveva quasi più nulla. In compenso si potevano fare interventi mirati, affrontando l’«inaccettabile» selezione naturale, replicarono i progressisti. Dimenticarono di aggiungere, però, che la specie si era indebolita parecchio rispetto al passato, predisponendosi così a un’infinità di patologie, segno evidente che le cose non erano andate migliorando.

Avanti di questo passo fino a noi, il frutto tardivo della separazione, cioè della mancata evoluzione biologica. Oggi ci teniamo in piedi grazie a puntelli sempre più elaborati, ma sensibili ad ogni raffica di vento, e il sospeso sviluppo del nostro essere profondo sta avendo importanti contraccolpi anche sul corpo. Urgono altre prospettive, e difatti qualche scienziato comincia a distanziarsi dai dogmi, batte nuove/vecchie strade, spesso pagando il prezzo della derisione.

Lo specialismo è stato, ed è ancora, la grande piaga della modernità. Sia che si tratti di un filologo impegnato su un testo classico o di un ingegnere intento a perfezionare un nuovo macchinario, nessuno studioso si sente più tenuto a fare collegamenti tra discipline differenti, o con le esperienze precedenti, ma neppure con quelle future. Allo specialista non interessa cosa uscirà dalle nuove «scoperte», se ne verrà fuori qualcosa di meglio o di peggio. Non rientra nei suoi scopi, cioè nella sua carriera personale, prevedere le ripercussioni di una scoperta.

Questo strano tipo di dotto ignorante che esercita una professione in un certo ambito, magari anche in maniera egregia, ma che non sa assolutamente nulla di tutto il resto, non conosce la filosofia se si occupa di elettronica ed è digiuno di matematica se si esprime in versi. Spesso sa poco anche della disciplina che pratica, in quanto sviscerando in modo ossessivo una branca della medesima gli manca il tempo di approfondire le altre parti. In quell’uno per cento cui si dedica è un campione, nessuno ne sa più di lui, la qual cosa lo riempie d’orgoglio e alimenta a dismisura il suo ego. Ma nel suo fare manca la genialità, intesa come pensiero creativo.

Ora, può esserci nella società umana qualcosa di più pericoloso di un ignorante che crede di sapere? Sono germogliate su questo terreno le conseguenze di molte «scoperte» che negli ultimi secoli hanno devastato e inquinato il mondo come mai prima d’ora era accaduto? Perché gli scienziati che le hanno inventate non si sono chiesti quali impatti esse avrebbero avuto sulle vite degli altri? Erano troppo occupati a valutare le ricadute positive che i nuovi marchingegni avrebbero prodotto sulle loro carriere?

Oggi qualsiasi proposta viene formulata in base a criteri «scientifico-economici» che non si curano minimamente di eventuali ripercussioni negli ambiti più disparati. Ciò nonostante ci siamo autoconvinti di essere un’umanità-super che procede inarrestabile sulla strada del progresso perché, giorno dopo giorno, vediamo vecchie malattie che trovano nuove cure e patologie sconosciute affacciarsi alla finestra, così da poter vivere una vita traballante da malati cronici.

E se il criterio «scientifico-economico» avesse degenerato la scienza? A causa sua siamo sfociati nello scientismo? Dove ci ha portato questa visione negli ultimi decenni? Fino al secolo scorso ha contribuito a delineare l’«orizzonte del possibile», suggerendo cosa era lecito non solo concepire ma anche percepire, poi ha favorito attivamente l’ascesa dell’ordoliberismo, divenendo una specie di governo «implicito» che manteneva le idee dell’opinione pubblica all’interno del recinto costruito dai detentori della visione dominante, da ultimo ha imposto il nuovo paradigma medico di biosicurezza, al quale tutte le altre esigenze sono state sacrificate.

Ma una società segregata, distanziata, terrorizzata e medicalizzata può ancora definirsi umana? Chi/cosa rimpiazzerà i rapporti sensibili, l’amicizia e l’amore, la mimica di un volto, la chimica dei corpi, gli odori che attraggono o respingono? Un mondo messo sotto protezione sanitaria è del tutto fittizio, per cui anche l’uomo che ci vive rischia di diventare una creatura artificiale.

Forse è arrivato il momento di decidere se il progresso tecnico-scientifico è il progresso tout-court, o se invece andrebbe riconsiderata la perdita della dimensione spirituale che negli ultimi secoli ha fatto regredire la specie umana verso forme di esistenza più primitive.

Secondo la cultura dominante il problema non sussiste, ciò che conta sono i tempi e i modi degli obiettivi da raggiungere, i dati statistici bastano e avanzano ad attestare la bontà di una nuova applicazione tecnologica, di un farmaco o di un vaccino. Ma a noi, convince un progresso scientifico che si è imposto ormai come un fenomeno «auto-evidente»? Si può credere a una cosa che non richiede ulteriori conferme?

Scriveva a questo proposito José Ortega y Gasset nel suo classico La ribellione delle masse che la figura dello scienziato cambiò aspetto quando, nel 1890, una nuova generazione di intellettuali assunse la guida dell’Europa. Da allora “(…) la scienza sperimentale ha progredito in buona parte mercé il lavoro di uomini assolutamente mediocri, e anche meno che mediocri, vale a dire che la scienza moderna, radice e simbolo della civiltà contemporanea, accoglie dentro di sé l’uomo intellettuale “medio” e gli permette d’operare con successo.”

Siamo caduti dalla padella nella brace? Usciti dalle braccia protettive dello sciamano siamo passati in quelle più interessate del mago, per finire in bàlia di «una casta d’uomini oltremodo strani», per dirla con Ortega y Gasset, che ogniqualvolta scoprono un nuovo fenomeno della Natura si sentono dei super-uomini.

Formalmente i nuovi specialisti della scienza non sono dei sapienti, come lo furono invece i primi maghi, ma neppure degli ignoranti. Un’ambiguità non priva d’insidie poiché messi di fronte a una qualsiasi questione tra le tante da essi ignorate costoro non si comportano da ignoranti, non essendolo in realtà, bensì da maestrini saccenti e supponenti.

Beati i tempi in cui gli uomini di scienza si dichiaravano sicuri del fatto che il vero mistero fosse che non c’era nessun mistero da svelare e tutta la vita andava vissuta come un’iniziazione, senza illudersi di «scoprire» alcunché.

L’intelletto, dopotutto, è ciò che è: una scommessa che ora si vince e ora si perde, sempre continuando a girare intorno alla verità. Attraverso i suoi sistemi si può indagare al massimo il divenire, mai però l’Essere.

Siamo stati troppo sbrigativi nell’attribuire al cervello il funzionamento di una macchina binaria: si, no; bianco, nero; buono, cattivo; vero, falso. Nel sistema binario i nostri neuroni sono imbattibili e con straordinaria rapidità classificano, accettano o rifiutano, ordinano i diversi fattori in serie non diversamente dal computer, nato come loro imitazione.

A volte sembra di avere un ufficio postale nella scatola cranica, con le secrezioni degli ormoni che vanno in mille punti del nostro corpo a provocare eccitazioni. Naturalmente c’è anche un telefono, il sistema nervoso, che fa gridare di paura o arrossire di vergogna. Poteva mancare una radio? Ma se il cervello emette onde che si propagano a grande velocità, perché la funzione ricevente, tranne casi eccezionali, non viene utilizzata? Ha senso continuare ad usare la materia grigia per costruire macchinari anziché impiegarla per valorizzare le potenzialità del corpo?

Inutile sperare che le decantate tecnologie possano un giorno spiegare manifestazioni genericamente presentate come «realtà dell’anima», o come «spirito dei morti», tanto per fare un paio di esempi facili. Argomenti del genere non riguarderanno mai la tecnologia, né il cervello, essendo collocati nel mondo ignoto della subcoscienza. Ancora non abbiamo capito da dove vengano «poteri» tutto sommato leggibili come la precognizione e la telepatia, figurarsi tutto il resto.

Rita Remagnino

Ricercatrice indipendente, scrittrice e saggista, Rita Remagnino proviene da una formazione di indirizzo politico-internazionale e si dedica da tempo agli studi storici e tradizionali. Ha scritto per cataloghi d’arte contemporanea e curato la pubblicazione di varie antologie poetiche tra cui “Velari” (ed. Con-Tatto), “Rane”, “Meridiana”, “L’uomo il pesce e l’elefante” (ed. Quaderni di Correnti). E’ stata fondatrice e redattrice della rivista “Correnti”. Ha pubblicato la raccolta di fiabe e leggende “Avventure impossibili di spiriti e spiritelli della natura” e il testo multimediale “Circolazione” (ed. Quaderni di Correnti), la graphic novel “Visionaria” (eBook version), il saggio “Cronache della Peste Nera” (ed. Caffè Filosofico Crema), lo studio “Un laboratorio per la città” (ed. CremAscolta), la raccolta di haiku “Il taccuino del viandante” (tiratura numerata indipendente), il romanzo “Il viaggio di Emma” (ed. Sefer Books). Ha vinto il Premio Divoc 2023 con il saggio “Il suicidio dell’Europa” (ed. Audax Editrice). Attualmente è impegnata in ricerche di antropogeografia della preistoria e scienza della civiltà.

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