10 Aprile 2024
Appunti di Storia Controstoria

Firenze Ottobre 1920: quattro contro un paese intero, ma bastano… (seconda parte) – Giacinto Reale

 

La prima spedizione in provincia dello squadrismo fiorentino fu dedicata alla chiantigiana Montespertoli….

(Bruno Frullini, Squadrismo fiorentino, Firenze 1933)

 

Le occupazioni delle poche fabbriche fiorentine (Pignone e Galileo sopra tutte) finiscono il giorno 30 settembre del 1920, ma si lasciano dietro un clima teso, nel quale si fa strada il desiderio di rivalsa di chi male ha dovuto tollerare bandiere rosse e mitragliatrici fuori degli stabilimenti.

L’occasione sembra presentarsi quasi subito, quando al Fascio giunge la notizia che a Montespertoli, paese di 8.000 abitanti, a circa 25 chilometri dal capoluogo, dove si è votato il 10 ottobre, dopo che la precedente Giunta socialista è stata sciolta per malversazioni, la vittoria sovversiva ha avuto come primo effetto l’esposizione di un bandierone rosso sul balcone del Municipio, con la banda municipale che suona “Bandiera Rossa”, e i simpatizzanti in piazza ad applaudire.

In paese, in verità, c’è fermento da qualche giorno. Ai pochi fascisti locali, capitanati da Livio Cigheri, si accompagna un giovanottone alto e moro, dall’accento meridionale, che tutti pensano sia un poliziotto in borghese, senza riuscire a capire, però, perché sia lì.

In effetti, si tratta di Gennaro Abbatemaggio, uno dei protagonisti “dalla parte dei buoni” del famoso processo Cuocolo alla camorra, che è stato volontario di guerra, Ardito, legionario fiumano, e ora simpatizza per la causa fascista.

Una presenza certamente anomala, pur nel confuso clima del primo dopoguerra, alla quale sarà posto termine, nel giro di un mese, dagli stessi vertici fascisti, con un formale comunicato apparso sul giornale di Mussolini, e un telegramma indirizzato da Pasella al Capitano Zamboni, responsabile del Fascio fiorentino:

Avrà letto oggi stesso (11 novembre) su “Il Popolo d’Italia” la nostra diffida circa questo figuro. Allontanatelo da voi e fatelo allontanare da tutti gli amici.

E’ uno scroccone che si è recato da tutte le parti a battere cassa, desiderando vivere senza far nulla. (1)

 

Per adesso, comunque, nessuno sospetta, e a fargli compagnia, nel pomeriggio dell’11, scendono, dalla corriera proveniente da Firenze, quattro uomini dall’aria decisa di chi è abituato ad andare per le spicce. Sono Amerigo Dumini, Bruno Frullini, Attilio Paoli e Giacinto Fani. Dopo una breve sosta a casa del Cigheri, si danno da fare, andandosi a sedere, verso le nove di sera, al caffè Razzolini, in piazza, raggiunti anche da Lionello e Averardo Mazzuoli, che è autista della SITA sulla linea Firenze-Montespertoli:

Lo scopo era quello di imporre ai trionfanti pussisti che avevano conquistato quel Comune, di inalberare, anziché il cencio rosso, la gloriosa bandiera tricolore. Arrivammo la sera, e, dopo una refezione offeratci dall’amico Cigheri, ci recammo nel caffè principale, covo di comunisti, ove attaccammo senz’altro a voci spiegate, l’Inno degli Arditi.

Qualcuno sgusciò fuori zitto zitto, molti vollero opporsi al nostro canto con offese volgari. Volarono pugni e bastonate, finchè avemmo ragione degli avversari inviandoli a letto. (2)

Fattasi quasi mezzanotte, chiuso il caffè, ed obbligati a restare in paese, perché non ci sono più corriere per tornare a Firenze (e questo Mazzuoli doveva ben saperlo !) , i “quattro più tre” pensano di mettere a frutto il vantaggio del buio e delle strade deserte per sistemare la faccenda del famoso bandierone.

Non hanno calcolato, però, che l’allarme per la loro presenza si è sparso dappertutto:

Tutta la notte – il tempo era bello – staffette corsero per vari sentieri tra boschi e campi fino ai poderi e ai casolari delle frazioni più avanzate. Sul far del giorno Averardo Mazzuoli fu incontrato mentre andava alla SITA. Più con le cattive che con le buone lo ricacciarono a casa. “Anzi – gli dissero – oggi la SITA non andrà a Firenze per nessuna ragione”.

Si disposero intorno al paese blocchi stradali. Si era un po’ esagerato sui disordini della sera precedente, e i “volontari” non facevano difetto, mentre si insisteva a ripetere che i fascisti sarebbero arrivati in forze da un momento all’altro, appena giorno.

Con vanghe, falci, zappe, forconi, con una decisa e silenziosa determinazione, quasi tutti i contadini (ed erano centinaia) si erano venuti radunando in piazza per difendere il Comune che competeva loro per diritto di vittoria elettorale. (3)

E’, ad una delle sue prime manifestazioni, un clima col quale i fascisti dovranno abituarsi a fare i conti. Descritti come coloro che vengono “ad ammazzare, a violentare e a distruggere” incontrano, spesso prima ancora di aver compiuto alcunché, una esagerata reazione, frutto di una psicosi collettiva e di un altrettanto collettivo desiderio di “far male” a chi male viene a fare.

Qualche mese dopo, per esempio, nella vicina Valdarno, a Castelnuovo dei Sabbioni, è sufficiente che si sparga la voce del prossimo arrivo di una squadra di fascisti fiorentini perchè ci sia una vera e propria insurrezione “preventiva” (che qui provocherà anche un morto innocente e svariati feriti):

Giunto così il momento tanto atteso e temuto (allude all’arrivo dei fascisti ndr), la scintilla dell’insurrezione avrebbe trovato il momento più adatto al suo svolgersi violento.

Nell’arco di poche ore – con il riecheggiare delle sirene delle fabbriche in tutta la vallata – sarebbe stata svaligiata un’armeria e tentato l’assalto alla caserma dei Carabinieri, si sarebbero innalzate barricate con la partecipazione decisiva della popolazione del paese e dei minatori castelnuovesi sopraggiunti nel frattempo.

Alla fine, camicie nere e forza pubblica, dopo una lunga serie di scaramucce e prolungati scontri a fuoco, con scambi di fucile, rivoltellate e bombe a mano, avrebbero avuto la meglio sugli insorti. Nove feriti, passanti in massima parte – due le donne – ed un morto tra i manifestanti sarà il bilancio della giornata sangiovannese, vanto e gloria del fascismo fiorentino. (4)

Lo sparuto gruppetto fascista arrivato a Montespertoli non può fare altro, a questo punto, che asserragliarsi nella Caserma dei Carabinieri, dove sono in arrivo altri militari di rinforzo, provenienti da Firenze, con un’autoblinda.

Alla mattina dopo giunge anche notizia che ad un camion con una trentina di squadristi accorsi in soccorso, è stato impedito l’accesso al paese, i cui ingressi sono ormai bloccati da un cordone di soldati.

Solo Luigi Zamboni, Enrico Uva, Gino Arbaci e Roberto Lawley riescono ad arrivare, in un’ auto con due giornalisti, spacciandosi anch’essi per cronisti.

Dopo qualche ora, fattosi giorno pieno e ristabilita la calma, i quattro fiorentini imprevidenti – il cui capo “sul terreno” è Dumini – possono ripartire, insieme agli altri finti giornalisti arrivati “in soccorso”, sotto buona scorta.

Tornati nel capoluogo, però, riceveranno sì elogi, ma dovranno anche affrontare polemiche, a seconda di come l’episodio verrà giudicato (prova di coraggio o incosciente esibizionismo ?) nel loro stesso ambiente.

Niente di speciale, come si vede, e come tale l’episodio viene considerato anche da parte fascista (né Banchelli né Piazzesi lo citano nei loro libri), per cui deve ritenersi poco attendibile la notizia riportata dal Chiurco – e solo da lui, che forse fa confusione con l’episodio dell’11 – di una seconda spedizione sulla cittadina, verso la fine di ottobre, con occupazione del Municipio ed esposizione del tricolore.

Eppure, in questa avventura apparentemente minimale, ci sono già alcuni degli elementi che accompagneranno l’intera stagione squadrista. La sfida di pochi (pochissimi) contro molti (quattro contro un paese intero); la sfrontatezza ardita (i canti nell’osteria, alla faccia dei paesani); l’obiettivo simbolico (togliere il bandierone rosso), senza che siano previste violenze alle persone; il pressapochismo e la mancata formulazione di un “piano B” (quando i soccorsi da Firenze provano ad arrivare – ed anche qui: 30 uomini appena – , nessuno ha pensato a “come”, e infatti, incappano nelle maglie poliziesche e non riescono a passare); la litigiosità interna, che prende corpo nell’eterno conflitto moderati (“era meglio non andare, se doveva finire così”) contro estremisti (“bisogna dimostrare di non avere paura, mai ! “).

Anche la sproporzionata reazione avversaria prefigura una costante dei tempi che verranno, quando la predicazione sovversiva istigherà un odio feroce verso gli uomini in camicia nera, tale da autorizzare l’agguato, l’imboscata e lo sfregio dei cadaveri.

Resta però da dire che, per una più esatta valutazione, di “squadristico” in senso stretto questa azione ha ben poco, e la definizione che abbiamo dato di “proto squadrismo” è già più che generosa, trattandosi, in fondo, più che altro di una beffa ai danni dei socialisti di Montespertoli, mirata al “ratto” della bandiera, che è un classico, al punto che qualche squadra di tali prede farà collezione e ne adornerà le sedi.

Le cose precipiteranno per il concatenarsi di una serie di circostanze sfavorevoli, ma, soprattutto per l’accennato pressapochismo col quale l’azione è stata pensata ed attuata.

Manca la sorpresa (la presenza di Abbatemaggio è più che un campanello di allarme per i sovversivi locali, che la interpretano – e forse non hanno torto – come in missione di avanscoperta); non c’è un mezzo di trasporto autonomo che garantisca velocità nell’azione e possibilità di rientro altrettanto rapido (la vicenda si complica, in realtà, per l’impossibilità di tornare a Firenze dopo le prime burrascose avvisaglie nel caffè del paese); non si può considerare “minimo-sufficiente” il numero dei partecipanti (va bene l’inferiorità numerica che è una costante squadrista, ma quattro contro un intero paese sono davvero pochi) sia pure per raggiungere il circoscritto obiettivo di predare il drappo rosso.

Diversamente, per esempio, andranno le cose nella quasi contemporanea azione su San Lazzaro dei fascisti bolognesi, della quale si dirà, che ha più i caratteri dello squadrismo che verrà, anche per il suo significato “redentore” di una comunità “traviata” dalla predicazione sovversiva e di sostegno a chi a tale predicazione non crede.

Dall’avventura/disavventura di Montespertoli, comunque, Dumini ne uscirà complessivamente bene. E’ confermato il suo coraggio spregiudicato, il suo ruolo di leader, e, nello stesso tempo egli diventa l’elemento più rispettato e temuto dagli avversari, che così ne alimentano il mito. Nei mesi a venire, quasi ovunque – e non solo dalle sue parti – ogni volta che ci sarà un protagonista di fatti di violenza che parla con accento toscano, le vittime faranno il nome di Amerigo Dumini.

Nello stesso tempo, prende corpo una consuetudine destinata ad affermarsi nel tempo.

I fascisti, pochi ed isolati nei loro paesi, praticamente indifesi di fronte alle prepotenze avversarie, quando sono proprio allo stremo, si rivolgono ai camerati del capoluogo per un aiuto. Una telefonata o una visita al Gambrinus e l’intervento di pochi ma fegatosi, capaci di ribaltare le situazioni, è assicurato.

Due esempi degni di menzione, perché in entrambi i casi la richiesta di soccorso parte da piccoli paesi, arriva a Firenze, e i “richiedenti” non sono proprio gli ultimi venuti.

Il Capitano .Francesco Baldi, da Barberino del Mugello, il 10 dicembre del 1920, si rivolgerà ai camerati del capoluogo per un aiuto, dopo che i sovversivi prima lo hanno assediato in casa con i suoi familiari, e poi hanno minacciato di tornare e dare fuoco all’abitazione.

Non è un pauroso Baldi, che è stato valoroso combattente, nominato Capitano per meriti di guerra, e a deciderlo a quel passo è solo l’insostenibilità della situazione.

A Frullini, anche in questo caso è affidato il racconto, al solito colorito, di come vanno le cose:

Mi trovavo alla mezzanotte circa, con vari fascisti al Gambrinus. Ad un tratto il proprietario del locale, signor Luigi Orlandi, mi pregò di recarmi al telefono, perché il Capitano Francesco Baldi desiderava di urgenza parlarmi da Barberino di Mugello.

Appena all’apparecchio udii la voce affannata di Francesco Baldi che mi pregava vivamente di andare in soccorso di lui e della sua famiglia perché erano stati minacciati di morte dai sovversivi locali. Promisi il mio intervento e preparai la spedizione.

Giunti sulla piazza trovammo subito un incaricato che ci condusse dal Baldi, il uel, gettandomi le braccia al collo, mi narrò l’accaduto. E cioè che dopo un comizio comunista, gli avversari avevano dato un infruttuoso assalto alla sua villa, il quale avrebbe dovuto ripetersi nelle prime ore del mattino.

Stabilimmo subito di comune accordo alcune spedizioni di rastrellamento e punitive, ed il sequestro dei più accesi elementi comunisti, ciò che fu fatto con la rapidità che ha sempre caratterizzato ogni avvenimento fascista.

Condotti i comunisti nella casa del Popolo, furono rinchiusi in una sala nella quale lasciai Sorbi, armato di moschetto alla loro guardia.

Nella prime ore della mattina feci dare loro la colazione e mezzogiorno pastasciutta con bistecca. Come si vede, non mancavamo di fa stare bene, quando ci era possibile,i nostri avversari.

La sede della Casa del Popolo subì un certo cataclisma, forse derivato da un locale movimento tellurico, essendo, come tutti sanno, quella località di origine molto vulcanica.

Salutato Baldi, la spedizione fece ritorno a Firenze. (5)

 

Non è un pauroso nemmeno il pluridecorato Capitano degli Arditi Pietro Tongiorgi, uno dei protagonisti dell’avventura fiumana, nel corso della quale ha occupato Arbe, che lascerà, ultimo dei dannunziani, solo il 12 gennaio del 1921.

Ma anch’egli, che ha lottato con la morte a paro a paro, di fronte alla schiacciante superiorità numerica degli avversari che minacciano la vita sua e dei suoi cari, non può fare altro che rivolgersi a Firenze.

Lui, che ha avuto il privilegio di essere personalmente vicino al Poeta, che lo ha conosciuto, stimato ed amato, “irriducibile” Comandante degli “Irriducibili” Arditi del XII Reparto d’Assalto, rientrato in Patria forse anche per tenere fede a questo appellativo, sarà tra i primi fascisti di Pescia, che è la sua città natale.

La sua richiesta di aiuto, quindi, non può restare inascoltata. Dal “Gambrinus”, in una ventina, guidati da Frullini e Banchelli, puntualmente arrivano i temuti fiorentini. Si trovano, però, di fronte ad una reazione forse imprevista, e devono, prima di risolvere la situazione a loro favore, lamentare un ferito grave:

Ad un tratto, su un ponticino, la folla ci stringe da presso. Erano centinaia armati ed urlanti, e mentre volavano le nostre sante legnate e frange l’aria il caratteristico rumore degli schiaffi, alternato da qualche colpo di rivoltella, vedo a pochi passi da me un brutto ceffo che, con una mano in tasca si avvicina cautamente ad uno dei nostri che era impegnato contro un gruppo di avversari.

Pure io, stretto dappresso dai comunisti, cerco di avvicinarmi, quando un grido acuto di dolore parte dal camerata Gino Vannini. Un balzo e sono nel mezzo, a tempo di sorreggere il povero Vannini che grondava sangue per due ferite di pugnale alla schiena.

Mentre con un braccio lo sorreggevo, con l’altro, impugnando la mia Mauser, feci fuoco più volte contro il vile aggressore che se la svignava in fretta. (6)

 

Così vanno ormai le cose, con sempre più frequenza, in provincia di Firenze, e si può ben dire che il precedente montespertolino ha fatto scuola

 

FOTO 3: Mario Sironi, “Spedizione punitiva”

FOTO 4: squadristi fiorentini

 

NOTE

  1. Roberto Cantagalli, Storia del fascismo fiorentino 1919-1925, Firenze 1972, pag. 127
  2. Bruno Frullini, Squadrismo fiorentino, Firenze 1933, pag.39
  3. Roberto Cantagalli, cit., pag. 120
  4. Giorgio Sacchetti, Sovversivi e squadristi, 1921: alle origini della guerra civile in provincia di Arezzo, Roma 2010, pag. 68
  5. Bruno Frulli, cit., pag. 93
  6. Ibidem, pag. 161

 

 

 

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