10 Aprile 2024
Filosofia della Storia

Dal Medioevo all’avvento della modernità ed oltre – 5^ parte – Umberto Petrongari

(…prosegue)

Che posto occupa, allora, la sessualità nella mentalità scolastica? Facendo riferimento all’aristotelismo, si è visto come per esso la moralità sia la cosa che conta maggiormente. Anche, dunque, nel rapportarsi alla propria ‘donna’, l’aspetto sentimentale della relazione avrà la priorità: il ‘sesso’ sarà subordinato a detto aspetto. Ora, se il sesso è espressione d’odio (può esserlo, ma, più generalmente, è espressione di – più mite – ‘antipatia’ nei confronti dell’amante, culminante nell’indifferenza per esso, ad ‘atto sessuale’ compiuto), non resta da far altro che ingentilire, mitigare, costantemente (dall’inizio alla fine del rapporto sessuale, e con lo scambio di effusioni dopo che l’eiaculazione è stata raggiunta) l’antipatia provata verso il partner attraverso il sentimento: ‘sesso’ e ‘sentimento’ devono quindi compenetrarsi, a partire dai ‘preamboli amorosi’ e fino all’orgasmo (e anche oltre quest’ultimo, dunque). ‘Amore’ e ‘odio’ – se considerati nella loro purezza – coinciderebbero dunque (così come ‘tolleranza’ e ‘indifferenza’). Con l’avvento del ‘rinascimento’ – per l’intero suo corso – l’ideologia dell’amor cortese si trasporrà nella pittura: misuratezza e sensualità andranno a caratterizzare le figure ritratte nei quadri rinascimentali, le quali, oltretutto, si manterranno anche un po’ stilizzate; la ‘rottura’ con tutta la precedente tradizione pittorica non risultò, perciò, interamente compiuta. Per una pittura molto più realistica si dovrà attendere l’avvento di Caravaggio e degli ultimissimi esponenti della scuola pittorica fiamminga (ma anche nella maggior parte dei loro dipinti non venne del tutto meno il gusto per la stilizzazione di ciò che vi raffiguravano). Ma a partire da tale momento le arti figurative diverranno sempre più realistiche, fino all’avvento delle ‘avanguardie storiche’ (salvo – neanche troppo rare – eccezioni; è il caso, ad esempio, del ‘simbolismo’, piuttosto che del ‘post-impressionismo’, ottocenteschi). Avremo dunque modo di parlare della filosofia (perlomeno di parte di essa) che ha accompagnato secoli di realismo figurativo. Ma cosa deve intendersi per realismo? Facciamo riferimento alla sola pittura. In un quadro realistico le immagini raffigurate sembrano plastiche o corpose, presentando inoltre, dettagliatamente, una (per così dire) ‘variegata’ complessità, legata alla loro non-astratta individualità o singolarità. Se a venire raffigurate in esso sono delle immagini umane, esse devono essere espressive, non solo nei volti, ma anche nella gestualità o, addirittura, nelle azioni che stanno compiendo: solo in tal modo esse riescono a coinvolgerci, tanto da farci entrare in empatia con esse. E l’empatia è tanto maggiore, quanto più le cose raffigurate presentano una superficie usurata, consumata, per via dell’azione di ciò che è esterno a tali cose (come del sole, dell’aria, della pioggia), e per via di ciò che logora detta superficie in base ad un processo (egualmente dialettico) di invecchiamento (processo che, nel caso dell’uomo, potrebbe addirittura aversi da subito, ossia da quando è un neonato. Più, però, che di ‘processo di invecchiamento’, si potrebbe in modo più idoneo parlare di ‘processo di deterioramento’; ‘proporzionalmente’, infatti, chi è ancora ‘in fasce’ ha più robustezza persino di chi, nella gioventù, sembra aver raggiunto l’apice del suo vigore fisico, in quanto il suo corpo ‘in carne ed ossa’ ha raggiunto la massima crescita o espansione). E così, anche la visione di un ritratto, oppure di un ameno quadro paesaggistico, può procurarci – quantomeno – serenità d’animo, per via del fatto che la ‘Natura’ rappresentata in entrambi i casi, non è soggetta (anche in senso metaforico) a ‘turbolenze’ di sorta.

Ebbene, Dante (specialmente nella sua Commedia; ma anche alcune poesie petrarchesche mi pare presentino uno stile analogo a quello dantesco) anticiperebbe, in ambito poetico, ciò che, in pittura, lo si avrà, dunque, solo intorno al seicento; Dante, nelle sue poesie, vuole ‘rendere’ (cosa – per giunta – assai difficoltosa da compiere) la realtà, il ‘reale’ (attraverso la musicalità del ‘verso’ e delle parole – attraverso il loro suono – ma anche attraverso il loro ‘colore’, attraverso la ‘grande espressività’ ed ‘eloquenza’ delle sue descrizioni, attraverso – infine – l’uso di parole dal timbro ‘duro’, che ‘ci danno’ la realtà in tutta la sua ‘greve’ concretezza e consistenza).

La poetica dantesca si ispirerebbe interamente all’estetica platonico-aristotelica: i punti di vista sull’arte di Aristotele e Platone, a mio parere, coinciderebbero, infatti. Se per Aristotele l’arte è ‘mimesi’ della realtà (e ha uno scopo ‘catartico’, ovvero ‘moralmente edificante’; in tal senso ‘purificatore’ dell’animo), assai similmente, per Platone, l’arte è una copia dell’esperienza sensibile, modellata (quest’ultima), a sua volta, sulle Idee. Ora, non è affatto detto che Platone respinga l’arte (non è detto, insomma, che l’arte lo ‘ripugni’): per Platone (così come per Aristotele) l’arte deve ‘formare’ gli individui (rendendoli ‘umani’, ‘dotandoli di Humanitas’); ma questi ultimi devono poi (e questa è la cosa più importante!) ‘com-muoversi’ nella ‘vita reale’ (‘concreta’, ‘vissuta’), agendo cioè ‘moralmente’ (ovvero ‘socialmente’) in essa. Insomma, una vita ‘partecipata’ è più importante della ‘solitaria’, ‘isolata’, contemplazione e fruizione di opere d’arte. Bisogna tuttavia dire e precisare come tutta l’arte non corrisponda mai all’ ‘immediatezza’: ciò varrebbe sia per l’arte ‘classicamente intesa’ (sopradescritta), sia per ogni altro tipo d’arte (l’ ‘arte in generale’ – in altre parole – è sempre alterante, contraffacente, ‘mediazione’ o ‘mediatezza’). ‘Arte’ è infatti tutto ciò che soddisfa un nostro bisogno (sia pure di ‘altruismo’, sia pure esso – più generalmente – un bisogno di ‘socialità’). E così, si può anche apprezzare un qualsiasi ‘utilizzabile’, per via del fatto che è in grado di assecondare un certo nostro desiderio (che lo si ha nel momento in cui contempliamo ‘con brama’ quello ‘strumento’). Ma quando – viceversa – ‘tutto’ è tale da lasciarci quasi indifferenti e (dunque) poco ‘infastiditi’, ovvero poco ‘appassionati’ (essendo ‘ogni possibile cosa al mondo’ nel modo dell’ ‘insignificanza’), è proprio allora che ‘tutto’ si mostra (alla nostra ‘mente contemplante’, profondamente assorta) nella sua vera, autentica, ‘subitaneità’ (e ‘vanità’). È allora che si ha dunque a che fare con la sola ‘semplice presenza’, di cose dunque sensibili: esse le cogliamo, in quel momento, nella loro quasi fredda (massimamente ‘raffreddata’) immediatezza sensibile. Ma torniamo per un attimo a Platone. A quanto sembra, non avrebbe considerato un tipo d’arte consistente (direttamente) nell’imitazione di un’Idea. Eppure nel contesto della democrazia ateniese, l’arte sarebbe consistita proprio in ciò. Ora, l’Idea è qualcosa di singolare, essendo soggetta al ‘principio degli indiscernibili’, ma non è soggetta al ‘divenire’ (per questo – ad esempio e in primo luogo – il Doriforo di Policleto mostra un altissimo grado di ‘staticità’). L’Idea pura non è dunque soggetta a nessuna dialettica (generalmente trasformatrice e, dunque, anche ‘alterante’). Proprio per questo, contemplandola ‘in tutta la sua glaciale e assolutamente inespressiva purezza’, non si può provare alcunché; si è gelidi nel ‘farne esperienza’, in quanto non è soggetta a (per così dire) nessun ‘acciacco’ (non si può ‘compatire’ chi gode di un’apicale e assoluta ‘salute’, ‘sanità’).

Ora, quando l’artista ‘fa ritorno dal mondo delle Idee’ (pur essendo esse di natura ‘immaginativa’), dal ‘puro Iperuranio’, concretizzandole in un’ ‘opera d’arte’, esse non possono che perdere la loro assoluta estraneità ad ogni ‘dialetticità’ (da cui consegue l’assoluta freddezza che esprimono), divenendo (‘per forza di cose’) oggetti empirici e sensibili, soggetti al divenire (così come ogni altra cosa della Natura). E così – ad esempio e in primo luogo – il Discobolo di Mirone è l’ ‘uomo’ ‘catturato’, ‘colto’, nel momento, nel ‘preciso istante’ in cui oppone il massimo delle resistenza possibile ad ogni elemento (e ad ogni fattore) naturale che lo ‘contraria’ (dialetticamente, dunque). E il suo sguardo estremamente disteso, calmo, tranquillo, è tale da suscitare in noi stessi uno stato di grande, ‘apollinea’, serenità. Ebbene, se questo è il senso (ad esempio e in primo luogo)                      dell’ ‘estetica’ di un filosofo come (‘il primo’) Schelling, ritengo che i Greci (ancora in un contesto come quello dell’Atene periclea, ‘classica’), abbiano attribuito alle loro sculture un significato abbastanza differente rispetto a quello anzidetto: i Greci esaltavano oltremodo il valore della (fugace) giovinezza, il valore (dunque) del ‘cogliere l’attimo’, del ‘cogliere il frutto quand’è maturo’ (a volerci esprimere proverbialmente).

Se con Cartesio la rottura con la filosofia scolastica non fu, dopotutto, neanche troppo radicale, già con Spinoza (come vedremo in seguito) lo sfaldamento dell’oggettività (e ‘oggettità’) universale, cosmica, andrà ad aversi in modo già alquanto marcato. Quella espressa da Cartesio è infatti, in larga misura, non soltanto una concezione (che potremmo menzionare come) ‘popolare’, ma è addirittura tale che il ‘volgo illetterato’ potrà (in una certa qual maniera) farla propria (sarà ‘costretto’ ad appropriarsene) ai fini della sua emancipazione politica, economica e sociale. Ciò, grazie primariamente all’accettazione, da parte di Cartesio, del moderno metodo scientifico (cosa che, fra l’altro, lo distanziava intellettualmente da chi era rimasto ancora legato all’infruttuosa ‘fisica aristotelica’). Se, difatti, non vi è certamente piena coincidenza tra la filosofia cartesiana e quella espressa dalla ‘vulgata marxista’ (‘ideologia filosofica’ propria dei comunismi storicamente realizzatisi, concretizzatisi, alquanto differente rispetto all’ ‘ortodossia marxista’, ovvero al pensiero di Karl Marx), sono tuttavia vari (e significativi) i ‘punti di contatto’ tra l’una e l’altra concezione (non parlerò troppo delle loro differenze, in quanto su di esse mi sono già pronunciato in alcuni miei scritti). Il ‘popolo’ vuole ‘rassicurazione’ e ‘positività’ (nella sua vita): il ‘materialismo’ legato al modo cartesiano di concepire la ‘res extensa’ è tale che l’intero universo sia (materialmente) esistente, in quanto ha un inizio e una fine, in quanto è (forse ‘sfericamente’) limitato, in quanto le sue parti più piccole (in assoluto) sono ‘elementari’ (nonostante Cartesio rifiuti la nozione – filosofica – di ‘atomo’, ovvero di qualcosa di ‘indivisibile’. Ciò nonostante, per il pensatore francese, le ‘particelle elementari’ – pur essendo estese, e dunque divisibili – risulterebbero – al contempo e contraddittoriamente – ‘semplici’ e ‘compatte’); insomma, per Descartes l’universo (materiale) in quanto ‘oggetto’, non presenterebbe nessuna ‘nota irrazionale’ (nel suo concetto), motivo per cui ‘esisterebbe’ certamente (il cosmo sarebbe, in altri termini, ‘concreto’, ‘reale’). Ciò, da un lato. Dall’altro lato, la ‘res cogitans’ accompagna – separatamente da ogni altro corpo umano – l’intera corporeità di un qualsiasi essere umano, in modo tale che, quest’ultimo, possa ‘sentirla’, possa ‘avvertirla’, per intero (appunto). Ma, in tal modo, quando agiamo (in una qualsiasi maniera) ‘in favore’ dell’ ‘altro’, del ‘prossimo’, lo facciamo disinteressatamente, ovvero non-egoisticamente, in quanto (ad esempio) ci com-muoviamo per ‘qualcuno’ che non corrisponde a ‘noi’, essendo completamente separato (nella sua esistenza materiale e, soprattutto, nella sua – annessa – coscienza) da ‘noi’. Infine, anche per Cartesio, la nostra esistenza (l’ ‘esistere’, la ‘vita’, di ‘ognuno’) è ‘felice’ (anche se ‘empatia’ e ‘felicità’ non possono ‘coesistere’). Nel pensiero relativo alla ‘vulgata marxista’, vi è la ‘materia’, vi sono (dunque) gli ‘indivisibili atomi’ (perlomeno nelle primissime formulazioni di detto pensiero), ma vi è anche la ‘coscienza’ (quale, tuttavia, ‘prodotto’, ‘emanazione’, ‘materiale’ di un ‘sistema nervoso’). Ora, il ‘proletario’ non agirebbe egoisticamente, dialetticamente, se la sua (di fatto) ‘anima’ (praticamente è come se la avesse) non fosse come ‘soffocata’ in presenza di ‘condizioni materiali’ ad esso sfavorevoli. Ma quando ‘ottiene’, ‘raggiunge’, un’esistenza dignitosa, cessa di essere un egoista, divenendo un uomo ‘umano’, agendo disinteressatamente (non-egoisticamente) – divenendo inoltre ‘felice’ – ed essendo, infine, anche ‘qualitativamente’ diverso dal ‘borghese’, il quale disporrà sempre di un animo ‘animalesco’ (egoistico, dialettico, conflittuale contro tutto e tutti).

Chiusa tale breve parentesi sulla ‘vulgata marxista’, veniamo a parlare del ‘borghese’ (delle sue ‘filosofie’). Anche il ‘borghese’ ha bisogno di ‘sicurezze’ al pari dell’ ‘uomo del volgo’. Eppure, più di quest’ultimo, tende – in modo audace, cinico e spregiudicato – alla ‘verità’, e dunque, al progressivo sfaldamento, alla graduale disgregazione, di ogni (per così dire) ‘punto fermo’. Pur tuttavia, non è disposto a rinunciare al proprio egoismo (a salvaguardare la propria persona e le sue proprietà, i suoi possessi). Può dunque continuare a vivere in un ‘mondo dove tutto è franato’, purché se stesso ‘resti in piedi’, purché restino in piedi degli strumenti (meramente) pragmatici – anche se non effettivi, non effettuali, oppure ‘irreali’ – che gli assicurino protezione (che gli assicurino la sua più ottimale salvaguardia). Veniamo dunque a Spinoza. Per il pensatore olandese, di Dio, possiamo conoscere due dei suoi attributi, il ‘pensiero’ (la ‘coscienza’) e l’ ‘estensione’ (la ‘materia’). Concentriamoci unicamente su quest’ultima: è il ‘corpo’ divino, non coincidente con la realtà empirica (che ne è la deformazione). Per Cartesio essa è un insieme di particelle elementari che la nostra mente raggruppa, ‘cogliendo’, in tal modo, dei ‘corpi’ separati gli uni dagli altri: Spinoza menziona tali ‘raggruppamenti’ come ‘modi finiti’ – ossia determinati, interamente delineati, contornati – della materia. Ma per Spinoza, a differenza di Descartes, le particelle elementari ‘estese’ sono infinitamente divisibili. In più per il pensatore ebraico l’ ‘universo’ (ossia, la ‘totalità degli enti’) è infinito (è ‘infinitamente grande’); il cosmo, considerato nella sua ‘spazialità attuale’, è dunque infinito (costituendo un ‘modo infinito’ dell’estensione). Ma anche temporalmente è infinito: pensarlo come – temporalmente – senza un inizio né una fine, è ‘cogliere’ (ancora una volta) un suo ‘modo infinito’. Insomma, la ‘corporeità divina’ – in quanto tale – è spazialmente ‘infinitamente grande’ (ma anche ‘infinitamente piccola’); temporalmente, è invece ‘eterna’. Ma l’ ‘irrazionalità’ del ‘corpo di Dio’, lungi dal ‘non essere’, corrisponde (al contrario)                        all’ ‘essere’ divino (quantomeno, a una sua ‘parte’). Il Dio spinoziano non è il Dio-persona, dotato, in quanto tale – in primo luogo – di ‘buona volontà’ (in altri termini, delle ‘categorie’), dunque di ‘amore per gli uomini’: la materia è ‘concreta’; il ‘libero arbitrio’, essendo ‘nulla’, non ‘può nulla’ su ciò che è ‘concreto’ (realmente sussistente). Solo una causa materiale può produrre effetti: il ‘corpo di Dio’ non può che soggiacere alla necessità. E la ‘morale’ spinoziana si fonda unicamente su ciò: i suoi svariati ‘modi finiti’, ‘colpendo’ dei ‘modi finiti’, ‘procurano del male’ (egoisticamente) a se stessi; Dio non può (per così dire) ‘darsi da sé la zappa sui suoi piedi’. A questo punto, colgo l’occasione per rivedere quanto asserii (in un mio scritto) a proposito di Spinoza – e soprattutto di Herbert Spencer – relativamente al loro aver attinto dalla Cabala nell’aver elaborato le loro rispettive filosofie. Ebbene, in realtà la Cabala e queste ultime avrebbero non moltissimo da spartire. Se in essa vi è – comunque – l’idea di un Dio quale unica realtà esistente (onnicomprensiva) che non deve contraddirsi moralmente (dunque ‘nel suo operare complessivo’), tale idea sarebbe – del resto – presente anche nella Genesi. Mi sembra invece che, nella Cabala, un Dio in origine infinito ed eterno, decida (liberamente, potendo inoltre sempre decidere di ‘tornare indietro’, essendo ciò ‘in suo potere’) di (per così dire) ‘amputarsi’, rendendosi – in tutto e per tutto – razionale e (dunque) oggettivo (comprensibilmente sussistente). Per Leibniz l’intera realtà empirica è una rappresentazione: non può esistere in quanto, non solo ogni cosa – in quanto tale, spazializzata – è suddivisibile all’infinito, ma è una rappresentazione anche perché il presente è un punto inesteso (e dunque inesistente); si danno unicamente ‘estensioni temporali’, per quanto minime.

Eppure ogni possibile rappresentazione sensibile ha un’interiorità ‘reale’ (per lo più percezioni incoscienti): ma tutte le infinite parti in cui è suddivisibile la hanno; gli esseri gerarchicamente superiori in Natura hanno coscienza delle loro percezioni (essendo dotati di ‘appercezione’). Se per Platone le Idee hanno natura immaginativa, per Leibniz esse sono assolutamente indeterminate e indeterminabili (da parte della ‘mente umana’): coincidono con tutti i ‘possibili’ (infiniti), con ogni possibilità o ‘virtualità’; unicorni, chimere, coltelli, tavolini, bronzo, vetro (insomma, ogni cosa reale e irreale, inoltre ogni umano artefatto), risiedono per Leibniz nella ‘Mente divina’ (ora, tenuto conto della differenza tra il modo in cui Platone e Leibniz concepiscono le Idee, anche per il filosofo ateniese esse sono infinite? Oppure esistono solo quelle Idee – anche di artefatti – che – metaforicamente – il ‘Demiurgo’ concretizza, realizza, empiricamente?). Per Leibniz Dio, dotato di libero arbitrio, concretizzerebbe, tuttavia, solo parte dei ‘possibili’, e il ‘mondo’ sarebbe rigidamente soggetto al suo ‘disegno provvidenziale’. Fra l’altro, per il pensatore tedesco non esiste la ‘quiete’, e non solo perché ogni corpo agisce sul baricentro di ogni altra possibile cosa muovendola sia pure (quasi) impercettibilmente. Persino una cosa che si è mossa ‘per contatto’ (con un’altra cosa, ovviamente) non raggiunge mai la ‘pura quiete’, continuando a muoversi in modo pressoché impercettibile. A partire da questo momento svolgerò alcune precisazioni (mi si offre infatti l’occasione per poterlo fare). Innanzitutto, Leibniz ha ragione nel dire che ogni cosa è suddivisibile all’infinito (nonché del fatto che si possono offrire unicamente ‘estensioni temporali’). E così, nell’ambito delle scienze empiriche, era ovvio che venissero scoperte delle particelle subatomiche. E certamente, in futuro, se ne scopriranno di nuove. Esiste, tuttavia, qualcosa che limiterà tali tipi di scoperte? Quando l’uomo scomparirà dal pianeta, la scienza (com’è ovvio) si arresterà. Ciò che non riusciremo a scoprire (ovvero, ‘a produrre’), sarà come ‘inesistente’ (nonostante – inoltre – le ripercussioni ‘di ciò che non scoveremo’ sul piano del ‘visibile’; si avrà infatti – in linea teorica – comunque a che fare con una serie – praticamente – ‘conchiusa’ di cause ed effetti). Ora, quando ho stilato uno scritto su alcuni esistenzialisti, non mi era del tutto chiaro se essi avessero fatto propria una visione dello spazio e del tempo analoga a quella (anche, e quindi ‘non solo’) leibniziana. Ritengo tuttavia che (più generalmente) alcuni filosofi del novecento abbiano conservato (più o meno) la visione che, dello spazio e del tempo, ebbe Kant. Potrebbe essere il caso di Julius Evola, ma anche di Deleuze: se quest’ultimo nella Logica del senso parla del ‘presente’ come di un ‘punto inesteso’ (e dunque inesistente), nell’Anti-Edipo pare aver recuperato (più o meno fedelmente) la concezione spaziotemporale kantiana. Ebbene, secondo Kant il ‘punto spaziale’ non avrebbe ‘dimensioni’ (‘estensione’), eppure coinciderebbe con una ‘semplice’ e singola (nonché ‘singolarissima’) ‘impressione sensibile’. Quest’ultima verrebbe appresa ‘in un istante’, egualmente inesteso: ora, dalla somma di più ‘istanti’ inestesi, verrebbe fuori per Kant (mettiamo) una ‘linea’ (‘unidimensionale’, per giunta), composta da un insieme di ‘elementari impressioni’. Ma, dalla somma di più ‘zeri’ (i ‘punti spaziali’, appresi, per giunta, in un ‘attimo’ che ‘non è’), come può venir fuori una ‘linea’, ovvero qualcosa di ‘visibile’ (che non sia ‘un niente’, ovvero che non corrisponda al ‘nulla’)?

Per quel che riguarda i principali ‘idealisti’, Fichte ha quasi certamente fatto propria la concezione kantiana dell’istante e del ‘punto spaziale’, mentre Schelling ed Hegel – oltre a ciò – avrebbero ritenuto che l’ ‘apprensione’ di un ‘oggetto’ (kantianamente propriamente detto, ovvero composto da più impressioni) sarebbe stata possibile unicamente ‘negando’ tutto ciò che tale ‘ipotetico’ oggetto non è, in modo tale da ‘determinarlo’ (mentre le sue ‘impressioni’ sarebbero per i due ‘idealisti’ oggetto di ‘apprendimento’ e di ‘riconoscimento’ sensibile istantaneo). Tornerò a far riferimento ai tre suddetti filosofi (nonché a Kant), in merito alle loro vedute sull’ ‘arte’. Veniamo, infine, a Hume. Il suo punto di vista filosofico è pienamente (e tipicamente) ‘scettico’: la realtà empirica può essere contingente e rappresentativa; può essere ‘reale’, ma egualmente contingente; può essere (infine) ‘reale’, e ‘necessaria’ quanto al suo ‘ordinamento’, ma solo a patto che esista Dio. Ebbene, il filosofo scozzese è stato forse un ‘cristiano’ per puro ‘atto di fede’. Hume parla del ‘libero arbitrio’, intendendolo nella maniera seguente: si può ritenere (non avendo fede alcuna) che il mondo sia ‘contingente e rappresentativo’; in tal caso si ‘opterà’ per l’essere degli ‘egoisti senza morale’ (anche per Hume, così come per ‘certo empirismo’ – anche e soprattutto – ‘presocratico’ – contraddittoriamente – la ‘rappresentazione’ è al contempo trattata come ‘reale’, anche se tale ‘realtà’ corrisponde unicamente al ‘soggetto solipsistico’). Ma si può anche ‘credere in Dio’, agendo di conseguenza (‘secondo moralità’, conformandoci cioè ai dettami dell’Humanitas). Ho dunque, fino ad ora, mostrato come (suppergiù), prima dell’avvento delle ‘avanguardie’, l’arte abbia espresso dei ‘sentimenti’ (sia stata ‘sentimentale’), nonostante, dopo Cartesio, le ‘nuove filosofie’ – piuttosto influenti socialmente – abbiano per lo più manifestato una ‘tendenza sfaldante’ dell’ ‘essere’ in generale (o, piuttosto, dell’ ‘oggettività’). Ho fatto poi certamente riferimento (in questo saggio) soltanto ad alcuni filosofi moderni; ciò, da un lato, per non essere prolisso (più del dovuto). D’altro lato, mi si è offerta la possibilità di revisionare alcune affermazioni da me svolte in un mio libro su alcuni filosofi moderni, non esatte, o anche ‘incerte’.

In conclusione (della mia digressione sull’arte), c’è da dire, tuttavia, come Kant e Fichte abbiano respinto l’arte in nome dell’ ‘antiartistico imperativo categorico’, ‘tale’ proprio in quanto consistente (soprattutto) nella ‘disobbedienza’ (sia pure ‘etica’, e non ‘ascetica’) a ‘bisogni’. Vorrei inoltre precisare una cosa: l’uomo si conforma ai suoi ‘doveri’ in quanto ‘scopre’ che ‘per sua natura’ (scopre che ‘per essenza’) è ‘libero’. Si conforma – dunque – necessariamente ad essi per ‘intelligenza’, ovvero (potremmo dire) ‘in nome della verità’. Ma ciò che è ‘vero’, non solo è ‘giusto’ (seguirlo), ma è anche ‘bello’: ora, Kant può anche non essersi esplicitamente pronunciato su ciò, ma qualsiasi sia la nostra ‘natura’, essa non può che ‘piacere’ (in generale), ‘piacerci’, non può – dunque – che (irresistibilmente) ‘attrarci’ (da cui – nel caso del kantismo – il nostro ‘adeguarci’ a quanto risulta – anche – esserci – ed essere – ‘piacevole’, ‘gradevole’).

Se all’ ‘estetica’ schellinghiana si è già accennato, per quel che riguarda Hegel, costui, pur non respingendo l’ ‘arte’, la considerò come qualcosa di ‘ingenuo’, in quanto espressione ‘inconscia’ di mero ‘utilitarismo etico’. Facendo infine riferimento a Spencer (in quanto operò anche  nell’ ‘ottocento inoltrato’), non è detto che si sia pronunciato a favore di un freddo, scientifico e oggettivo ‘naturalismo’ (ovvero dell’ ‘impressionismo’): anche costui avrebbe apprezzato un’arte di tipo ‘classico’ e ‘sentimentale’. Vedemmo come l’uomo (perlomeno originariamente) tenda alla sopraffazione di tutto e tutti. In base ad una visone alternativa rispetto a quella appena detta, l’uomo tenderebbe invece a porsi ‘alla pari’ di ogni altro uomo (‘conformandosi’, ‘uniformandosi’, ad ogni altro uomo). L’essere umano riceve influenze che lo rendono più libero (più immorale) o meno libero (più morale): ebbene, in base al suo modo d’essere, sceglierà (innanzitutto) un certo tipo di lavoro (un certo tipo di ‘attività’) piuttosto che un altro, un certo tipo di donna, un certo tipo di amici (e un certo tipo di abbigliamento, di casa, di automobile, ecc.), e poi certi tipi di diversivi (divertimenti, distrazioni, passatempi, relax, svaghi, hobby, ‘attività culturali’, ecc.). Le cosiddette ‘influenze del contesto’ in cui vive (in cui ‘è collocato’) – forse molto più delle sue ‘esperienze personali’ – lo plasmano interamente nell’intero corso del suo esistere (‘destinandolo’ ad essere tutto ciò che è lungo la sua intera vita o esistenza). Si ricordi tuttavia come in realtà sia l’uomo a scegliere – e ‘per intero’ – cosa fare della sua vita (nonostante dunque l’azione – apparentemente, dunque – ‘condizionante’ di ogni possibile ‘fattore di propaganda’, con cui non può che ‘entrare in contatto’). Se l’uomo fosse un ‘fantoccio conformista’, sempre desideroso di sentirsi uguale alla ‘massa’ (soffrendo ‘oltremodo’ se non può uniformarsi ad essa), più ‘ascende’ socialmente (e ad ogni nuovo grado della sua ascesa sociale sarebbe costretto a mutare ‘atteggiamento’, ‘consumi’ – che divengono sempre più costosi – ecc.), più diviene ‘infelice’: il ‘meccanismo’ del ‘mercato capitalistico’ è infatti tale da produrre – indefinitivamente – ‘mode’ sempre nuove, motivo per cui tale processo è ‘infinito’; più ‘si ha’, più ci si allontana dall’ ‘origine’, in cui si è ‘oggetto di indifferenza’ da parte di ‘tutti’, per cui si è quasi ‘felicemente’ morti (si è quasi come ‘morti’). Quanto più ‘si ha’, tanto più la ‘gente bada a noi’ (‘ci dà peso’, ossia ‘valore’, ‘invidiandoci’, ‘amandoci/odiandoci’), ‘noi’ che, ‘guardando in avanti’, scorgiamo ben troppo chiaramente  l’ ‘infinità’ delle cose che ci mancano per raggiungere una pressoché ‘mortuaria’ felicità (coincidente, dunque, con l’ ‘origine’ da cui ‘eravamo partiti’, all’inizio della nostra ascesa sociale).

Ma le cose, per me, non stanno così. Alcune tipologie umane tendono quindi a divenire gli esseri socialmente più importanti, poiché materialmente ‘i più abbienti’ (e quindi i più potenti) del mondo intero. Tale obbiettivo lo si raggiunge quando la restante massa dell’umanità viene ridotta (per quanto ciò sia possibile) al più alto grado di ristrettezza economica (sebbene – dunque – essa si disponga secondo una gerarchia nella quale vi è chi ha di più e chi ha di meno).

Si può poi certamente non essere ‘i soli’ ad avere la ‘supremazia’ (essendoci un certo numero di ‘nostri pari’ che la ha come noi, avendosi, ‘dandosi’, dunque, un’ ‘oligarchia di potenti’). Inoltre il ‘mercato capitalistico’ continuerebbe ininterrottamente ad operare, motivo per cui la ‘moda’ (in senso lato) non cesserà mai, ‘mutando’ in continuazione. Ma, per quel che riguarda ‘l’avere dei pari’, ci si deve mettere l’ ‘animo in pace’, ‘accettando’ un tale ‘limite’ (rassegnandovisi). Per quel che riguarda invece le ‘mode’, esse (stavolta nel loro senso più proprio) non sono tali da ‘opprimerci’ in modo poi così intenso, ‘greve’: se il ‘borghese’ e l’ ‘uomo del volgo’ reputano il contrario, è perché esasperano ‘istericamente’ il ‘peso reale’ della moda (insomma, basta avere – per fare un semplice esempio – un paio di calzoni e una maglietta per ‘non sentirsi da meno degli altri’, prescindendo dal fatto che entrambi i capi d’abbigliamento debbano per forza essere ‘all’ultimissimo grido’). Si disse come l’ ‘uomo dell’altissima finanza’ sia un ‘puro’ nichilista. Ebbene, ciò potrebbe anche non essere vero. Potrebbe cioè avere un ‘animo borghese’. Ciò spiegherebbe anche l’ ‘esagerazione’ (la ‘pazzia’, se si vuole) del suo progetto (a ‘lunghissimo’ termine) di dominio del mondo intero (che ‘lascia in eredità’ ai suoi posteri, i quali lo ‘faranno’ dunque ‘proprio’, venendosi a dare una sorta di ferrea ‘tradizione ininterrotta’). Vedremo come il ‘nichilista’ non nutra simili ‘sogni’, né ha ‘isterie’ di sorta (non essendo – insomma e in primo luogo – un ‘modaiolo maniacale’). Ma torniamo al ‘puro finanziere’. Se, come si è detto, vi è una ‘meta finale’ da raggiungere (un ‘limite’), esso sarà (e diverrà) tanto più felice, quanto più ‘ascenderà socialmente’. Ma porsi a capo della ‘piramide sociale’ – dunque – non gli basta: deve difatti far propri il più possibile dei ‘beni’ a detrimento, a discapito, della restante intera umanità. Dunque, ‘agli albori della sua scalata’, il borghese ‘si sente una nullità’: ma più acquisisce potere, meno si ‘avvertirà’ come tale. Di indole contrapposta al ‘borghese’, è il più puro ‘aristocratico’, il ‘nichilista’: ovunque sia collocato socialmente, già sa di disporre del massimo della potenza di cui si possa beneficiare. Il nichilista è abulico e inetto (secondo un’accezione non lontana da quella che Svevo attribuisce a tale termine), ma anche (quantomeno ‘all’occorrenza’) abbietto e spietato, nonché cinico e sicuro di sé. Tutti i suoi ‘progetti’ non sono neanche minimamente ‘ambiziosi’, ma sono tutti (per così dire) ‘a portata di mano’ (se ha voglia di fumare, fuma, se vuole bersi una birra, si reca in un pub, se ha voglia di ballare, và in discoteca, ecc.). Ma se ha (ad esempio e in primo luogo) la fortuna di vivere in un ambiente ‘abbiente’, ‘agiato’ (essendo, ad esempio, un ‘giovane rampollo di buona – o di ottima – famiglia’), quasi ‘in via spontanea e naturale’, grazie alle suddette sue negative qualità (e quasi ‘senza volerlo’), verrà pressoché ‘scelto’ dal suo ‘ambiente’ per la sua graduale (e irrefrenabile) ascesa sociale. Si pensi a quei vari personaggi del passato che, ‘partendo da zero’ (o dal possedere ‘non tantissimo’), furono (quasi) letteralmente ‘destinati’ a costruirsi un vastissimo impero, il quale – oltretutto – dopo il loro decesso, crollò inesorabilmente (si è detto infatti che personaggi simili non pensano che a se stessi, e non sono abbastanza ‘folli’ per pensare a ciò che il futuro riserverà a quanto da essi conquistato; Attila è forse tra gli esempi più emblematici fra i personaggi della suddetta risma).                                                        

Se tra gli uomini che decidono di ‘agire’ nella vita, il nichilista è colui la cui esistenza ‘è la più gradevole’, un’esistenza massimamente godibile è tuttavia unicamente incarnata da chi pratica ‘il più puro ascetismo’. Si pensi agli ‘stiliti’, piuttosto che ad alcuni stati meditativi del buddismo, in cui si è in grado di restarsene seduti (con le gambe incrociate) ininterrottamente (ciò ‘vale’ – è cioè possibile – perlomeno in linea teorica). Il ‘puro asceta’ vive solo nel presente, per cui sperimenta, ad ogni singolo istante, uno stato di ebbrezza (per cui se ha fame, o ‘se viene preso a bastonate’, gli è indifferente, dal momento che la sua condizione di ‘pura passività’ – ovvero il suo ‘non-agire’ – è tale da incarnare – sempre e costantemente – il massimo della godibilità di cui si possa fruire). Il ‘nichilista’, l’ ‘aristocratico’, al contrario, nel momento in cui decide di agire, non può che sperimentare ‘stati di coscienza’ quali la noia (se intesa, non come ‘spleen’, ma quale movente di ogni azione umana che non corrisponda ad un ‘bisogno essenziale’ quale la fame, la sete, il sonno, ecc.), l’invidia (fosse pure rivolta al suo ‘avverso destino’), il timore (per definizione ‘rivolto al futuro’), ecc. ‘Agire’ significa infatti – necessariamente – condurre la propria ‘testa’ al passato per poter agire al presente, prevedendo, inoltre, cosa ci riserverà il futuro (un futuro anche molto ‘vicino’). Quando, insomma, si ‘vivono’, si ‘sperimentano’, le tre dimensioni temporali, non si può fare a meno di stabilire un ‘meglio’ e un ‘peggio’, per cui si sarà – praticamente in modo necessario – portati ad optare per il ‘meglio’ (anche in ‘progetti’ effimeri; se ad esempio ho voglia di fumare, cercherò di procurarmi una sigaretta per porre fine a tale mia voglia).

Chiarito tutto ciò che si è appena concluso di esporre, veniamo ad esaminare un fenomeno politico quale è stato quello della funzione (addirittura) degli stessi partiti comunisti del ‘mondo libero’ (e dei sindacati ad essi collegati); la situazione italiana in tal senso, fu emblematica (mi limito a tale accenno). Vedremo dunque (indirettamente: lo ‘immagineremo’) ‘a cosa serve’ (anche e soprattutto) la ‘sinistra’ (e anche e soprattutto ‘di opposizione’) in contesti che, oltre a disporre di alcune importanti risorse, sono anche molto ‘danarosi’ (e l’Europa si arricchì, essenzialmente in virtù dei soldi americani legati al Piano Marshall). Il contesto che, tuttavia, ora andrò ad esibire, è immaginario ed esemplificativo, non corrispondendo cioè a nessuna situazione politico-sociale specifica e concreta (eppure, spero che tale esposizione risulti comunque illuminante per comprendere il rapporto tra ‘l’universo della finanza’ e la ‘sinistra in generale’). Sarò inoltre estremamente schematico: in una nazione immaginaria molto ricca di risorse (di qualsiasi tipo) vi è una sola industria nazionale che sarà dunque in grado di procurare tutto quanto occorre all’intero popolo di tale nazione. Tale industria è protetta sia dalla concorrenza estera che da quella interna. Inoltre il suo stato provvede unicamente al pagamento della sua polizia, del suo esercito, della sua magistratura (la ‘sanità’, ad esempio, è unicamente, prettamente, ‘privata’). La gente richiede un certo tipo di prodotto, e la suddetta industria chiede un prestito all’ ‘unica banca al mondo’, cui dovrà pagare i dovuti interessi (oltre a restituirgli il prestito). L’industria riesce a vendere tutto quanto ha prodotto, ed ora può restituire il denaro alla banca e pagare i suddetti interessi. Con quanto ha guadagnato riesce ora (senza dover chiedere ulteriori prestiti) a produrre un nuovo tipo di merce molto richiesta sul mercato. Guadagna così ulteriormente, ma un nuovo, ulteriore, tipo di prodotto può essere adesso venduto (e così via). Ebbene, l’industria nazionale tende ad accumulare sempre più capitale a discapito di tutta la nazione. Lo stato di detta nazione ha poi dovuto chiedere un unico prestito per i costi del suo apparato (per il mantenimento della sua ‘macchina’), costi poco dispendiosi, per giunta. Ma più l’unica industria nazionale accumula denaro, più sarà in grado di pagare da sé (poniamo sia soprattutto lei a pagarle) tutte le tasse che occorrono allo stato ai fini del suo mantenimento. Insomma (concludendo), in una situazione simile, quell’unica banca al mondo ‘non intasca più un soldo’.Inoltre, il progressivo accumulo di capitale da parte dell’industria ‘straprotetta’, impoverisce, in modo graduale e crescente, l’ipotetica nazione cui ci si sta riferendo: il ‘borghese-imprenditore’ raggiungerà prima o poi il suo scopo, ovvero quello di essere il più ricco di tutta la nazione, nazione in cui la povertà cresce dunque progressivamente. Se precedentemente si è affermato che l’ ‘imprenditore’ pone a se stesso dei ‘limiti’ per poter ‘prosperare’ (dunque ‘il più che gli sia possibile’), ciò non è vero (insomma, l’affermazione svolta in precedenza và corretta): il ‘puro banchiere’ e il ‘puro imprenditore’ mirano ad uno stesso ed identico scopo (essendo – infatti – entrambi dei ‘puri borghesi’).

Liberalismo e socialdemocrazia sono dunque ‘invenzioni’ – o per lo meno ‘funzioni’ – del mondo della finanza. Tramite il primo (mettiamo), nell’immaginaria nazione, di industrie ne sorgono in gran numero, in modo tale che, in un certo, imprecisato, lasso di tempo, il denaro accumulato dall’unica industria nazionale – precedentemente ‘straprotetta’ – venga a distribuirsi piuttosto equamente fra le varie fabbriche sorte in virtù delle nuove misure liberiste (decise dallo stato). Supponiamo che le teorie economiche di Adam Smith siano veritiere e ineccepibili; i posti di lavoro aumentano a dismisura e i prezzi si abbassano notevolmente. Ma se la nuove e numerose industrie vogliono continuare a produrre (per ‘vendere’, per ‘soddisfare la domanda’), sono costrette a chiedere prestiti alla suddetta banca. Se dunque con la precedente, unica, industria nazionale, essa non guadagnava nulla, ora i suoi introiti aumentano notevolmente e si accrescono progressivamente.

Supponiamo poi che lo stato in questione introduca il welfare. Ora, tale stato, spende molto più che precedentemente: sorge il ‘debito pubblico’; la banca incasserà in tal modo ulteriori proventi. Ma affinché le industrie possano chiedere dei prestiti, è necessario che vi sia un numero molto ampio di risparmiatori (più o meno ‘piccoli’). Ebbene, il ceto medio-piccolo (insegnanti, impiegati, negozianti, ecc.), e il ceto medio-alto (medici, commercialisti, avvocati, ecc.), tendono entrambi al risparmio (nonostante i consumi di quest’ultimo ceto siano più dispendiosi rispetto a quelli dell’altro ceto). Insomma, entrambe le anzidette categorie sociali sono piuttosto ‘routiniere’ (non sono cioè costituite da ‘smodati consumatori’). Ma non si può infine prescindere da un ceto di ‘consumatori’ (più o meno) ‘sfrenati’ (affinché la ‘macchina capitalistica’ sia ‘ben funzionante’, e a principale beneficio della finanza, dunque): il proletariato và ‘imborghesito’. La figura del proletario ‘borghese’ non può fare investimenti (più o meno consistenti) come il ceto medio-piccolo e quello medio-alto (che spenderanno i loro soldi per comprarsi una ‘villa in campagna’, una ‘casa al mare’, una ‘barca’, un appartamento per poter riscuotere un affitto, una ‘seconda casa’, un edificio da affittare come ‘negozio’, ecc.). Il proletario-borghese vive magari in una ‘casa popolare’ (oppure deve estinguere il mutuo della sua sola abitazione): ebbene, tutto ciò che guadagna tende a spenderlo (non mettendo nulla da parte). Ma vi è anche un ‘sottoproletariato’ (lavoratori ‘a nero’, lavoratori saltuari, mano d’opera non-specializzata, mendicanti, emarginati, ecc.) che resta tagliato fuori (anche se magari, non ‘in tutto e per tutto’, pur cioè beneficiando ‘di qualcosa’) dal sopradescritto ‘meccanismo capitalistico’.

Ricapitolando, imprenditori e banchieri mirano ad uno stesso scopo (impoverire il più possibile ‘il mondo intero’: è in tal senso che vogliono entrambi raggiungere la ‘supremazia’); ma se il ‘banchiere’ vuole impoverire il mondo stesso dell’ ‘imprenditoria’ (con cui, dunque, è in ‘rapporto dialettico’, ‘conflittuale’) deve (in una prima, lunghissima, fase) servirsi della ‘sinistra in generale’ (liberalismo, socialdemocrazia, comunismo, ecc.), per poi iniziare a ‘smantellarla completamente’ (una volta che è divenuto assai più abbiente dell’ ‘imprenditore’, e dunque ben più ‘influente’ di quest’ultimo). Venendo al concreto, si pensi alla linea (di fatto) ‘socialdemocratica’ da sempre seguita dal Pci nell’Italia repubblicana, oppure al ‘liberalismo radicale’ di un Mazzini, piuttosto che di un Chomsky (sebbene tali due intellettuali abbiano guardato con grande favore al ‘mondo dell’artigianato’, in quanto posto – per così dire – ‘a metà strada’ tra l’ ‘artistico’ e l’ ‘utile’; idea – quest’ultima – che, ‘a destra’, è espressa – anche e ad esempio – da un intellettuale come de Benoist): ebbene, nessuno di costoro – né tantomeno il vecchio Pci – (perlomeno ‘di fatto’), pone e ha mai posto in discussione i principi ‘consumistici’ del capitalismo. E in cosa consistono (‘entrando nello specifico’) tali principi? Ma nel produrre essenzialmente il ‘superfluo’, ovvero quanto – in fondo di ‘effimero’ – è richiesto dal ‘mercato’ (ovvero, dalla ‘legge della domanda e dell’offerta’). E così, per fare un semplice esempio (fra l’altro, ormai, ‘obsoleto’), la ‘priorità’, all’interno del ‘meccanismo capitalistico’, è quello di produrre un ‘telefonino che fa le foto’, per poi produrre un ‘telefonino dotato di videocamera’ (e così via). Ma l’industria dovrebbe innanzitutto fabbricare (a mio parere) quanto soddisfa i nostri più essenziali bisogni (in primo luogo ‘del cibo’, un abbigliamento ‘che tiene caldo’ per la stagione invernale, ecc.), secondariamente ‘quanto è utile, anche se non indispensabile’; infine – soddisfatte tutte queste importanti esigenze – può anche (anzi deve!) produrre ‘generi di svago’. Dunque il mondo pare inesorabilmente destinato a ritornare circolarmente – pressappoco – alla sua primitiva situazione di partenza. Se la teoria storica da me espressa in questo saggio risulta – se non altro – plausibile, sembrerebbe non offrirsi ‘via di fuga’ alcuna alla situazione (assolutamente priva, dunque, di ‘sbocchi’) da me appena rammentata. In realtà, avrei individuato una possibile soluzione ai problemi di natura politica che affliggono il mondo. Tuttavia, sono costretto a riconoscere che tale soluzione appare addirittura ‘fantascientifica’ (molto più, dunque, che ‘utopica’). Eppure, non riesco a scorgere altre soluzioni. Ora, se la finanza ha il potere di determinare ferramente (o quasi) le sorti di ogni singolo individuo, è proprio dalla finanza che bisognerebbe partire per ‘volgere a favore dell’umanità’ la politica, l’economia, la storia. Un maggior numero possibile di ‘umanisti’ – ‘in gran segreto’ – dovrebbero (ognuno di essi) fondare (e il prima possibile!) una ‘banca virtuosa’, il cui unico scopo sia – inizialmente – quello di accumulare capitale monetario in modo crescente. Tali uomini dovrebbero trasmettere i propri ‘ideali umanistici’ ai loro discendenti (o ai loro successori), in modo tale che si venga a formare una ferrea tradizione ininterrotta (di tipo – appunto, quindi – ‘umanistico’).

Se l’altissima finanza attuale rinuncia – talvolta, anzi spesso – ai suoi ‘incassi’ per poter influenzare la politica degli stati, ciò andrebbe a favore delle suddette, singole, banche, le quali – lo ribadisco – dovrebbero semplicemente accumulare denaro (non dovendo, dunque, fare nient’altro). Non so se nell’arco di decenni, di secoli, forse (addirittura) di millenni, le suddette singole banche riusciranno (tutte unite, ‘fondendosi’) a raggiungere un capitale monetario tale da eguagliare (o magari – addirittura – tale ‘da superare’) quello delle restanti, ‘grandissime’, banche. Se così fosse – al momento opportuno – si ‘mostrerebbero’ nella loro ‘unità’ a cospetto di queste ultime, quantomeno costringendole ad ‘entrare a compromesso’ con esse. Si formerebbero, così, in tutto il mondo, due ‘schieramenti’, ossia una ‘destra’ e una ‘sinistra’, che inizierebbero a contendersi il dominio mondiale. E così, in paesi poverissimi, potrebbero sorgere partiti rivoluzionari (sufficientemente protetti dalle banche – chiamiamole pure – ‘di sinistra’) che mirino all’instaurazione di un regime che ricalchi il modello ‘stalinista’ (piuttosto che ‘maoista’). In realtà meno povere potrebbero sorgere regimi di tipo marxista-leninista, di tipo però ‘post-staliniano’. In realtà ancora meno povere rispetto alle due ora dette, ma non tanto ricche da eguagliare il livello di benessere dei ‘paesi occidentali’ – ad esempio e in primo luogo – potrebbero sorgere movimenti che si ispirino alla più attuale forma di ‘bolivarismo’. Nel mondo islamico potrebbe affermarsi (un po’ dappertutto) il Baath, piuttosto che un regime analogo a quello iraniano (però dei suoi ‘tempi migliori’). Infine, in ‘occidente’, potrebbe risorgere ovunque l’Eurocomunismo (che avrebbe, fra l’altro, dei ‘sufficientemente ampi’ spazi propagandistici rispetto all’odierno M5s, il quale ne è pressoché completamente privo). Ebbene, la vittoria definitiva di una ‘nuova guerra fredda’ (o ‘apertamente rivoluzionaria’ in alcuni casi o contesti) da parte delle ‘sinistre’, condurrebbe ad una situazione di equilibrio economico mondiale: ovunque sorgerebbero stati, uniti in una federazione globale ‘internazionalista’, ricalcanti (ognuno di essi) un modello politico di tipo ‘leniniano’ (precedente al ‘comunismo di guerra’, oppure che sia tale da rifarsi alla ‘Nep’); o magari, potrebbe risorgere dappertutto una linea politica di tipo ‘titoista’ (più democratica rispetto a quelle ora menzionate). Quasi certamente non si potrà prescindere dal ‘darsi’ di un po’ di ‘autoritarismo’: il mondo infatti è troppo popoloso, e, se ‘tutti’ devono vivere ‘perlomeno’ decentemente, non si può prescindere dall’instaurazione di regimi che siano ‘totalitari quanto basta’ (si imporrebbe inoltre e fra l’altro – necessariamente – una politica di ‘controllo delle nascite’). Si potrebbe obbiettare che le soluzioni politiche da me prospettate siano ormai ‘obsolete’; si tenga tuttavia presente come non esistano ‘metafisiche’ e ‘storicismi’ di sorta. E così, per fare un esempio (a mio parere molto significativo), con il passaggio da Lenin a Stalin (dopo un periodo, per così dire, di ‘interregno’), si è passati da una società abbastanza permissiva (e in modo pressoché inesorabile!) ad una società molto meno permissiva. Insomma, la cosiddetta ‘modernità’, non è tale da procedere in modo ‘inesorabile’ e (oramai) ‘immodificabile’ (come abbiamo visto, essa è stata forse voluta – ed è tuttora voluta – da ‘persone fisiche’, da ‘persone in carne ed ossa’).

Infine, è bene evitare, in politica, ‘avventurismi’ ed ‘esperimenti’ di ogni tipo, poiché, ‘storicamente’, si sono sempre dimostrati fallimentari (si pensi al ‘governo Blum’, piuttosto che alla – pur positiva per molti suoi aspetti, eppur necessariamente effimera – esperienza della ‘Comune’ parigina). Occorrerebbe attuare unicamente sistemi politici, per così dire, ‘già collaudati’, tali, cioè, che ‘la storia gli abbia dato – nonostante tutto – ragione’ (nonostante gli ‘errori’ che, ‘umanamente’, tali sistemi hanno pur prodotto, evitando fra l’altro – in tal modo – di ricommetterli).

Umberto Petrongari

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *