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5 Febbraio 2025
Punte di Freccia

Atmosfere tra Céline e Corto Maltese

Prendo il treno per Bari. Ci torno dopo alcuni anni, quando presentai E venne Valle Giulia dando vita a un vivace dibattito su quel 16 marzo quando volarono i banchi dal tetto della facoltà di Giurisprudenza, di cui fece le spese Oreste Scalzone (forse, però, se ne fece vanto e fama), mentre noi – illusi – vedemmo volare oltre il muro de La Sapienza il reiterato sogno, il sogno infranto, d’essere capaci di andare al di là ed oltre ancora. Il medesimo sogno, anch’esso infranto, di quel 6 febbraio del 1934, così ben descritto da Drieu la Rochelle in Gilles e che ‘impose’ a Robert Brasillach la svolta che lo portò, ‘con undici anni di ritardo’, al forte di Montrouge e a dodici bocche da fuoco avide di lacerargli la carne. Oggi, ospite al Covo del Klan, di una giovane comunità, attenta partecipe coinvolta desiderosa di dare a se stessa una solida identità. Bella esperienza, sempre, quando un vecchio si confronta con la gioventù, meno egli dà e più riceve. (‘L’unico segreto perché l’anima non muoia – e non corrompa il corpo colla sua corruzione – è di rimanere fedeli alla propria giovinezza’, scrive Giovanni Papini).

Arrivo alla stazione Termini con un certo anticipo, come al solito. Mi ficco dentro la libreria e mi imbatto ne La morte di Céline di Dominique de Roux, saggio edito in Francia nel 1966 e solo oggi in versione italiana (è Andrea Lombardi, attento a tutto quanto riguardi Céline, a tenerci sull’avviso in questi ultimi giorni). Mi farà compagnia all’andata e al rientro, il giorno dopo. Una buona compagnia perchè o lo si ama o lo si rigetta il dottor Louis-Ferdinand Destouches e i suoi libri ‘imperdonabili’… Ed io, pur così legato a quel mio fratello, il più caro, Robert Brasillach – così distante in sentimenti e modalità di scrittura –, avverto come in Céline, in quell’essere appunto ‘imperdonabile’ vi sia qualcosa di me. (Scriveva lo scrittore giapponese Osamu Dazai, suicida, ‘Scusate se sono nato’). Del resto ogni esistenza è un cammino consapevole, il più delle volte meno, verso la morte, forse in quanto ogni ‘morte si sconta vivendo’. E il suo prezzo, uno dei tanti, è la scrittura. E Dominique de Roux getta in faccia al lettore questa verità, la estrema dannata ineludibile verità (Nietzsche: ‘Veritiero, è così che chiamo colui che cammina nel deserto senza dei e ha spezzato il suo cuore pieno di venerazione’), non cerca sfumature accorgimenti metafore o metanoie: ‘L’opera di Céline resta uno degli enigmi esemplari del nostro tempo. E’ la scrittura condannare Céline; è anche colei che lo salva’.

Altrimenti detto: se Céline si fosse fermato a scrivere Viaggio al termine della notte (libro, ad esempio, che divertiva Stalin, mentre Trotskji ne diffidava) o Morte a credito, le Accademie del bon ton gli avrebbero reso onori omaggi floreali patacche e decorazioni, accolto nel Pantheon delle belle lettere, articoli saggi encomi in punta di penna e dosate le parole nell’alambicco dell’ipocrisia intellettuale e borghese. E’ questo, però, il compito della Parola? Indossare i guanti bianchi, la camicia inamidata e il nero farfallino, buoni sentimenti e lacrime tenere per fanciulli e signorine di buona famiglia oppure… Céline si propose immediatamente come scandalo, ma apparve rivestito di quell’armamentario caro alla sinistra, becera e supponente, partecipe dei mali del mondo e della loro redenzione, ad esempio il pacifismo (Lapidario. Ezra Pound: ‘Non ci sono guerre giuste’. Avrebbe scritto, chissà, che vi sono, però, guerre eroiche? Essere contro la guerra dell’oro). Oggi la medesima sinistra plaude si commuove verso i migranti, le bare nel Mediterraneo, ormai trasformatosi in cimitero, inveisce contro le carrette del mare, in quartieri ove, in una sorta di colonialismo d ritorno, solo le badanti sono ucraine le cameriere filippine gli africani i giardinieri…

Il cinismo quale maschera, l’invettiva al posto delle caramelle, dietro l’urlo lacerato disperato di un animo profondamente ‘buono’. E quell’anarchismo, in fondo aristocratico, che non vuole (ar)rendersi, tramite la forma della distanza e del distacco, come si manifesta nell’anarca raccontatoci da altro aristocratico, Ernst Juenger in Eumeswil. Solo che lo scrittore tedesco aveva preso le mosse dalle trincee in Francia durante la I Guerra Mondiale, dove aveva saputo coniugare l’ardimento del soldato con la capacità di descriverne la sua essenza nuova con l’occhio dell’entomologo, mentre Céline divenne – e vi rimase tutta la vita – medico dei poveri dei diseredati dei relitti della modernità urbana. E di fronte alla malattia non c’è ragione alcuna che possa giustificarla se non una pietà infinita. Le guerre, al contrario, si scavano alla ricerca delle cause (nella malattia la ricerca della causa ha la funzione terapeutica), ma queste sono al servizio della storia e non ne trasformano il percorso. Hegel ci appare un gigante algido scostante disumano…

Così la Parola è causa ed effetto, come tra il soggetto e l’oggetto di una emozione. Qui la nascita dei famosi pamphlets, a partire da Mea Culpa, esito del suo viaggio in Unione Sovietica, della sua delusione e della sua incapacità al comodo tacere; poi il più noto ed esecrato, quel Bagatelle per un massacro ove l’Ebreo si eleva quale simbolo d’ogni nefandezza e in ogni campo e luogo e tempo (dopo il 1945 questo ruolo i vincitori lo assegneranno al termine ‘fascista’). Dietro quel torrente in piena d’ingiuria insulti uno schizzo di vomito e merda a diarrea v’è tanto e ancora tanto Amore. Céline non è Cesare Pavese (qui, certo, posti a confronto non per eventuale grandezza e spessore letterario ed umano), non c’è alcun alberghetto nei pressi della stazione di Torino, la richiesta di un gesto risolutore contro le parole, il rinnegamento della funzione di scrittore. Egli non si accomuna a Drieu la Rochelle, l’aristocratico d’origine normanna – ‘il 15 marzo 1945, Drieu la Rochelle si è coricato assumendo un po’ di laudano. Nel suo Diario ha precisato il motivo del suo suicidio – Ho sempre pensato che la prigione fosse ben più terribile della morte –‘. Drieu che si avvia alla morte per ‘diventare più mistico’, per sottrarsi a ‘le mani sporche’, in cerca dell’Essere… No, Céline è altra cosa, più simile a quei ‘cavalieri erranti son trascinati al Nord e partono cantando con la speranza in cor’, fra le canzoni più belle e struggenti, magari con più feroce disincanto e ben meno speranza.

Arrivo a Bari intorno a mezzogiorno. Mi vengono a prendere. Un pasto veloce, un insieme di antipasti della cucina pugliese – ottimi –, ma mi trattengo per evitare di farmi dominare dalla sonnolenza per il resto del giorno e, soprattutto, della notte. Il lungomare della città, solido elegante capace di vincere il tempo e la menzogna e l’ottenebramento degli uomini. Che il ministro del Lavoro, Araldo di Crollalanza (sua, appunto, la riqualificazione del lungomare che, in una parte, porta il suo nome), avvertisse come, nella ineluttabile distruzione degli uomini e delle loro istituzioni, solo tramite la pietà e la tenacia della pietra si sarebbero potute preservare, pur mute, l’opera? ‘Tempus loquendi, tempus tacendi’… E, a sera, eccomi al Covo del Klan, immerso in questa comunità che, in spirito e continuità ideale, intende essere testimone e auspicio di uomini e idee con cui abbiamo convissuto ed altri ancora prima di noi. Volti puliti, volti seri. La mattina, di prima mattina, di nuovo in treno.

Riprendo la lettura su Céline, quel cammino che lo porterà, attraverso la Germania devastata dalle bombe, verso la Danimarca, un rifugio che si trasformerà in prigione, in ulteriore isolamento. Infine il rientro. A Meudon, non lontano da Parigi, ormai dialogando solo con cani gatti e il pappagallo. Eppure ancora della Parola, quella scritta, non può farne a meno. Il suo testamento dopo essere stata la vocazione prepotente. Scrive e dedica il suo ultimo libro (Rigodon) agli animali. Il cammino la vocazione il testamento l’isolamento la morte. E’ il 1 luglio del 1961, lo stesso giorno in cui lo scrittore americano Ernest Hemingway si sparava alla testa con un grosso fucile da caccia. Tutti i giornali se ne occuparono con titoli cubitali; poche le righe per Céline, il maudit (il maledetto). Troppo l’imbarazzo e l’offesa, se non più tramite il plotone d’esecuzione nell’immediatezza della vittoria, festeggiata con orge di sangue, essi sono espressi nella democrazia con la ‘damnatio memoriae’. Tutti i buoni da una parte; i cattivi dall’altra e vinca… il peggiore.

Annoto sul mio libricino d’appunti: ‘Saranno braccati bene i sogni, un giorno o l’altro. E’ una dittatura quella che ci toccherà… La nostra civiltà sembra essere infilata ben bene in un’incurabile psicosi bellica. Viviamo soltanto per questo tipo di ripetizioni distruttrici’. Da qualche altra parte aveva annotato come i sogni ormai appartengono alla strada. Coincidenze. Prima di partire Carla mi ha postato una foto di un muro screpolato, la targa della via dedicata a Di Vittorio (il sindacalista rivoluzionario, già interventista, divenuto, nel secondo dopoguerra, prestigiosa e carismatica figura della CGIL), il disegno di Corto Maltese, con la frase ‘In ognuno di noi c’è l’inquietudine della fuga l’intolleranza dello spazio chiuso, del consueto. In ognuno di noi l’esploratore cerca di sopraffare il cittadino, per portarlo in strada, via’. E’ questo l’anarco-fascismo di cui mi faccio vanto come uccellaccio con le penne del pavone? E’ céliniano? Mi piace pensare di sì. Affinità. Hugo Pratt, giovanissimo, andò ad arruolarsi a Venezia nella Decima MAS, dopo l’8 di settembre. Fu la nonna ad andare a riprenderselo, ma gli rimase la nostalgia di quella mancata esperienza nella divisa da marò, che traspose in eroi perdenti folli e disperati, sempre però mai domi.

Mi appisolo, forse sogno, mi sento un uomo libero(?) forse, libertario sì… non mi avete ancora fregato!

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