13 Maggio 2024
Ahnenerbe

Una Ahnenerbe casalinga, cinquantesima parte – Fabio Calabrese

Cinquanta, cifra tonda: un obiettivo che solo qualche anno fa avrei detto impossibile da raggiungere. Io penso che capirete e sarete d’accordo con me, se questa volta dedicheremo questo capitolo della ricerca delle nostre origini a una riflessione sul lavoro sin qui svolto, che non vuole essere auto-celebrativa, ma un soffermarsi considerando la strada trascorsa, un riprendere fiato per slanciarsi di nuovo in avanti, ben sapendo che non è il caso di riposare sugli allori, e che il cammino davanti a noi è ancora impervio.

Io vorrei per prima cosa ringraziare un lettore che tempo fa in un commento ha espresso il concetto che in effetti in questa mia piccola Ahnenerbe non ci sarebbe nulla di casalingo se con questa parola vogliamo intendere qualcosa di dilettantesco. Lo ringrazio, ma penso che il mio modesto lavoro non si possa certo confrontare con quello che è stato proprio della Società Ahnenerbe del Terzo Reich, gli ingenti mezzi che lo stato tedesco di allora impiegò nell’indagine sull’eredità degli antenati. Il mio è un lavoro personale, one man’s band, anche se difficilmente senza la ricchezza di tematiche offerte dal web e le segnalazioni di alcuni volonterosi amici, sarei riuscito a portarlo avanti.

Io penso che sia persino superfluo ribadire il concetto che questo lavoro non ha per nulla delle finalità accademiche: l’idea del nostro passato, della storia percorsa dalle remote origini a quel che siamo noi oggi, è una componente essenziale dell’idea che abbiamo di noi stessi, che a sua volta è la premessa dell’agire attuale, in politica e in tutti i campi. Da questo punto di vista, dovrebbe essere chiaro che quel che ci viene presentato e ammannito, ribadito in tutte le occasioni da un imponente sistema mediatico-propagandistico, non è “scienza” in campo storico-antropologico, se per scienza intendiamo un sapere nato dalla ricerca onesta e disinteressata della verità, ma è piuttosto un più o meno abile sistema di mistificazioni il cui scopo è quello di legittimare il potere “democratico” che ci domina.

Tralasciamo qui  – per carità – la questione filosofica se sia o meno attingibile all’uomo la verità in senso assoluto o se ogni nostra conoscenza, ogni nostra verità sia in ogni caso parziale e soggettiva. Diciamo che perlomeno c’è una differenza fra gli esiti di una ricerca del vero imparziale e disinteressata e una frode deliberata o una conclusione distorta a cui può arrivare un ricercatore anche in buona fede cui sono state fornite premesse e modi di pensare fraudolenti che lo fuorviano.

Noi possiamo vedere la tematica delle origini come una sorta di imbuto rovesciato: tanto più si allarga, quanto si risale indietro nel tempo.

Io non mi sono occupato, e non mi sembra il caso di farlo ora, di questioni vaste e remote come l’origine dell’universo, del sistema solare o della vita sulla Terra, questioni forse al di là della nostra portata. Il problema delle origini nella nostra ottica mi pare si possa suddividere in quattro livelli: l’origine della specie umana, quella dei popoli indoeuropei, l’origine della civiltà sul nostro continente, e – questione spesso trascurata sebbene ci tocchi da vicino – quella della nazione italiana, della nostra identità, in definitiva, come genti della Penisola italica.

Vediamo al riguardo cosa ci racconta la “scienza” ufficiale, vale a dire l’ortodossia di regime:

Riguardo alla prima tematica, la vulgata che ci viene imposta è oggi rappresentata dall’Out of Africa, la “teoria” secondo la quale la nostra specie si sarebbe originata sul continente africano, e il nero subsahariano rappresenterebbe il modello ancestrale dal quale tutti noi discenderemmo. Riguardo all’origine dei popoli indoeuropei, l’ortodossia di regime sostiene la tesi che saremmo i discendenti di agricoltori di origine mediorientale-anatolica che si sarebbero man mano espansi verso il nord e l’ovest alla ricerca di nuove terre da coltivare.

L’origine della civiltà, sostiene sempre l’ortodossia di regime, ed è questa la versione canonica che trovate su tutti i libri di testo e che ci viene continuamente ripetuta dal sistema mediatico, si situerebbe nella cosiddetta Mezzaluna Fertile a cavallo tra Egitto e Mesopotamia, e solo tardivamente avrebbe raggiunto l’Europa attraverso un complicato passaparola tra Egizi, Mesopotamici, Fenici, Ebrei, Persiani, Minoici, Greci, Romani.

L’Italia, infine, ci viene dato a intendere, sarebbe una terra a cui una struttura geografica molto ben definita avrebbe dato una coerenza e una continuità attraverso i secoli, e dove le genti che l’abitano avrebbero sviluppato una cultura comune, ma si vuole che non rappresenterebbe alcunché di coerente dal punto di vista etnico e genetico.

Si tratta di quattro menzogne, non solo, ma di quattro menzogne che hanno uno scopo preciso, quello di darci un’immagine sminuita di noi stessi allo scopo di indebolire la resistenza alla sostituzione etnica, alla sparizione che il potere mondialista ha decretato per noi Italiani e per noi Europei.

Cominciamo con l’Out of Africa: si tratta di una “teoria” che non può in nessun modo essere considerata scientifica, è per ammissione dei suoi stessi formulatori, un costrutto ideologico creato allo scopo di “battere il razzismo”, “razzismo” che poi nel linguaggio orwelliano della democrazia non significa l’affermazione di una razza sulle altre, ma la semplice constatazione che le razze umane esistono, si tratta in altre parole di uno di quei costrutti ideologici che sono stati imposti all’Europa per “rieducarla” in conseguenza della sconfitta nella seconda guerra mondiale, e anche alle popolazioni caucasiche d’oltre Atlantico, da sempre plagiate dietro le quinte da qualcuno che di origine europea non è, se si risale agli antenati remoti, affinché non si rendessero conto che il loro mondo si stava trasformando in un’invivibile società multietnica, come del resto è previsto che presto tocchi anche a noi.

Questa “teoria” si fonda su due assunti dati per sottintesi ma mai esaminati troppo da vicino, cosa che ne metterebbe subito in evidenza la falsità: il primo è la confusione fra la questione degli ominidi africani (la famosa Lucy e tutti gli altri) e l’origine della nostra specie. I primi si collocano a milioni di anni fa, l’altra a decine di migliaia di anni fa, vi è una differenza di due ordini di grandezza sulla scala temporale, ma evidentemente si conta sul fatto che la gente comune, l’uomo della strada non ha troppa familiarità coi numeri.

L’altro aspetto della questione che non si vuole guardare troppo da vicino, è che “africano” in senso geografico non significa necessariamente “nero”; al contrario, è assai probabile che quella vasta area dell’Africa settentrionale oggi occupata dal deserto del Sahara ma che fino a 12-11.000 anni fa era fertile, il “Sahara verde” fosse abitata da popolazioni di ceppo caucasico che possono aver avuto un ruolo nel popolamento dell’Europa. Popolazioni i cui discendenti più diretti in epoca storica sarebbero stati i Berberi (fra i quali sono frequenti pelle chiara e capelli biondi) e i Guanci delle Canarie, mentre il nero subsahariano è un tipo umano formatosi in un’epoca relativamente tarda. In fin dei conti, facevo notare, Giuseppe Ungaretti, John R. R. Tolkien, Christian Barnard il medico pioniere dei trapianti di cuore, sono tutti nati su suolo africano senza avere alcunché di nero.

C’è un lato della questione che raggiunge decisamente il grottesco: circa centomila anni fa il nostro pianeta era abitato in tutta l’area del Vecchio Mondo da diverse popolazioni variamente etichettate come pre-sapiens o sapiens arcaiche. E’ verosimile che si sarebbero graziosamente estinte di loro iniziativa per lasciare spazio libero al “puro” sapiens di origine africana? Certo, l’idea che sia stato proprio il presunto sapiens africano a sterminarle, è più credibile, ma non fa fare una figura molto bella a una “teoria” che fra le altre cose dovrebbe oggi invogliarci all’ “accoglienza” verso gli invasori che oggi lasciano il continente nero. A questo punto, qualcuno ha avuto un’idea geniale. Pare che tra 50 e 70.000 anni fa il vulcano Toba nell’isola di Sumatra in Indonesia sarebbe esploso in una gigantesca eruzione. Secondo i sostenitori dell’Out of Africa, questa esplosione avrebbe proiettato nell’atmosfera un’enorme quantità di ceneri che avrebbero provocato una sorta di inverno nucleare che avrebbe portato all’estinzione tutte le popolazioni umane allora esistenti, tranne gli africani da cui si pretende che tutti noi discenderemmo. Già a formularla, ci si rende conto di quanto un’idea simile sia poco plausibile. Una catastrofe di entità planetaria avrebbe quasi annientato una specie, la nostra, senza lasciare segni visibili sulle altre?

Il diavolo fa le pentole ma non i coperchi. Poco dopo essere stata formulata questa bella teoria del vulcano Toba, sempre nell’arcipelago indonesiano, nell’isola di Flores, sono stati scoperti i resti di certi piccoli uomini che sono stati chiamati hobbit come i personaggi di Tolkien. Ci si è resi conto con sorpresa che non si sarebbe trattato di sapiens ma di una forma nana (nanismo insulare) di homo erectus, si tratta dunque di creature molto antiche, che sarebbero vissute su quest’isola fino a 30.000 anni fa, dunque fino a 20-40.000 anni dopo la presunta esplosione del Toba pur trovandosi a quello che su scala planetaria è appena un passo da questa presunta catastrofe apocalittica. Cari piccoli hobbit, che hanno dato uno scrollone fondamentale all’Out of Africa!

Poi, come se non bastasse, sono arrivate le ricerche dei genetisti russi Klysov e Rhozanskij: l’analisi del DNA dimostra chiaramente che Europei ed Asiatici NON derivano da antenati africani. Pare di assistere oggi a una guerra fredda ideologica di segno invertito: mentre i ricercatori russi sono liberi di far parlare semplicemente i fatti, quelli statunitensi sono costretti a salvare a tutti i costi il dogma dell’Out of Africa come corollario del più ampio dogma “antirazzista” considerato indispensabile alla sopravvivenza della loro innaturale e artificiosa società multietnica (“antirazzismo”, ossia negazione dell’esistenza delle razze, nel linguaggio orwelliano della democrazia che all’atto pratico, soprattutto trapiantato sulla sponda europea che si sta cercando del pari di trasformare in una società multietnica, significa il razzismo più disgustoso che si possa concepire, quello contro i nativi che hanno la colpa di vivere nella stessa terra in cui sono nati i loro padri).

Non basta ancora, perché fossili umani chiaramente sapiens di età anteriore ai 70.000 anni e quindi alla presunta origine africana della nostra specie dopo l’altrettanto presunta catastrofe del Toba, sono saltati fuori un po’ dappertutto, e il fossile cinese noto come l’uomo di Liuijang non è che l’ultimo di una lunga serie.

Il fatto che la “teoria” dell’Out of Africa sia chiaramente smentita dai fatti, non impedisce che essa sia continuamente ammannita al grosso pubblico e citata su tutti i libri di testo come “la verità” ufficiale sulle nostre origini, ma noi sappiamo esattamente quello che è: propaganda di regime.

L’Out of Africa è, per così dire, la menzogna quadro di un articolato sistema di mistificazioni, un sistema che si completa considerando almeno altre due deliberate falsità sulle nostre origini: quella intesa a trasformare gli Indoeuropei da guerrieri e conquistatori delle steppe eurasiatiche in pacifici agricoltori di provenienza mediorientale, e quella che vede l’origine della civiltà nella Mezzaluna Fertile sempre in Medio Oriente, deprimendo o negando il ruolo dell’Europa nella civiltà umana.

Forse, per cogliere l’esatta prospettiva delle cose, è necessario fare un considerevole passo indietro. Quando nel XIX secolo i filologi e linguisti germanici scoprirono che la gran parte delle lingue d’Europa oltre ai linguaggi indiani e iranici avevano un’origine comune, e tendevano a convergere verso un linguaggio ancestrale comune man mano che si risaliva indietro nel tempo, non fecero solo una scoperta di immenso valore nel campo linguistico, ma anche in questo caso facendo parlare semplicemente i fatti come la buona scienza deve fare, ruppero con una tradizione che aveva pesantemente condizionato l’immagine che la cultura europea aveva di se stessa, infatti, contemporaneamente resero evidente che ebrei, arabi, e del resto mesopotamici e altri popoli antichi appartenevano a un altro ceppo linguistico e conseguentemente a un altro contesto antropologico e culturale.

Quella che in questo modo entrava in crisi, era la concezione della storia che si era avuta fin allora, certamente ampliata, articolata e approfondita, ma la cui concezione di base si richiamava pur sempre alla bibbia, mentre adesso era possibile riconoscere nella bibbia, nel cristianesimo e in tutto ciò che discende da esso, un elemento antropologicamente e culturalmente estraneo che si era insinuato nella cultura europea.

E’ ovvio che “qualcuno” abbia cercato in tutti i modi di ricucire un simile “strappo”.

Negli anni passati due linguisti russi, Aaron Dolgopolskij e Vladimir Ilic-Svyityc elaborarono la cosiddetta teoria del nostratico, supportata poi sul piano archeologico dall’archeologo inglese Colin Renfrew. In poche parole, il nostratico costituirebbe una superfamiglia linguistica in cui rientrerebbero sia le lingue semitiche che quelle camitiche (Egizi, Numidi, moderni Berberi e Copti dell’Egitto), sia quelle indoeuropee, che si sarebbero diffuse sulle due sponde del Mediterraneo a partire dal Medio Oriente in seguito alla diffusione dell’agricoltura. Una teoria che mi è sembrata ben poco credibile sin da quando ne ho sentito parlare. Per prima cosa, sembra un travestimento in termini scientifici della leggenda biblica dei tre figli di Noè, ma soprattutto la situazione che prospetta, che potremmo aspettarci in base ad essa, non è quella che riscontriamo nell’Europa antica.

Noi abbiamo esempi rappresentati dall’espansione di comunità agricole che si diffondono colonizzando man mano nuovi territori, è un’espansione molto più lenta della conquista che porta alla rapida formazione di vasti imperi da parte di élite di cavalieri e conquistatori, ma molto più definitiva e porta alla formazione di estese masse umane dotate di una relativa omogeneità; ne sono esempi la Cina e l’India pre-ariana. In genere questo tipo di “conquista” non lascia sostrati di sorta, perché gli agricoltori, demograficamente esuberanti, allontanano o assorbono le bande di cacciatori-raccoglitori nomadi.

Nell’Europa antica di sostrati pre-indoeuropei ne troviamo parecchi, e non gruppi isolati, ma interi popoli, vaste culture e civiltà: Etruschi, Minoici, Iberi, Sardi e Corsi, Pelasgi, Liguri il cui dominio era un tempo esteso a gran parte di quella che è oggi la Francia meridionale, e via dicendo.

C’è anche l’aspetto psicologico, il sospetto che questa teoria sia stata creata a bella posta per strappare dalle mani dei nostri antenati indoeuropei l’ascia da combattimento e sostituirla con la zappa del contadino, per disarmare psicologicamente noi, sospetto per la verità aggravato dalla circostanza che dopo la caduta dell’Unione Sovietica Aaron Dolgopolskij ha rinunciato alla cittadinanza russa e si è trasferito in Israele.

Ancora una volta, sono stati gli studi di genetica a dipanare il bandolo della matassa, e la teoria del nostratico ne è uscita bocciata. In contrasto con essa, hanno evidenziato che l’85% degli Europei appartiene al tipo conosciuto come eurasiatico settentrionale, presente sul nostro continente fin dal Paleolitico. Sul concetto poi che l’agricoltura sia effettivamente nata in Medio Oriente e non in Europa, ci sarebbe molto da discutere, e lo rimandiamo alla prossima volta.

Per non rendere questo testo chilometrico, per ora ci fermiamo qui. Per ora possiamo mettere come conclusione provvisoria che siamo figli del nord e non dell’Africa, eredi della cultura indoeuropea, europei, italici di ceppo indoeuropeo e non bastardume proveniente dalle più disparate parti del mondo. Abbiamo alle spalle un patrimonio di sangue, di tradizione e di cultura che si perde nella notte dei tempi, e intendiamo difenderlo.

NOTA: L’illustrazione che correda questo articolo è un’immagine composita che sintetizza almeno una parte del lavoro sin qui svolto: vi si riconoscono la locandina delle due conferenze di Michele Ruzzai del 27 gennaio e del 24 febbraio (quest’ultima in versione doppia), della mia conferenza dell’11 marzo, la copertina del libro Epicentro Mu di Antonio Scarfone, e l’aurora boreale dell’immagine di copertina del gruppo MANvantara.

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