13 Aprile 2024
Fiume

“Un faro luminoso che splende in mezzo ad un mare di abiezione” (parte prima)

“In nome di tutti i morti per l’unità d’Italia, giuro di essere fedele alla causa santa di Fiume, e di non permettere mai, con tutti i mezzi, che si neghi a Fiume l’annessione completa ed incondizionata all’Italia. Giuro di essere fedele al motto: “Fiume o morte” (la formula del giuramento dei “sette Giurati di Ronchi”)

 

95 ANNI

Mi piace iniziare, dal momento che ne condivido pienamente il senso, con un brano tratto da un libro di Michael A Ledeen che ritengo, però, ispirato da Renzo De Felice il quale, fu mentore – fino a concedergli la nota “Intervista” – dello studioso americano durante il suo soggiorno italiano:

“Oggi viviamo in un’epoca in cui i miti hanno perso il loro valore, e imprese affrontate in nome di grandi ideali spesso si rivelano motivate da interessi più volgari e vili. Trovandoci di fronte ad un evento che sembra nascere da un sentimento profondamente idealistico, la nostra tendenza è di cercarvi il “vero” motivo, dal momento che noi siamo convinti che gli uomini agiscono in genere per interesse personale e molto raramente per un bene più astratto.

La conquista di Fiume realizzata da D’Annunzio, è però un fenomeno difficilmente valutabile in questa prospettiva, perché, se non mancarono certo tra i cospiratori uomini mossi da scopi egoistici, le motivazioni del Poeta furono invece profondamente idealistiche.” (1)

 

Credo che da qui bisogna cominciare, oggi che ricorre il 95° anniversario dell’ingresso a Fiume di Gabriele D’Annunzio e dei suoi volontari, il 12 settembre del 1919. mentre è più che logico pensare che, qua e là, apparirano rievocazioni dell’avvenimento, in preparazione del centenario che lo consegnerà, auspicabilmente e definitivamente, alla storia.

95 anni che sembrano mille, però, perché la pervicace volontà dei politici (supportati anche da alcuni studiosi) ha fatto sì che in molti sia maturata l’idea che la storia d’Italia cominci nel 1945, e che ciò che c’è prima – e particolarmente nei due secoli precedenti – sia da relegare nel folclore de “La bella Gigogin”, “Il Piave mormorava” e “Faccetta nera”.

Questa è una colpa gravissima del “regime” postfascista, alla quale sarà difficile rimediare. Così non fu, invece, per il fascismo, che si vide sempre compreso nell’alveo della storia nazionale, della quale si considerava parte e continuazione. Proprio D’Annunzio, per esempio, e proprio con riferimento all’esperienza fiumana, così scriverà sul Popolo d’Italia del 30 giugno 1921, richiamandosi a fatti di un secolo prima:

“Dai primi moti del 1921 alle presenti miserie, per tutto un secolo di sforzo e di ansia e di pena e di errore, l’impresa di Fiume è il più alto fatto nazionale. È, idealmente, più alto che il fatto stesso della guerra vittoriosa. E’ lo scrollo eroico della nostra vittoria abbattuta e rotta. È il sussulto tragico di tuti i nostri morti. Perciò il fato volle che si partisse di notte da un cimitero colmo di fanti.” (2)

L’avventura fiumana è, comunque, tema “sdoganato” da tempo (cosa che non avviene, se non timidamente, con l’ immediatamente successiva conquista di potere da parte del fascismo), e sempre di vivo interesse; Leonardo Malatesta, nel primo capitolo di un suo recente volume (3) elenca oltre 170 titoli (e, probabilmente, non sono nemmeno tutti) che, in diverse prospettive, affrontano la storia di quei 15 mesi.

Tema particolarmente caro all’immaginario collettivo fascista, quando essere stato “legionario” con il Poeta costituiva titolo di merito quasi allo stesso livello della partecipazione alle avventure squadriste della vigilia, ed a quello postfascista, che ad esso fa frequente riferimento e, caso abbastanza raro, gli ha dedicato, non molto tempo fa, finanche un romanzo. (4)

Credo che, in tempi recenti, effetto trainante abbia avuto il libro di Claudia Salaris (5), e, soprattutto, il suo titolo, nel quale insieme compaiono le parole “festa”, che va contro ogni vocazione a lugubri liturgie, pure non estranee a certo reducismo da guerra civile, e “rivoluzione” che esercita, nelle sue molte declinazioni, un fascino indiscutibile per ogni militante “non conforme”.

Nel merito, mi lasciano invece scettico alcuni paralleli – accennati anche dalla Salaris – tra il “clima” fiumano e quello sessantottino, se non altro perché al secondo mancò qualcosa di solo lontanamente paragonabile all’estasi guerresca ben descritta, tra i tanti, da Giovanni Comisso(6), oltre che, naturalmente, un “Capo” dotato del carisma e della poetica fantasia di D’Annunzio.

Ma questo è un altro discorso, che non intendo affrontare qui…

Qui, piuttosto, stante – come sopra detto – la sterminata disponibilità di testi sull’argomento, in grado di soddisfare anche i “curiosi” più esigenti, proverò a raccontare del giorno in cui tutto ebbe inizio (con un breve accenno introduttivo ai prodromi), con una cronaca anche minuta di quell’ interminabile 12 settembre, che si apre, a mezzanotte, con i Granatieri per le strade di Ronchi, impazienti di partire, e si chiude, alle diciotto, quando il Comandante si affaccia al balcone del Palazzo del Governo, per il suo primo discorso “fiumano”.

Per un generale e sintetico inquadramento della situazione, che, in buona sostanza, nasce da errori italiani commessi al momento di “contrattare” la nostra entrata in guerra (e prosegue con la successiva impuntatura a noi ostile del Presidente americano Thomas Woodrom Wilson), mi affido alla sintesi del Generale Enrico Caviglia, Commissario straordinario – dopo Badoglio – per la Venezia Giulia all’epoca dell’impresa dannunziana:

“Il patto di Londra si può considerare completo, se non perfetto, per quanto riguarda la frontiera alpina Nord-orientale. È incompleto per il problema adriatico, avendo lasciato Fiume ed i porti vicini a Sud, fino a Carlopago compreso, fuori dalle nostre richieste, ed avendo rinunciato a Spalato e ad altre città italiane della Dalmazia, nonché ad alcune isole.

Non avendo apprezzato la possibilità dello smembramento dell’Impero austro-ungarico, ed essendo la Romania e la Bulgaria ancora neutrali, il nostro Governo non trattò per la soluzione del problema balcanico, che si abbinava con la questione adriatica.” (7)

 

SUONAVAN LE CAMPANE, PIANGEVAN LE FIUMANE

Gli accordi internazionali siglati al termine della guerra e in coincidenza con la Conferenza di Parigi prevedono che, nelle more di una decisione, Fiume venga presidiata da contingenti di varia nazionalità, soprattutto per prevenire azioni di rivendicazione iugoslava.

L’Italia manda, in varie tornate, a partire dal novembre del 1918, circa 15.000 uomini, tra i quali spiccano i Granatieri di Sardegna del 1° e 2° Reggimento, contro più ridotti contingenti francesi, inglesi e americani.

Sono proprio i Francesi (tra i quali vi sono anche Reparti di Ammaniti, la cui presenza appare “insultante” ad una popolazione che parla l’antico dialetto veneto), con il loro atteggiamento tracotante, soprattutto verso l’elemento femminile della popolazione civile, a provocare la reazione italiana.

Mentre essi, infatti, manifestano, ricambiati, una certa simpatia per i Croati, minoranza numerica in città, ma minacciosamente presente nel retroterra, i Granatieri, di contro, raggiungono un affiatamento completo con la gente di Fiume, anelante all’annessione.

Ne nascono ripetute zuffe, risse e sparatorie, il cui esito finale vede soccombenti i cugini d’Oltralpe, che devono lamentare anche diversi feriti ed anche alcuni morti.

Dopo i fatti più gravi, successivi alla maldestra iniziativa di un soldato francese che ha strappato il nastrino tricolore dal petto di una fiumana, viene nominata una Commissione d’inchiesta internazionale, che determina l’unilaterale allontanamento degli stessi Granatieri, con la successiva loro sostituzione con uomini della Brigata Regina.

E’ così che il 25 agosto, i soldati italiani lasciano la città, tra le imponenti manifestazioni di cordoglio della popolazione:

“E’ finita, siamo perduti. Non avremo più la nostra Patria” E i soldati partivano. Sul viale XVII novembre – proprio quello che avevano percorso al loro trionfale entrare – i Granatieri erano trattenuti, arrestati a viva forza, presi per le braccia e spinti indietro dai popolani e dalle donne. Al suolo erano state distese le bandiere: accanto le donne vi si erano sdraiate, gridando agli Ufficiali: “Per passare dovrete calpestare prima le bandiere, poi noi.” (8)

 

La partenza dei militari appare il tradimento delle speranze di ricongiungimento all’Italia, che hanno preso corpo nel plebiscito del 30 ottobre del 1918, allorché, con l’approssimarsi della fine del conflitto, i fiumani si sono espressi, pressoché unanimemente, per il ricongiungimento all’Italia.

In prima fila, a piangere e protestare, le donne, come ricorda una canzone:

 

“Il venticinque agosto / È successa un porcheria

I baldi Granatieri / Da Fiume andaron via

Al suon del campanon.

Alla mattina all’alba / Suonavan le campane

Partivan i Granatieri / Piangevan le fiumane

Don don don / Al suon del campanon”

 

Il Primo Battaglione del Secondo Reggimento, comunque, va a sistemarsi non molto lontano, anche se al di qua del confine, in una località destinata a diventare famosa: Ronchi. (9)

Qui, un gruppo di sette giovanissimi Ufficiali (destinati a passare alla storia come “i Giurati di Ronchi”) “poco più che ventenni subalterni, a mensa buoni bevitori, e per la strada buoni cacciatori…comandanti dei loro uomini che potevano anche essere i loro padri”, che già a Fiume hanno cercato di mettere in piedi un’iniziativa di resistenza all’ordine ingiusto di allontanamento, si riunisce e presta giuramento di fedeltà alla causa fiumana:

“In nome di tutti i morti per l’unità d’Italia, giuro di essere fedele alla causa santa di Fiume, e di non permettere mai, con tutti i mezzi, che si neghi a Fiume l’annessione completa ed incondizionata all’Italia. Giuro di essere fedele al motto: “Fiume o morte” (10)

 

Il passo successivo non può che essere la ricerca di un uomo in grado di guidare autorevolmente la loro azione; dopo qualche fallito tentativo (Federzoni e Ricciotti Garibaldi) la persona “giusta” viene individuata in Gabriele D’Annunzio, in quel periodo a Venezia per organizzare il raid aereo Roma-Tokio.

Bastano un paio di incontri con alcuni dei sette “Giurati”, e il Poeta decide: sceglie –per ragioni scaramantiche – la data dell’11 settembre, anniversario della “beffa di Buccari”, e assicura la sua presenza a Ronchi.

MENO CHIACCHIERE, GALANTUOMO

A D’Annunzio i rappresentanti dei Granatieri hanno promesso l’adesione dell’intero Battaglione, comandato da quella prestigiosa figura di combattente che è il Maggiore Carlo Reina; il Poeta si è raccomandato che vengano reperiti gli automezzi, sì che la marcia su Fiume avvenga con celerità e all’insegna della sorpresa.

È, quindi, lo stesso Reina a prendere l’iniziativa: si reca a Palmanova, dove è sistemato l’Autoparco, e cerca del Comandante, il Capitano Salomone, riuscendo finalmente a trovarlo a casa, a Strassoldo. Gli espone il progetto e, vista la sua titubanza, suggerisce un italianissimo escamotage: quando sarà il momento, gli farà pervenire un fonogramma con un falso ordine che dispone la consegna di 40 autocarri al Battaglione, così che, se le cose dovessero andare male, nessuno possa imputargli niente.

L’Ufficiale sembra convincersi e dà il suo assenso; non resta che comunicarlo al Poeta e organizzare il suo viaggio da Venezia a Ronchi. A fargli da scorta viene comandato Guido Keller, e, finalmente, alle 14,30 dell’11 settembre un febbricitante D’Annunzio, vestito con l’uniforme di Tenente Colonnello dei Lancieri di Novara, può partire. Prima, però, indirizza due righe a Mussolini:

“Mio caro compagno, il dado è tratto. Parto ora. Domattina prenderò Fiume con le armi. Il Dio

d’Italia ci assista. Mi levo dal letto febbricitante. Ma non è possibile differire. Anche una volta lo

spirito domerà la carne miserabile.

Riassumete l’articolo che pubblicherà la “Gazzetta del popolo”, e date intera la fine

E sostenete la causa vigorosamente durante il conflitto.

Vi abbraccio, Gabriele D’Annunzio.” (11)

Giunto a Ronchi, il Poeta si mette a letto, per riposare, in attesa che arrivino i camion; non sa che, nella concitazione dei preparativi, nessuno si è ricordato di far avere al ligio Salomone il falso ordine di movimento.

Finalmente, il fonogramma parte alle 22,30, ma, ancora a mezzanotte, gli automezzi non arrivano. Guido Keller, Tomaso Beltrani ed Ercole Miani troncano gli indugi e si precipitano a Palmanova, all’Autoparco.

Pescano a letto il Capitano, e, a lui che lamenta il mancato arrivo del fonogramma, piazzano sotto il naso, con modi poco urbani, un minaccioso revolver. Tocca poi a Ercole Miani, triestino, Capitano degli Arditi e medaglia d’oro in guerra, schiarirgli le idee:

“Meno chiacchiere, galantuomo! Gli impegni sono impegni e vanno mantenuti, quando si è uomini d’onore!”

Così finalmente ottengono che 35 camion 15 Ter partano per Ronchi, dove già D’Annunzio scalpita e si dice pronto a muovere, da solo, con gli uomini che avrebbero potuto prendere posto sulla sua personale autovettura.

All’arrivo a Ronchi, i mezzi sono letteralmente presi d’assalto da quanti vogliono salire e andare a Fiume; solo la terza Compagnia si rifiuta, e provoca pure un fuoco di fucileria intimidatorio.

Alla fine, alle 5 del mattino, in notevole ritardo rispetto al programma, la colonna si muove: 20 Ufficiali e 222 Granatieri; alla testa la Fiat tipo 4 con a bordo D’Annunzio, e il Maggiore Reina.

 

Giacinto Reale

 

NOTE

 

(1)       Michael A Ledeen, “D’Annunzio a Fiume”, Bari 1975, pag 83

(2)       In: Salvatore Sibilia, “La marcia di Ronchi”, Roma 1933

(3)       Leonardo Malatesta, D’Annunzio e i suoi legionari”, Trento 2013

(4)       Gabriele Marconi, “Le stelle danzanti”, Firenze 2009

(5)       Claudia Salaris, “Alla festa della rivoluzione”, Bologna 2002

(6)       Vedasi, in particolare: “Le mie stagioni”, Milano 1951

(7)       Enrico Caviglia, “Il conflitto di Fiume”, Milano 1948, pagg 7-8

(8)       Gino Berri, “La gesta di Fiume”, Firenze 1920, pag 12

(9)       Ronchi intreccia la sua storia con almeno altri due episodi della recente storia d’Italia: il 16 settembre 1882, in paese fu scoperto ed arrestato Guglielmo Oberdan, e, tra il febbraio e l’aprile del 1917, nella locale scuola trasformata in Ospedale, fu ricoverato Mussolini, dopo il ferimento a quota 144

(10)       Questa la formula, così come riportata nel racconto di uno dei Sette Giurati: Riccardo Frassetto, “I disertori di Ronchi”, Milano 1927 pag 44

(11)       In: Ferdinando Gerra, “L’impresa di Fiume”, Milano 1966 pag 90

 

 

 

4 Comments

  • Ferd56 12 Settembre 2014

    Michael Ledeen studioso americano?????? Più’ americano che studioso…

  • Ferd56 12 Settembre 2014

    Michael Ledeen studioso americano?????? Più’ americano che studioso…

  • giacinto reale 12 Settembre 2014

    fucilate il proto ! nel brano di D’Annunzio all’inizio, leggasi “1821” e non “1921” 🙂

  • giacinto reale 12 Settembre 2014

    fucilate il proto ! nel brano di D’Annunzio all’inizio, leggasi “1821” e non “1921” 🙂

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