13 Aprile 2024
Fichte Illuminismo Romanticismo

Romanticismo e luoghi comuni

Di Fabio Calabrese
Io ho l’abitudine di considerare con molta attenzione le obiezioni che vengono rivolte ai miei scritti, anche se so che è impossibile avere l’accordo unanime di tutti su un qualunque argomento e che con certe persone il dialogo risulta del tutto fuori questione, ma se non è possibile il dialogo, lo è perlomeno il confronto. Chiamatela un’attitudine socratica da parte mia, a me piace pensare che lo sia, anche se mi rendo conto a volte di aver dato più attenzione a certe persone di quel che obiettivamente meritavano, specialmente coloro che hanno un tale coraggio delle loro opinioni da non firmare nemmeno con il loro nome.
E’ un tratto assolutamente tipico di democratici, cristiani e marxisti quello di reagire ad argomenti che li spiazzano con l’improperio, l’insulto, la bassa insinuazione, la calunnia.
Su una scala fortunatamente molto minore, ma mi sembra di vedervi un’analogia con quella che è la tematica cosiddetta olocaustica: ai revisionisti che portano prove, documenti, perizie tecniche, si risponde con le ingiurie, le aggressioni violente e la galera.
Se noi dovessimo prendere per buona la macchietta del fascista come violento negatore del diritto altrui ad avere un’opinione, allora non ci sarebbero dubbi: fascisti sarebbero i demo-catto-marxisti. Senza che ce ne accorgiamo, poco per volta la democrazia ha costruito una gabbia attorno alla libertà di pensiero, una gabbia dalle sbarre sempre più massicce e soffocanti, che si chiama Political correctness, la forma assunta dal dogmatismo cieco nella nostra epoca. Guai a chi mette in dubbio che durante la seconda guerra mondiale siano stati sterminati sei milioni di ebrei, non uno di meno, che sia stata effettivamente Al Qaeda a organizzare gli attentati dell’11 settembre 2001, che gli Stati Uniti stiano seminando guerre e devastazioni da sessant’anni in tutto il mondo solo per portare la democrazia e la libertà, eccetera, eccetera.
  I miei due articoli apparsi più di recente su Ereticamente sono La filosofia dal nostro punto di vista e In hoc signo. Riguardo a quest’ultimo c’era poco da ribattere, trattando di questioni storiche fattuali, l’inverosimiglianza della famosa apparizione della croce a Costantino e la falsità della donazione a lui attribuita, nota da cinque secoli.
Tolti i soliti, prevedibili improperi di qualcuno che non merita considerazione e a cui in passato ho dato troppa attenzione, mi sono state segnalate due imprecisioni di cui prendo nota volentieri, anche perché le opportune correzioni non vanno a incrinare ma a rafforzare la mia tesi di fondo.
Per prima cosa, mi è stato segnalato che l’imperatore Eugenio non era pagano ma cristiano, tuttavia a differenza di Costantino, Teodosio e gli altri imperatori clericali, non intendeva affatto imporre il cristianesimo con la sopraffazione, ma lasciare ciascun suddito libero di scegliersi la propria fede: abbastanza per avere nel clericale Teodosio un nemico mortale. Difficile trovare una dimostrazione più chiara del fatto che il cristianesimo allora non voleva così come il cattolicesimo non vuole oggi competere con le altre fedi o visioni del mondo in condizioni di parità, perché sa che non potrebbe uscire altro che sconfitto.
La stessa cosa vale per la seconda obiezione: i Germani erano già all’epoca di Ponte Milvio presenti nell’impero come mercenari nell’esercito e contadini nelle province di frontiera, ma questo cosa dimostra se non sottolineare con ancora maggiore forza la mia tesi che la responsabilità della caduta dello stato romano non va attribuita a loro, ma a qualcos’altro senza il quale sarebbero stati progressivamente romanizzati e inseriti nell’impero come era accaduto ai Celti e ad altri popoli?
Vengo all’altro articolo. Da alcuni commenti raccolti in sede privata, ho potuto vedere che una cosa che sembra aver sconcertato alcuni miei corrispondenti, è l’esposizione della tematica anticristiana presente in madame De Stael, e che a me sembra logico considerare un precedente del pensiero di Nietzsche. Noi siamo perlopiù legati a un’idea molto stereotipa del movimento romantico, basata sulla tradizione dei manuali scolastici che ci presenta il romanticismo in contrapposizione all’illuminismo, come movimento dai tratti fortemente cristiani. Ammettiamolo: il romanticismo è stato un movimento complesso che non può essere ridotto a una schematizzazione semplicistica, a un luogo comune.
  Paul Serant nel libro Romanticismo fascista ha fatto notare che vi sono diversi romantici anche fra gli intellettuali antifascisti, ma che non si trova un intellettuale fascista che non abbia almeno qualche tratto romantico. E’ una concezione sulla quale possiamo convenire a patto di tenere presente la concezione ampia di romanticismo, non quella ristretta e scolastica, né tanto meno l’uso che spesso si fa di questa parola come puro e semplice sdilinquimento sentimentale.
  Forse però anche questi bigotti romantici che conosciamo dalle pagine della letteratura non erano gente da prendere tanto sottogamba, pensiamo che la Chiesa ha messo all’indice niente meno che I promessi sposi Alessandro Manzoni e non, ad esempio, le opere di Marx, si è sentita minacciata dal cristianesimo romantico-liberale di Manzoni più che da chi ha proclamato che La religione è l’oppio dei popoli.
Lo Spirito Santodoveva essere terribilmente distratto, ma forse la spiegazione è un’altra; a parte la consonanza di spirito abramitico (il marxismo è la quarta religione abramitica dopo ebraismo, cristianesimo e islam), dietro il verbo di Marx nella nostra epoca si sono allineati milioni di uomini, e se c’è una cosa per cui il cattolicesimo ha sempre avuto rispetto, è il potere: forti coi deboli e deboli coi forti.
Un altro persistente equivoco riguarda l’avversione che si suppone i romantici avrebbero nutrito nei confronti dell’antichità classica, in uno con la rivalutazione del medioevo dopo le denigrazioni di cui l’Età di Mezzo era stata oggetto da parte degli illuministi, ma anche questo non è che un luogo comune alquanto erroneo. I romantici non disprezzavano la classicità ma il classicismo, l’utilizzo che era stato fatto di essa soprattutto nelle scuole gesuitiche, non solo riducendo l’antichità classica a una sorta di propedeutica all’avvento del cristianesimo, ma proponendo un modello di cultura da letterati, teologi e legulei in antitesi all’incipiente progresso scientifico avvertito dalla Chiesa come una minaccia, una cultura – bisogna dirlo – nata morta, ma certa gente ha un potere inverso a quello di Mida: trasformare in sterco tutto quello che tocca.
I romantici tenevano in grandissima considerazione l’antichità greca, ammiravano soprattutto ma non solo l’epoca omerica, il mondo descritto nell’Iliade e nell’Odissea; insieme alla perfezione estetica dell’arte greca, essi suggerivano un mondo di bellezza e di armonia, di istintualità forte e libera e di gioia di vivere. La loro cultura era profondamente influenzata dagli studi di Wikelmann e dalle scoperte di Schliemann.
Semmai, occorre riconoscere che costoro ponevano una forte ed eccessiva distanza fra grecità e latinità: il mondo latino-romano era riduttivamente interpretato alla luce della lettura che ne aveva dato nei secoli la Chiesa cattolica, in più, essendo il romanticismo un movimento essenzialmente germanico, c’era una tendenza di campanilismo nazionalistico che li portava a evidenziare i momenti in cui nello scontro fra Romani e Germani erano stati questi ultimi ad avere la meglio, come nell’episodio di Teutoburgo. Non era l’essenziale del movimento, ma ci poteva stare.  
Che fra illuminismo e romanticismo esista una contrapposizione radicale, questa è una cosa del tutto ovvia. Là dove la tradizione manualistica, di nuovo, sbaglia completamente, è proprio dove vuole scorgere un trait d’union i due movimenti che sarebbe rappresentato dalla figura di Jean Jacques Roussseau.
In senso molto molto vago, potremmo dire che Rousseau è più vicino ai romantici di altri illuministi per una certa rivalutazione dei sentimenti rispetto alla ragione, ma è ancora più lontano degli altri illuministi dal romanticismo non appena si consideri la sua concezione della storia.
Quando parlano di positivo, i romantici intendono la concretezza storica (questo termine deriva forse dalla giurisprudenza, diritto positivo, cioè storico, contrapposto al diritto naturale) la positività è un valore, perché i romantici hanno una percezione molto viva del fatto che una cultura si
costruisce,
si sedimenta nel tempo attraverso l’esperienza delle generazioni. Nella seconda metà del XIX secolo, il positivismo ha rubato questo termine ai romantici, intendendo per conoscenza positiva la conoscenza scientifica, ma poiché costoro presumevano che fino ad allora l’umanità non avesse conosciuto altro che ignoranza e superstizione, ecco che l’uso di questo termine è di fatto capovolto rispetto al significato che gli attribuivano i romantici.
Noi possiamo riconoscere che il pensatore ginevrino ha avuto una grande intuizione affermando che Il cristianesimo separa l’uomo dal cittadino, deforma la morale nel momento in cui il suo scopo non è quello di stabilire giuste relazioni all’interno delle comunità umane ma di guadagnarsi il paradiso, non i rapporti fra gli uomini ma quello del singolo con un’ipotetica divinità, ma la sua concezione del buon selvaggio è stata una potente tossina velenosa inoculata nella cultura europea.
Per Rousseau, la storia ha un valore negativo, è il sempre maggiore allontanamento da un’originaria condizione edenica, da un mai esistito paradiso perduto (ed è molto strano che egli non si sia mai accorto dell’origine cristiana di questa concezione), quindi da ciò l’esaltazione del selvaggio, uomo che ancora vive o perlomeno vive ancora abbastanza vicino allo stato di natura, e la denigrazione di tutto quanto attiene alla cultura europea (un tema più presente di quanto non si creda nell’illuminismo che cerca di collocarsi quanto più possibile in un’ottica non-europea, come si vede anche dalle Lettere persiane Montesquieu). Credo di aver spiegato, e ora mi sembra inutile ripetermi, in particolare in Il fantasma dello stregone, come questa concezione porti a un vero e proprio cortocircuito dell’illuminismo che finisce per implodere e fagocitare se stesso.
  Basterebbe prendere in mano il nostro Thomas Hobbes, ingiustamente sottovalutato per vedere che ben prima di Rousseau si  sapeva che la vita del selvaggio nel presunto stato di natura è Brutale, misera e corta.
Gli effetti dirompenti di questa idea, di questa utopia, non si fermano qui ma sono molto più estesi di quel che potremmo pensare; infatti, secondo il ginevrino il bambino nasce in uno stato di innocenza originaria e poi la società lo corrompe; da qui l’ideale educativo della non-educazione; il giovanilismo della cultura attuale che in ogni circostanza tende a dar torto a chi ha i capelli più grigi, ci presenta il semplicismo disinformato per purezza, pone ogni ostacolo possibile al passaggio delle conoscenze da una generazione all’altra, la mitizzazione del ’68, il plauso al ribellismo giovanile quanto più anarcoide e distruttivo, magari accompagnato dall’uso di sostanze stupefacenti e via dicendo. C’è sempre il fantasma di J. J. Rousseau che fa la sua comparsa in tutto ciò.
 Una conseguenza strampalata di questa concezione è che la perdita dello stato di natura e dell’innocenza, il peccato originale (di nuovo Rousseau non si accorgeva di quanto fossero cristiane le sue farneticazioni) sarebbe stato l’introduzione della proprietà privata, e che basterebbe abolirla per creare il paradiso in terra. Di questa idea si impadronì più tardi un piccolo, barbuto ebreo di Treviri, con le conseguenze che tutti conosciamo. 
In senso molto lato, noi potremmo ricondurre l’illuminismo all’atteggiamento scettico e il romanticismo a quello fideistico, ma anche su ciò è necessario intendersi. Una volta un mio corrispondente mi citò una frase che si trova in La storia infinitaMichael Ende: E’ più facile dominare chi non crede in nulla. Lì per lì mi lasciò parecchio sorpreso: avrei pensato piuttosto che credere a tutto, bere le panzane del sistema mediatico rendesse molto più facilmente dominabili, che per aderire a una parte politica calunniata da sessant’anni come la nostra, non ci volesse nulla di meno di una robusta dose di scetticismo. Riflettendoci, ho capito di avere ragione solo in parte. La parola credere ha due significati: ci si può riferire alle credenze fattuali oppure all’etica e ai valori. In questa seconda accezione credere è necessario per agire, lo scetticismo equivale all’indifferenza e all’apatia, mentre occorre avere voglia di lottare e disponibilità al sacrificio. Queste due cose apparentemente così diverse, lo scetticismo e la fede, su due piani diversi sono necessarie entrambe.
  Nei confronti del romanticismo, il marxismo ha da molto tempo pronunciato la sua scomunica sotto forma del libro di uno dei più reputati esegeti di Marx del XX secolo, Gyorgy Lukacs, La distruzione della ragione, che porta come sottotitolo Da Schelling a Hitler.
Mi ha sempre colpito il fatto che l’elenco di Lukacs dei reprobi distruttori della ragione cominci con Schelling, il secondo dei filosofi idealisti che fa da ponte fra Fichte ed Hegel e che, al confronto con gli altri due, era una nullità. Schelling, anche se iniziò prima l’attività filosofica, era più giovane di Hegel e ne ereditò la cattedra all’università di Berlino dopo la prematura scomparsa di quest’ultimo. La prima lezione, il debutto di Schelling fu un evento attesissimo, e lasciò coloro che erano venuti ad ascoltarlo profondamente delusi. Fra questi c’erano Schopenhauer e Feuerbach, che di Hegel erano stati avversari irriducibili. Nella Germania della prima metà del XIX secolo prevaleva ancora la visione etica tradizionale per la quale un avversario valoroso era nettamente preferibile a qualcuno insignificante.
J. G. Fichte, Lukacs non ha osato toccarlo. Nei suoi confronti, in effetti, un marxista di appigli ne trova pochi. Nato in una famiglia poverissima, il fondatore dell’idealismo dimostrò ben presto un’intelligenza precoce che gli attirò l’attenzione di Immanuel Kant. Un tratto caratteristico del suo pensiero è la rivalutazione del lavoro, da sempre visto dal pensiero cristiano come una pena, come l’ereditaria espiazione del peccato originale: un giudizio che Fichte ribalta: il lavoro, anche il più umile, è il mezzo che ha l’uomo per esprimere la sua personalità e lasciare il suo segno nel mondo. Parallela è la rivalutazione del lavoratore: in epoche passate la svalutazione di ciò che l’uomo è in grado di fare, infatti, era una diretta conseguenza del fatto che i lavoratori erano appartenenti a categorie disprezzate, schiavi o servi della gleba.
Ma Fichte è anche il padre del moderno nazionalismo, colui che ha formulato l’idea dello stato-nazione i cui membri sono stretti da legami di sangue, dall’essere comunità di popolo, non dalla fedeltà a una dinastia né dall’ipocrisia burocratica e formale della cittadinanza come avviene nella falsificazione liberal-democratica. Il tedesco è una lingua molto precisa. Ciò che in italiano chiamiamo genericamente società in tedesco si può tradurre in due modi che hanno delle sfumature diverse: Gesellschaft, associazione formale nel senso ad esempio di una società commerciale, e Gemeinschaft nel senso di comunità stretta da vincoli affettivi, di esperienze condivise e di sangue. Nei Discorsi alla nazione tedesca, Fichte è estremamente chiaro: lo stato-nazione deve essere Gemeinschaft, prendersi cura di tutti i propri membri, ma può esserlo soltanto finché esiste questa comunità di sangue, e la superiorità dei Tedeschi sugli altri popoli deriva dal fatto che essi (ovviamente, parlava per la sua epoca) hanno mantenuto il loro sangue maggiormente libero da contaminazioni. Che nell’Europa nella sua globalità la gran parte del potere economico e la pressoché totalità di quello politico si siano trasferiti nelle mani di un ceto altoborghese di apolidi di lusso ciascuno dei quali ha molto più a che fare coi suoi pari grado degli altri stati sempre meno nazione piuttosto che con i concittadini degli stati di cui teoricamente ha la cittadinanza, questo Fichte l’avrebbe considerato la peggior perversione della politica, e la società multietnica la massima aberrazione concepibile.
Non è singolare che i compagni non vedano l’evidente connessione fra le due cose, e il fatto che la seconda è una conseguenza e uno strumento della prima? Ma la cosa più gentile che si possa dire nei loro confronti, è che se sono in buona fede (come certamente almeno i leader non possono essere) non capiscono il mondo nel quale vivono, che per disgrazia è anche il nostro.
La VERA distruzione della ragione, infatti, non
è addebitabile al movimento romantico, ma quella compiuta dal marxismo. Che in tutta Europa dopo il 1917 siano nati i movimenti fascisti, è una cosa che li lasciò completamente spiazzati. Ma come? Milioni di uomini in massima parte appartenenti alle classi lavoratrici, invece di saltare trionfanti sul carro della rivoluzione mondiale, si alzavano in piedi, pronti anche a imbracciare le armi per sbarrare la strada al bolscevismo con qualsiasi mezzo? Per i marxisti il fascismo rimane tuttora un mistero, e naturalmente odiano quel che non capiscono. Gli
storici di questa formazione ideologica sono arrivati persino a prendersela con Luigi Salvatorelli che ha proposto l’interpretazione del fascismo come rivoluzione della piccola borghesia.
Eppure, la verità era molto semplice, e non occorreva un’acutezza estrema per comprenderla: la rivoluzionebolscevica, chiunque fosse anche solo un po’ informato se ne rendeva conto, non aveva apportato nessun beneficio alle classi lavoratrici, ma solo il sorgere di una nuova opprimente autocrazia dalla quale erano proprio i ceti subalterni e i lavoratori a essere i più duramente colpiti.
I marxisti si aspettavano allora e si sono aspettati fino al 1991, che i lavoratori si schierassero dalla loro parte per quante mostruosità commettessero, in ragione niente altro che della loro collocazione di classe, hanno preteso e voluto che il comportamento di ciascuno fosse determinato esclusivamente da determinismi esterni che agiscono in maniera automatica, visto l’essere umano come, o cercato di ridurlo a un robot o uno zombi.
Il pensiero idealistico-romantico rimane uno dei momenti più alti della cultura tedesca, in cui essa ha influenzato più profondamente l’intera Europa. La Germania è il centro non solo geografico del nostro continente; quando essa ha contato, l’Europa è stata forte e rispettata.
Non vi è dubbio che la filosofia idealista, la cultura romantica, la concezione dello stato come Gemeinschaft. Si sviluppano in risposta ai movimenti liberali, rivoluzionari e giacobini sorti in Inghilterra (si pensi alle rivoluzioni del 1640 e 1688) e in Francia. Assai più figlia del pensiero franco-inglese che di quello tedesco è anche l’aberrazione marxista. Marx riciclò l’utopia di Rousseau e Saint Simon giustificandola con l’economia di Adam Smith e David Ricardo anche se aggiungendovi, è vero, suggestioni progressiste tratte da un hegelismo del tutto frainteso.
Nel 1989 il settimanale L’Espresso, che tutti sappiamo di quale parrocchia fosse allora e sia oggi, dedicò due fascicoli a celebrare il bicentenario della rivoluzione francese. E’ interessante il fatto che Ferdinando Adornato che li curò, confluì più tardi e fu eletto onorevole nel movimento berlusconiano, ma evidentemente la suddivisione fra destra e sinistra è del tutto accessoria rispetto alle linee di fondo dell’ideologia liberal-democratica.
Fra i vari articoli che compongono questi due fascicoli, ce n’è uno, Benedetta modernità di Lucio Colletti, ben nota vestale del progressismo di sinistra. Colletti dimostrò se non altro di avere chiara la percezione che quelle che si andavano sviluppando sulle due sponde del Reno erano due evoluzioni del tutto antitetiche.
La forte persistenza persino all’inizio dell’800 di elementi e tratti ancora medievali [fra cui, ben s’intende in primo luogo la visione organicistica dello stato come Gemeinschaft anziché la Gesellschaft ambita dal liberismo più sfrenato, che vediamo bene dove ci ha oggi condotto], furono vissute in Germania non solo come requisiti dell’ originalitànazionale rispetto agli altri Paesi; ma fornirono paradossalmente le armi per condurre una critica radicale della modernità: come se questa fosse null’altro che decadenza e proprio all’arcaica miscela tedesca spettasse, invece, l’avvenire.
La miscela tedesca era talmente arcaica che per stroncarla sono occorse ben due guerre mondiali, due conflitti che sono stati in assoluto i più violenti e distruttivi della storia umana. Oggi la cortina di menzogne a giustificazione della parte purtroppo vincitrice e di calunnie contro la Germania è ancora solida, ma comincia a mostrare le prime crepe.
La colpa imperdonabile del nazionalsocialismo era infatti stata quella di agire nell’interesse del proprio popolo, e non dell’alta finanza internazionale, le cui rapine ai danni dei popoli europei stanno dietro a tutti i movimenti democratici.
Per quanto possa sembrare strano, abbiamo a suffragio di ciò le esplicite ammissioni dei responsabili, a cominciare da Winston Churchill che nel 1960 dichiarò:
Il delitto imperdonabile della Germania prima della Seconda Guerra Mondiale fu il suo tentativo di sganciare la sua economia dal sistema di commercio mondiale, e di costruire un sistema di cambi indipendente di cui la finanza mondiale non poteva più trarre profitto.
Gli fa eco uno storico della seconda guerra mondiale, il generale J. P. C. Fuller:
Non fu la politica di Hitler a lanciarci in questa guerra. La ragione fu il suo successo nel costruire una nuova economia crescente. Le radici della guerra furono l’invidia, l’avidità e la paura.
Nel 1992, il segretario agli esteri statunitense James Baker ha poi precisato che:
La guerra [la seconda guerra mondiale] era solo una misura economica  preventiva.
Come se ciò non bastasse, dopo la caduta dell’Unione Sovietica nel 1991 sono emerse prove che nel 1941 l’Unione Sovietica si preparava a lanciare un attacco in grande stile contro l’Europa occidentale, e che l’Operazione Barbarossa e il conflitto tedesco-sovietico che ne sono conseguiti sono stati un disperato tentativo di prevenire l’aggressione prendendosi almeno il vantaggio della prima mossa.
Dopo la caduta dell’Unione Sovietica, un ex funzionario dei servizi segreti sovietici, Vladimir Rezun ha pubblicato sotto lo pseudonimo di Viktor Suvorov una serie di libri che rivelano il piano di Stalin per la conquista dell’Europa. In Italia, governata da sessant’anni da una classe dirigente figlia del tradimento dell’8 settembre 1943, dove l’antifascismo è un dogma, un’efficiente censura difende la democrazia dal suo nemico più pericoloso, la verità, e dei libri di Rezun-Suvorov per un ventennio non si è saputo nulla, ma recentemente è comparsa in internet una recensione di essi di Daniel W. Michaels apparsa su  Journal of Historical Review del Luglio-Agosto 1998 (quindi in ogni caso con un bel ritardo).
Nella primavera del 1945, ci racconta Michaels, Truppe dell’Armata Rossa riuscirono ad issare la bandiera rossa sul palazzo del Reichstag a Berlino. Lo dobbiamo agli immensi sacrifici delle forze tedesche e dell’Asse se le truppe sovietiche non sono riuscite ad issare la bandiera rossa a Parigi, Amsterdam, Copenhagen, Roma, Stoccolma e, forse, Londra.
A differenza di Ferdinando Adornato, Lucio Colletti e degli altri cantori del mito progressista, io non credo che il destino sia scritto in anticipo, che vi sia un senso della storiaprefissato. Il destino è quale lo fanno le azioni degli uomini. Quello che la cultura tedesca ha costruito fra il XIX secolo e la prima metà del XX rappresenta ancora oggi un deposito prezioso a cui ispirarsi per la rinascita dell’Europa. 

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