12 Aprile 2024
Punte di Freccia Rsi

Ritorno. Un omaggio… – Mario Michele Merlino

‘Un giorno dopo l’altro e cadono le foglie’…

Così prende inizio una fra le più belle canzoni de Gli Amici del Vento. Titolo: Ritorno. La storia di un reduce dalla prigionia. Forse trattasi del P.O.W 211 Camp, Algeria (nel testo si fa riferimento al deserto), poetato, ad esempio, da Franco Grazioli, già btg. Lupo – XMAS, nella raccolta Tempo di sera: ‘Sembrava di forgiare – il destino nelle mani – inermi, nel campo – chiuso dai reticolati – rugginosi e fermi’. Reduce invitto, combattente della RSI, con nel cuore e nella mente la camicia nera. E, proprio per questo, non prono alla sconfitta. Fiero e disperato. Fiero d’aver scelto e non essere scelto; disperato per lo scempio della Patria. E quelle foglie. Così rapidamente rese ingiallite dallo scorrere incalzante delle stagioni – l’esistenza della Repubblica, i suoi 600 giorni – ricordano i petali del fiore di ciliegio che ,nella tradizione nipponica, ci indicano l’etica del bushido, la via del guerriero, quel senso di brevità pura e nobile della vita con cui il samurai, di fronte al rischio d’offesa del proprio onore, non esita a rinunciare. E, sopra le acque del Pacifico, per l’ultimo volo giovanissimi kamikaze pilotano velivoli che, nel loro nome, rinnovano appunto il fiore del ciliegio.

‘Autunno, alla stazione non c’è tua moglie.

Saluti i vecchi amici che han visto la battaglia.

Ti muovi per le strade piano piano’.

Dopo aver trascorso mesi fra il filo spinato il rientro in Italia, stipati in carrette del mare e, di nuovo, rinchiusi nel campo di concentramento di Sant’Andrea a Taranto. Il famigerato Campo S. Qui altri prigionieri, provenienti da località sparse in Italia – Afragola e Grottaglie, alcuni dei luoghi di detenzione – e all’estero – diverse migliaia rientrati dall’Inghilterra e da Yol, alle pendici dell’Himalaya. Altre miserie, numerosi soprusi, ma anche l’incontro fra i camerati dei vari reparti della Repubblica, fratelli di Fede e di armi, compresi quei Giovani Fascisti, gli eroi di Bir el Gobi, in prigionia già ben prima dell’8 settembre. Fino a definitiva chiusura a metà aprile ’46. (Non prima dell’ennesimo episodio di vigliacca infamità. La vecchia madre di un internato aveva tentato di lanciare oltre la recinsione un pacchetto con del cibo. Questo era caduto al di qua del recinto e raccolto da una sentinella inglese che, per restituirlo, chiedeva la proibitiva cifra di seicento lire. Ne era nato un alterco e il soldato aveva spianato il mitra e sparato, ferendo a morte uno dei prigionieri presenti. Principio di rivolta nel campo, frenato da alcuni ufficiali che s’erano messi in mezzo a evitare la carneficina tra i loro commilitoni, armati solo di legittima rabbia e nude mani, e le guardie con la sicura già tolta ai mitragliatori e pronte a fare fuoco).

‘Sentirsi come un cane,

di tuo una divisa, due gladi,

ed il tuo onore, il cuore e una ferita…’.

 I vincitori, si dice, hanno sempre ragione, profumano di buono di donne e di vino; i vinti puzzano di sudore di fango di morte, hanno sempre torto. E la storia, si dice, la scrivono i primi, tronfi di sé, ebbri della ‘macelleria messicana’ perpetrata lassù, nel Nord d’Italia – e quanti sarebbero gli orrori da riportare! -, ignari come l’acciaio il più temprato conoscerà anch’esso la ruggine la polvere l’abbandono. Il vento del tempo dissolverà i canti le raffiche i fazzoletti rossi lasciando una ‘Povera Patria’ come, ad esempio, cantava Franco Battiato anni fa. Il degrado la vergogna nuove rovine… Ed il vinto, solo ed umiliato, straniero in patria, portando dentro di sé la notte, si farà, egli solo, cantore inascoltato del cielo stelle silenzio. (Ricordo, allora sedicenne, d’essere salito dalla costa di Romagna in un paesino dell’interno, con altri giovani camerati, a trovare l’unico reduce della ‘parte sbagliata’, un sopravvissuto chissà come e perché. Viveva in totale isolamento, in compagnia e a difesa due Doberman, usciva di solito a passeggiare quando faceva buio o sfidava i suoi concittadini sedendosi al bar della piazza dove il cameriere non gli serviva il caffè o gli sputava dentro. Ricordo, però, i suoi occhi, erano chiari e buoni).

‘…e gli occhi di una donna che fissano pietosi

i vent’anni di chi ha perso, nei suoi gesti un po’ scontrosi

per quei tuoi diciott’anni che hai giocato con la morte

ogni giorno, ogni istante hai costruito la tua sorte

per difendere un’idea, un onore calpestato

perché chi tradì in settembre non sarà mai perdonato…’.

Piero Pisenti, avvocato di Udine, divenne Ministro della Giustizia in data 6 novembre 1943, su diretta richiesta di Mussolini, preso nel formare il governo della Repubblica. Un anno di carcere preventivo dopo il ’45, assolto dall’accusa di collaborazione con formula piena. Un uomo minuto e mite, lo ricordava l’ausiliaria GNR Gina Romeo, e di essersi fatta largo tra la folla immensa per accompagnarlo all’interno della chiesa di San Belarmino ai funerali del Maresciallo Rodolfo Graziani. L’ultima e autentica manifestazione di massa del Fascismo dopo la sua caduta. Poi il neofascismo e altre storie che, qui, evito loro dare spazio. Nel 1977 pubblica il libro di ricordi e analisi dal titolo Una Repubblica necessaria. Necessità, dovere, Onore verso l’alleato tradito e, giustamente, furioso e intenzionato di fare tabula rasa dell’Italia, trasformandola in una seconda Polonia. Questo l’intento originario del doktor Goebbels e dei generali della Wehrmacht, frenati da Hitler e dall’esistenza di una struttura, pur tanto fragile, statuale e militare quale fu la RSI. Salvare il salvabile. Necessità, dovere, Onore. Di uomini e donne che avrebbero voluto essere forza combattente e di prima linea per contrastare l’avanzata, inarrestabile e inevitabile, dell’invasore alleato. Necessità, dovere, Onore e non solo. Tornare alle origini per un Fascismo ‘immenso e rosso’.

‘… ti sei portato dietro la tua primavera

quegli anni ancora verdi nella tua camicia nera’.

Creare il Partito di ‘credenti e di combattenti’, secondo l’intento poetico e folle di Pavolini, unica divisa il nero per gli anziani, i vecchi squadristi del ’19 e degli anni successivi, BL 18 pugnali e bombe a mano, messi in dispar-te dopo la normalizzazione ed ora tornati per l’ultima avventura, e il nero per i balilla con i pantaloni corti e tanta adrenalina e il fez e il moschetto modello ’91. Tutti al sacrificio estremo, alla mattanza. La socializzazione, il cammino tutto italiano verso il socialismo nazionale, i 18 Punti di Verona, troppo tardi ormai ma non per vivere un grande sogno ad occhi aperti. E di fronte la guerra più feroce e incompresa. Quella guerra civile, per bande, ove l’unica parola d’ordine è l’annientamento, lungo sentieri di montagna, per valli sperdute, colpo alla schiena, la scarica contro il muro dei cimiteri, l’agguato vile all’angolo della via e la rappresaglia rabbiosa. E le canzoni a sfida e conforto. Fino all’ultimo grido strozzato in gola mentre il nero della camicia si tinge di rosso sangue, generosamente versato.

‘Domani, domani

dovrai ricominciare a dimostrare al mondo

cos’è una fede vera’.

Involontario sopravvissuto, come amava definirsi la Medaglia d’Oro, fronte di Anzio, architetto Alessandro Tognoloni – testimoni d’un tempo eroico in grigioverde o in camicia nera -. Ai nostri occhi di adolescenti e, nonostante lo scorrere degli anni, ormai noi stessi fattisi vecchi, immoti nella mente e nel cuore. Fedeli, questo almeno non ci è venuto meno.

23 settembre 1943 – 23 settembre 2017, omaggio all’unica Repubblica di cui, immodestamente, sento di avere cittadinanza.

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