12 Aprile 2024
Tradizione

Ricominciamo da capo (prima parte) – Antonio Filippini

Per rimediare un po’ all’invasamento quantitativo e meccanicista di cui siamo vittima, niente di meglio che dare una bella rispolverata ai concetti più elementari della metafisica. Questa fa partire tutto dall’Alto, dal Superiore, dal Completo, dal Perfetto, dall’Infinito, dall’Incondizionato, la ragione di ciò sta nel fatto che “Niente può manifestarsi e venire in esistenza che non sia già stato presente fin dall’inizio, sia pure in forma di semplice possibilità o potenzialità, nel Principio originario”. La seconda ragione è che “il più non può derivare dal meno”, non si può concepire o creare ciò che sta di là dalla propria comprensione; per poter andare “avanti”, deve esistere o preesistere un “avanti” in cui andare, specie se questo “avanti” è verticale. Un inferioreessenziale o qualitativo non può determinare o creare un superiore qualitativo o essenziale; la quantità monta dal basso ma la qualità può solo discendere dall’alto. La ragione di questo è molto facile da comprendere, la qualità essendo l’opposto della quantità, non è soggetta alle leggi aritmetiche, perciò non può aumentare né evolvere per semplice addizione o accumulazione, o diminuire per semplice sottrazione, può solo trascendere o lasciarsi trascendere, in un senso o nel senso opposto. La qualità non è sensibile al numero, che significa che 1+1 farà sempre 1. Assommando il singolo individuo umano a miliardi di altri individui, si ottiene soltanto il collettivo umano, l’uomo è e rimane “uomo”, semplice espressione dell’ordine di realtà umano. La qualità “uomo” o l’ordine di realtà umano è insensibile al numero, che ne esista uno solo o miliardi, per tale qualità la cosa è del tutto indifferente.

La prima proiezione-distinzione che procede dal Principio originario, è appunto la doppia valenza: Essenza e Sostanza, che più in basso diventeranno Qualità e Quantità, queste sono il basamento dell’ordine di realtà manifesto e la sua ragion d’essere, assurda quindi la pretesa di certi maniaci dell’unificazione di far sparire anche questa coppia, perché, secondo loro, sarebbe una dualità che come tale negherebbe l’unità, ma il concetto di unità non si addice molto al Principio originario, perché tale concetto marcia sempre assieme a quello di molteplicità. Unico o singolo e molteplice, unità e separatività, l’intero e la parte, queste sono cose che risentono un po’ troppo della logica quantitativa, non si addicono al fattore qualitativo, caratterizzato com’è dalla differenziazione gerarchica verticale, né ha senso riferirle al Principio originario, che permane sempre di là da ogni differenziazione. La differenziazione qualitativa verticale dà luogo agli ordini molteplici di realtà (da non confondere con gli “universi paralleli” dei moderni, solita grottesca imitazione parodistica), e il rapporto tra questi ordini di realtà non è né può essere meccanico, ma è basato sull’analogia, perché c’è di mezzo la trascendenza, ed è pure basato sulla trasposizione di significati. Gli immanentisti non accettano la trascendenza perché questa sarebbe separativa, mentre in realtà ciò che trascende contiene in sé ed è anche ciò che è stato trasceso, ma non può essere ridotto solo a questo, perché è anche “altro” (possiede una valenza realizzativa propria). Gli immanentisti non accettano questo “altro” perché sarebbe separativo e incomprensibile, ma si tratta di un’impostazione sbagliata e di un equivoco, per giunta un po’ idiota, perché per l’inchiostro della penna, per esempio, il pensiero che scrive sulla carta e colui che lo ha concepito, sono senz’altro “altro” rispetto alla sua natura! A ciascuno il suo, non è minimamente richiesto all’inchiostro della penna che debba per forza comprendere il pensiero che scrive! Io sono anche l’inchiostro della mia penna, poiché è una mia produzione, ma l’inchiostro della penna, finché permane tale, sarà solo inchiostro senza essere me! Quello degli immanentisti è un ragionare a rovescio. Si è perfino avuta l’incomprensione se non addirittura lo scimmiottamento del “quello” vedantino, che là si riferisce al Brahman Supremo e non certo all’“altro” orizzontale, cioè agli altri, alla molteplicità quantitativa, che nella sua totalità può essere solo un simbolo del Principio Supremo, ma non è affatto identificabile con questo.

L’unità ricercata ossessivamente da Hegel è ottenuta mediante una logica che è francamente da bari intellettuali, si tratta dell’identificazione forzata di fattori che in realtà si trovano o possono trovarsi in rapporto gerarchico, quindi si stabilisce un rapporto orizzontale e egualitario tra fattori che magari si trovano in rapporto gerarchico, tutto questo allo scopo di negare il rapporto trascendente che sarebbe separativo, con l’aggravante del capovolgimento del significato dei fattori in gioco. L’“essenza” è data come un obbligo, un “dover essere”(1), mentre l’“esistenza” sarebbe il “ciò che è”, invece tradizionalmente l’“esistenza” è un’apparenza esteriore dell’“essenza”; lo stesso vale per il “reale” anteposto o valutato superiore all’“ideale”, mentre si è già visto che si tratta di due stadi diversi di un medesimo processo manifestativo o “realizzazione discendente”. Hegel ha capovolto il rapporto gerarchico tradizionale esistente fra la Realtà non manifesta, data come originaria e principiale, e la Realtà manifesta; fissandosi su quest’ultima, Hegel è come se avesse rovesciato in basso le potenzialità della Realtà non manifesta, applicandole all’esistenza manifesta. Altro che fare di Hegel un “maestro”, un “iniziato”! Quella di Hegel è un’iniziazione a rovescio, un ridurre o ricondurre il superiore all’inferiore, perfettamente in linea col decadentismo moderno, e il mondialismo che stiamo subendo, è la fatale conseguenza logica di quell’unità immanentista che piace così tanto a questo autore, quando non ne sia il suo massimo responsabile. Non facciamola tanto lunga, si tratta del banale processo manifestativo: prima si concepisce un’idea, poi la si realizza in forma autonoma. Per quale motivo io dovrei essere soltanto ciò che realizzo esteriormente? Io, come Spirito, sono e sarò sempre anche “altro”, ciò che ho manifestato è solo una mia banale possibilità del momento. Identificando completamente conoscente e conosciuto, essenza e esistenza, reale e razionale, invisibile e visibile, sovrasensibile e sensibile, divino e mondano, ecc. in questo modo si nega il rapporto gerarchico che può esistere tra questi fattori, e il tutto sfocerà fatalmente nel livellamento verso il basso, che è anche inversione gerarchica; in omaggio a un altro principio che afferma: “Se tu neghi una cosa che è vera e reale, questa, non potendo sparire, tu allora sarai costretto a subirla o realizzarla a rovescio”. Si identificano completamente tra di loro due fattori opposti perché l’alternativa sarebbe ammettere la presenza di un principio che li trascende entrambi, non rendendosi conto che questa totale identificazione è contraddittoria rispetto alla funzione che devono svolgere gli opposti. L’identificazione totale del reale col razionale o viceversa, restringe il concetto di “reale” solo a tutto ciò che è manifesto, evidente, visibile, perché il “razionale” in un certo senso è il produttore dell’elemento formale esteriore, e siccome l’atomo o la materia è il supporto base di questo esteriore, allora tutto inclinerà verso un fatale materialismo. La cosa non è molto intelligente, perché è come sostenere che l’architetto è solo le opere che ha realizzato materialmente, si tratta del solito caricamento maligno della “realizzazione manifestativa”, che però è fatalmente gerarchica. Finora nessuno, nemmeno il famoso architetto Fuxas si è mai sognato di dire che lui è solamente le opere che ha costruito, questa identificazione totale va ad esclusivo vantaggio dell’elemento secondario e inferiore, va a vantaggio dell’edificio realizzato materialmente, che è dato come “uguale” all’architetto che lo ha ideato, ma non è nell’interesse di quest’ultimo, che è “anche questo” ma però non è “soltanto questo”; ecco perché il concetto che gli immanentisti hanno dell’unità è sottilmente velenoso e sovversivo, perché tale concetto implica la riduzione all’inferiore e quindi l’inversione gerarchica, questo dà ragione alla formula: immanentismo = satanismo. Innanzitutto ci vuole la disindividualizzazione, ammettendo che: “È suscettibile di esistere tutto quanto può essere pensato, indipendentemente da chi è che pensa”, poi ci si deve rendere conto che la realizzazionein forma autonoma della cosa pensata, può essere un modo di responsabilizzare il pensatore, mettendolo di fronte alle conseguenze pratiche del suo pensare, ma questo è anche un modo di prendere coscienza delle proprie potenzialità, osservandole tridimensionalmente dall’esterno e in opera. Sennonché il “pensatore” si ritroverà ben presto circondato e addirittura schiavo delle cose pensate, completamente immedesimato in esse; per risolvere la questione serve a poco la mania unificatrice hegeliana o immanentista, che è una unificazione esteriore e “a posteriori”, un ragionare a rovescio, si deve invece prendere coscienza di quel processo che ha reso autonomo il pensiero o la cosa o l’idea pensata. Prima si è avuto l’Essere che ha deciso di impadronirsi della sua possibilità, rendendola autonoma (dal Principio Incondizionato), dopo è stato fatalmente ripagato con la sua stessa moneta: anche le sue produzioni pretenderanno di realizzarsi in forma autonoma. Il processo è in parte naturale, poiché è caratteristico della logica del “manifestare”, che implica sempre dare una forma autonoma a ciò che si manifesta.

Tradizionalmente si fa partire tutto da un Principio che trascende ogni particolarità o dualità manifestata, per quanto riguarda gli opposti complementari, questi sono tali, cioè complementari, perché sono la proiezione di un medesimo principio originario, quindi è assurda la pretesa di farli sparire o di rimescolarli e imbastardirli in nome di una pretesa unità, in realtà così si realizza l’opposto, si nega il principio iniziale da cui derivano, perché se la coppia di opposti è una proiezione di tale principio, lo confermerà, sia pure in due modi diversi, perciò negando tale coppia, si negherà pure il principio originario da cui deriva, questo è un problema che non esiste, o meglio, esiste solo nella mente bacata degli immanentisti. Non a caso in Hegel la sintesi è finale, è costruita a posteriori, mentre è più logica la formula opposta: “data una sintesi o un “tutto” iniziale, sarà sempre possibile enucleare da essa o da esso una tesi e un’altra tesi opposta”. Dato un principio iniziale, questo sarà sempre libero di proiettare una duplice immagine di sé, che in nessun caso farà venire meno la sua realtà e unicità di “principio iniziale”.
La chiave della comprensione di certe cose sta nel senso e nel significato, perfino nel significato letterale di certe parole, prendiamo la “Realtà manifesta”, per esempio, il Cosmo o Universo tradizionalmente è chiamato così. La Realtà manifesta è tale perché qui le cose si manifestano, questo è positivo da un lato ma negativo dall’altro, poiché manifestarsi significa anche apparire, ciò che appare è solo un aspetto della realtà e quindi è un’apparenza, da qui il concetto orientale di maya, illusione, tenendo presente che illusione non è la Realtà manifesta in sé, ma lo scambiare questa come la vera realtà ultima e totale, mentre essa è solo una proiezione, un semplice aspetto o apparenza. Nella Realtà manifesta le cose appaiono, permangono per un po’ e poi spariscono, sostitute da altre, in un ciclo che sembra essere senza fine; la permanenza e l’apparente immutabilità dell’insieme organico, è solamente una proiezione analogica, una imitazione dell’eternità, appunto perché avviene nel mondo delle apparenze, mentre per gli immanentisti è l’unico modo per essere immortali, attraverso l’insieme che permane mentre i suoi costituenti scompaiono o cambiano incessantemente.

Gli opposti complementari sono dominanti nella Realtà manifesta proprio perché sono necessari per creare il contrasto, che è a sua volta necessario per manifestare. Tu non puoi certo dire di manifestare il tuo pensiero scrivendolo con l’inchiostro nero su carta nera, se la carta è nera, usi l’inchiostro bianco e se la carta è bianca, usi l’inchiostro nero; se invece di scrivere si parlasse, sarebbe la stessa cosa, si avrebbe bisogno dell’aria e delle corde vocali; il pensiero comunicato medianicamente è comunicato tramite una “vibrazione”, che, come tale, è bipolare, questo implica di nuovo il contrasto. “Manifestare” significa anche rendere evidente e soltanto il contrasto fra opposti (o con il neutro) può fare questo, tenendo presente che il contrasto è il semplice contrasto, non implica nessun antagonismo reattivo, così come il rapporto tra opposti complementari non deve mai essere di tipo dialettico. Adesso si può comprendere meglio la vera funzione delle due valenze: Essenza-Qualità e Sostanza-Quantità, la Quantità serve solo per esprimere, per manifestare (carta e inchiostro della penna), appunto per questo sembra essere predominante nell’Universo (l’“Universo è femmina” dei toltechi di Castanedacon i maschi in minoranza), ma ciò che si manifesta è “altro” da essa, è appunto la Qualità, cioè il senso e il significato. L’Essenza e quindi la Qualità è sempre associata a un significato, o meglio, possiede intrinsecamente un senso, tant’è vero che non può nemmeno esistere una Essenza o una Qualità priva di significato; questo, manifestandosi, si riveste di una forma sostanziale, perciò ogni forma esteriore avrà un significato, anche simbolico, esprime in forma simbolica quel significato superiore che appartiene all’Essenza. Carta e penna o corde vocali e aria assumono l’aspetto di quantità, sono quantità nei confronti del senso e del significato del pensiero espresso, che è qualità, uniti al volere di colui che parla e crea, costituiscono il ternario creativo (in relazione alla Realtà manifesta).
(1)Vedere l’Essere, l’Essenza, la Qualità, come un qualcosa che è obbligato a essere tale, come hanno fatto certi filosofi e una certa filosofia, questa è un’assurda forzatura derivante da una impostazione sbagliata, è come accusare il cane di essere cane; in questo caso il cane è innocente, è nella sua giusta posizione, è chi accusa il cane di essere cane ad essere in una posizione anomala, posizione molto vicina al rivendicazionismo maligno (un inferiore che vuole liberarsi dall’influenza esercitata su di lui da un superiore), che a sua volta implica un trasferimento illecito di libertà e quindi un’inversione gerarchica. Accusare l’Essere di essere costretto ad essere, questa è una logica che è molto vicina a quella di quel mattone facente parte di un edificio che recrimina perché lo hanno represso, esso vuole essere libero di essere mattone libero, e libero anche dall’essere mattone, reclamando per sé quella libertà che può competere solo a chi ha ideato e costruito l’edificio e pure il mattone. La fatale conseguenza logica sarà la riduzione dell’edificio ad un ammasso informe di mattoni prima e la dissoluzione dei mattoni stessi poi, questo è il fatale destino a cui vanno incontro tutti quegli elementi quantitativi che rifiutano di farsi “informare” da una valenza qualitativa superiore. Questo mette dei pesanti punti interrogativi anche sulla “teoria e fenomenologia dell’individuo assoluto” dell’ Evola filosofo, che è comunque un’elaborazione interna alla filosofia idealista, perché se è vero che l’io è sull’asse dell’Essere, però è altrettanto vero che di questo asse è il punto inferiore, che si arroga diritti e libertà che competono solo al punto superiore; poiché un io-individuo che si manifesta non può sfuggire alla doppia valenza: ciò che serve per manifestare, l’individuo corporeo (il punto inferiore dell’asse), e ciò che si manifesta, l’Essere(il punto superiore). L’identificazione completa e totale dei due punti è nell’interesse solo del punto inferiore (immanentismo, riduzione all’inferiore), per il punto superiore, una qualsiasi sua manifestazione e indipendentemente dal livello gerarchico in cui avviene, fosse pure l’intero Universo, sarà sempre qualcosa di insignificante rispetto alla potenzialità pura dell’Incondizionato (la vera Valenza superiore che è di là dall’asse dell’Essere e dai suoi due punti). Tipico di Evola è la “tensione verticale”, che lo porta al superamento continuo di fattori o campi più limitati, superamento che è anche trascendimento e che, volendo, si può far rientrare nell’“agire” più che nel contemplare, senza che vi sia troppa differenza tra i due fattori, tenendo comunque presente che il “guerriero” esprime una semplice espansione orizzontale, è un rajah e non un sattwa, anche se questa espansione orizzontale può essere presa come appoggio e come simbolo di un trascendimento verticale. Evola non ha mai rinnegato il suo momento filosofico, però ha fatto di meglio: si è portato oltre esso, lo ha trasceso, questo è ciò che molti che volano troppo basso non vedono o fanno finta di non vedere, perciò riportare ostinatamente Evola solo al suo momento filosofico, questo non significa certo fargli un piacere o nobilitarlo, è più un degradarlo e sminuirlo.

Antonio Filippini

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