13 Maggio 2024
Tradizione

Le SACRE, voilà l’ennemi! (1) – Vittorio Vanni

PREMESSA

Sui muri dell’Università di Nanterre, durante il maggio 1968, apparve questa scritta che esprime al meglio il carattere di questo scritto, che vuole esprimere il disagio concettuale e ideologico di un antico tradizionalista, in cui il sacro esprimeva un assoluto valore spirituale. Non è più questione di esprimere il carattere dell’arte, della religione, della filosofia, della letteratura nell’ambito del sacro, quanto di mettere in evidenza che il sacro è stato oggetto di manipolazioni nel corso dei secoli e oggi ancor più. Il sacro è stato sempre l’alibi della prevaricazione, dell’oppressione, dello sfruttamento di un’umanità spesso ignorante e quindi superstiziosa e pavida. O sacro, quante idiozie, censure, proibizioni, crimini si commettono in tuo nome! Tutto è sacro quando conviene ai potenti, la religione, la famiglia, la patria, le costituzioni, e anche l’arte, quando è asservita, come spesso avviene. Nel 1938 Michel Leiris espose una sua teoria del sacro, affermando:

Che cos’è per me il sacro? Più esattamente, in cosa consiste il mio sacro? Quali sono gli oggetti, i luoghi, le circostanze che svegliano in me questa mescolanza di timore e di attrazione, questa attitudine ambigua che determina l’approccio a una cosa spesso attirante e pericolosa, prestigiosa e reietta, questa mistura di rispetto, desiderio e terrore che può passare per il segno psicologico del sacro?”.
L’eventuale risposta individuale di Leiris, come spesso avviene, è meno importante della domanda. Ogni conoscenza si basa sull’esperienza individuale e irripetibile di ognuno. Ogni oggettività, da questo punto di vista, può essere essenzialmente incidentale. Il pensiero è utile solo quando mette alla prova il pensiero “oggettivo”, evertendolo, in nome di un progetto, di una convinzione individuale. Il sacro esiste solo sotto una finzione filosofica o religiosa, ed esprime illusoriamente l’incomprensibile e l’ineffabile per produrre le consolanti ed ignobili superstizioni che sono gli strumenti dei manipolatori. La lotta che Giacobbe affronta ogni notte con l’angelo del reale e della verità rende, al mattino, sublimemente claudicanti. Si può affermare che il nostro tempo confina il sacro nelle affabulazioni del passato? La conoscenza moderna ha ucciso definitivamente Dio, ritenendolo l’espressione di una trascendenza tanto destituita quanto nostalgicamente persistente? Il processo di secolarizzazione della nostra società affosserà definitivamente il senso del sacro o ne prepara il ritorno?
Sono domande oggettive la cui risposta non può essere che soggettiva. Le risposte possibili delle concezioni fideistiche, in questo senso teleogicamente corrette e dialetticamente conformi, sono che il sacro è morto oggi solo per risorgere, forse, domani. Ma la storia e la società non potranno dimenticare che l’illuminismo del XVIII secolo, lo scientismo e il positivismo del XIX, gli orrori del XX, sia nel sublime che nell’atroce, sono elementi evolutivi imprescindibili. Forse il sacro e il divino risorgeranno quanto le dolorose doglie della modernità saranno compiute e dimenticate, ma è delirante l’accusa di ateismo o di relativismo a chi diffida del divino e del sacro stessi.
Come afferma Lacan, “l’ateismo ha necessità di una dimostrazione teologica”e René Giraud insiste nell’indicare nel cristianesimo un’impresa di desacralizzazione, nel rifiuto degli dei e degli idoli, nella demistificazione del mondo magico. Il Cristianesimo – in Girau (2) – si oppone al sacro attraverso la rivelazione e la mistificazione della Passione, che indica come in realtà sia un meccanismo mitico – sacrificale. L’odio-amore del cristianesimo per il simbolismo, e nel contempo l’uso dell’arte sacra come principale simbolo di rivelazione e illuminazione è stato ben descritto da Antonio D’Alonzo (3)
“Le grandi religioni hanno spesso avuto dei rapporti conflittuali con le immagini. Lo spauracchio dell’idolatrismo pagano soffia sovente sul fuoco dell’iconoclastia: ma l’anelito religioso ha bisogno di postulare un filo rosso tra il cielo e la terra. Il trait d’union tra il regno delle essenze ed il mondo della caducità è sempre stato individuato nelle immagini. Esse servono ad orientare l’orazione o la meditazione, impedendo la dispersione mentale e, al contempo, facendo sentire il fedele meno solo. Le religioni in quanto sistemi di credenze devono necessariamente appoggiarsi su dei complessi simbolici in grado di manifestare e giustificare l’assenza del sacro. Da questa istanza deriva l’atteggiamento ambivalente della teologia verso le immagini, l’oscillare tra il pericolo dell’iconoclastia apofatica e la presunta deriva panteistica dove tutto è allegoria, significante di significante e quindi arbitrarietà, assenza di significato, nichilismo”. Il sacro può essere definito come un fenomeno sociale di carattere relativistico, che nelle religioni si pretende pragmatisticamente come fenomeno concettuale teologico o teleologico ma che a un’indagine razionale o, meglio, intellettuale appare come uscente dall’immaginario puro.
Ma ciò che si oppone veramente al sacro – e ne è l’opposto – è l’arcano. Perché il sacro, al contrario dell’Arcano, può essere ideato oggettivamente e quindi applicato sociologicamente e politicamente, usato strumentalmente, denaturato, degenerato.
L’Arcano, secondo Remy Boyer, è eminentemente soggettivo, quindi non utilizzabile collettivamente. Secondo la sua definizione (4).
Esistono davvero l’Arcano e gli arcani.
In certe tradizioni, le pratiche più segrete sono date a tutti, subito, ma ben pochi le realizzano. Il segreto non è l’arcano ma la realizzazione dell’arcano. L’arcano non è realizzato che sull’asse centrale, nella verticalità dell’essere.
L’arcano non può essere compiuto che in certi stati di coscienza, stati ottenuti accidentalmente, artificialmente. Anche se è necessaria una propedeutica, anche se un allenamento psicofisiologico si dimostra più sovente indispensabile, sono, l’uno e l’altra, non sufficienti. Il paradosso risiede in quel che è la pratica stessa dell’arcano che conferisce la giusta attitudine, il giusto stato che autorizza la realizzazione dell’arcano. Appare allora chiaro che manca una sequenza, che un segmento rimane a-logico (A-logico), che non è un processo, che vi è un salto nel vuoto, quel famoso intervallo, tanto ricercato, di cui nulla può essere detto. È qui che risiede il segreto, e soltanto qui. È quello di cui si parla quando si dice che la via deve essere trovata, conquistata, che i segreti non sono trasmissibili che per mezzo degli dei. Ma, altro paradosso, gli dei non si confidano che coi loro pari!”.

Sacer, nella lingua latina è ciò che appartiene al Dio. È quindi sacro per una sua qualità interiore, ma esprime anche una separazione, in quanto proibito al contatto umano. Sacer può essere Fas o Nefas, fausto ma anche infausto. Ciò che è sacro possiede un “mana”, un’energia potente, un Arcano a cui ben pochi possano avvicinarsi senza distruggersi.

IL SACRO E LE RELIGIONI

Ciò che si chiama “sacro” è un concetto puramente immaginario delle religioni. Il sacro, come lo ha definito la scuola antropologica francese di Marcel Maus, Marcel Granet ecc., è l’iscrizione nel tempo e nello spazio di ciò che da essi esula. Qual è il senso dei fondamentalisti cattolici americani che, opponendosi proiezione dell’Ultima tentazione di Cristo di Martin Scorzese, bruciarono diversi cinema? E la condanna a morte di Rushdie da parte dei fondamentalisti islamici per la pubblicazione dei suoi Versetti satanici non è la stessa idiozia che inserisce il sacro nel tempo cronologico e nello spazio quaternario piuttosto che su uno stato dell’essere che travalica la materia? Quando questa sorta di delirio interpretativo si trasferisce nel politico e nel sociale non possiamo meravigliarsi delle atrocità del XX secolo. Hitler, Stalin e tutti i sistemi totalitaristi del XX secolo, in cui l’ateismo fu eretto a religione di stato, trovano comunque le loro radici nel monoteismo e la sua concezione di verità assoluta e incontrovertibile. Le camere a gas e i gulag hanno i loro modelli nelle torture e nei roghi dell’Inquisizione. Anche il loro antisemitismo ha un’origine cristiana pur rinnegata e repressa, in nome di una supposta colpa originale giudaica mai dimenticata.
Anche gli ideologi neo-pagani o relativisti, da Voltaire a Wagner, non rimproverarono agli ebrei solo di essere tali, ma di non essere omologabili nel romanticismo celto-nordico, greco classico, ariano, cristiano. Voltaire rilegge attentamente i testi sacri (La Bibbia infine spiegata) per affermare che era stata copiata da Omero! In Wagner, Chamberlain o i nazisti, l’antisemitismo diventa un progetto antropologico generale, una sorta di favola romantica di una civiltà indo-europea alternativa al giudeo-cristianesimo. Ancora una volta, gli argomenti razionali e scientifici o anche mitici diventano i servi sciocchi della fede, una ricerca di un sacro alieno dai parametri dei secoli precedenti, ma in realtà ed esso strettamente collegato e conseguente.
Il XX secolo non ha potuto resistere a questa variazione ideologica e teologica fasulla, la creazione romantica di una tradizione eterna quanto degenerata nel ciclo del grande Manavantara, di cui la nostra era rappresenta la fine oscura, il Kaly Yuga, l’età del ferro, quella del Lupo, in cui il ribaltamento dei valori porta la feccia di ogni cosa al potere.
Ma l’equazione del XXI secolo è quella di permanere inevitabilmente nella Storia, o perlomeno in ciò che dopo Hegel si definisce “Storia” rimanendo liberi da essa. Se siamo nel Tempo c’è forse possibile rifiutare il tempo? Come è possibile che, come in una psicologica coazione a ripetere, il sacro si sia ripresentato al XX secolo con una maschera metafisica sopra un volto ancora mistico, fideistico, confessionale? Il circolo Eranos, che ha riunito per più di cinquant’anni menti come Corbin, Puech, Danielou, Sholem attorno a Jung, nella sua creazione grandissima di conoscenza, ha tuttavia riproposto un’errata concezione della “immaginazione creatrice”. Il sacro è legato a questa facoltà umana da un principio semplice: se esiste un’immaginazione trascendentale è facile farne un’immaginazione trascendente. Gli uomini, se si abbandonano al loro inconscio collettivo, dando più forza al sentimento, all’intuizione, all’emozione che alla ragione – abbandonando così l’equilibrio di queste due forze fondamentali della loro umanità – non possano che immaginare gli stessi cieli tanto consolatori che ingannatori.
Immaginazione deriva etimologicamente da imago. Mag è una radicale indoeuropea che indica forza, energia, grandezza. Immaginare è usare la propria energia interiore per la costruzione di una propria realtà, che può essere oggettiva di fronte alla comunità dell’inconscio collettivo ma deve essere soggettiva di contro alla ricerca e il raggiungimento dei molteplici stati superiori dell’essere, secondo la definizione guénoniana.
Questa oggettività trova una definizione a mio parere troppo quaternaria – umana troppo umana – in Mircea Eliade quando afferma che esisterebbero in tutte le anime degli archetipi universali che sono quelli del sacro e che formano l’inconscio di cui la psicoanalisi si è occupata. Tuttavia, nel suo testo Trattato elementare di storia delle religioni, ciò che non trova spazio è la Storia. A volte, per superare la dicotomia fra mito e storia, gli storici delle religioni affermano l’esistenza di un tempo eonico (o mitico) e un tempo cronologico che a volte, casualmente o causalmente coincidono. Ma questa affermazione trova oggi dei limiti ben precisi. Ciò che coincide fra questi due termini forse obsoleti è il concetto di reale dei nostri tempi. Semplificando al massimo, si può definire il concetto di realtà in Einstein nella sua affermazione che questa dipende dal punto di vista dell’osservatore. In Planck la realtà si modifica secondo il punto di vista dell’osservatore. Queste affermazioni, che concordano con gli antichissimi assiomi della conoscenza universale, non possono che contrastare con la teoria degli archetipi quando se ne induce che siccome gli uomini credono nella stessa cosa questa è reale e se ne deve far rivivere questa stessa cosa.
Gli archetipi sono un’espressione psicologica fondamentale nella conoscenza di sé e del mondo, ma la loro valenza non supera l’ambito animico dell’uomo e non può assumersi quella di definizione del metafisico, dello spirituale, del divino.
Il divino che è, per sua natura, infinito, eterno, inconoscibile e ineffabile alla finitezza e determinatezza della nostra percezione globale, non ha nessun rapporto con il sacro che essendo legato alla nostra percezione del tempo e della storia, avendo quindi un valore esclusivamente sociale, può e deve variare nella sua concettualità nell’arco delle evoluzioni, o involuzioni che siano, dell’umanità e del suo divenire. L’aspetto più profondo del sacro, e il pericolo oscuro che si annida in esso è stato descritto da Georges Battaille (5) in questi termini, che è necessario meditare di là dai propri pregiudizi e sentimentalità:
“Il sacro vuole la violazione di ciò che è ordinario oggetto di un rispetto atterrito. Il suo dominio è quello della distruzione e della morte”. Chi entra in una chiesa cattolica dei secoli passati, ad ammirare l’arte che la adorna, non può non concordare con Bataille. Il sacro è espresso in termini di tortura e morte, in resti reliquiari di arti ed organi mummificati, in una kermesse allucinante del dolore da cui non si può esulare in una prospettiva di una consolazione troppo lontana, evanescente, ingannatoria.

LA TRADIZIONE E IL SACRO

Negli anni ’60 e ’70 dello scorso secolo le giovani generazioni dei tradizionalisti erano orgogliosamente emarginate e si consideravano un’élite intellettuale solitaria, i Figli del Sole e delle Vette. Evola e Guénon, Mircea Eliade, Elémire Zolla erano i loro maestri e, secondo gli orientamenti (6) di Evola, rappresentavano, perlomeno nelle intenzioni, un particolare tipo umano, che:
pur trovandosi impegnato nel mondo d’oggi, perfino là dove la vita moderna è in massimo grado problematica e parossistica, non appartiene interiormente a questo mondo né intende cedere ad esso, e in essenza sente di essere di una razza diversa di quella della grandissima parte dei nostri contemporanei.”
Nell’espressione evoliana, Tradizione non è consuetudine o folklore, e si può considerare una società come tradizionale quando sia retta da principi trascendenti a ciò che è umano e individuale. Il dominio è formato e ordinato dall’alto e verso l’alto. È la trascrizione della città ideale di Platone che; ”non potrà mai altrimenti essere felice se non ne tracceranno il disegno quei pittori che dispongono del divino esemplare” (7).
Il mondo tradizionale non è retto secondo la teoria protagorea, in cui un ordinamento democratico si fonda sul concetto che ogni cittadino possegga una virtù politica, né secondo la teoria di Gorgia, che nega a ognuno il possesso di tale virtù e afferma la legge del più forte. La Tradizione, secondo Zolla:
“…è la trasmissione dell’Idea dell’Essere nella sua perfezione massima. Dunque di una gerarchia fra gli esseri relativi e storici fondata sul loro grado di distanza da quel punto o unità. Essa è trasmessa non da uomo ad uomo, bensì dall’alto: è una teofania. Essa si concreta in una serie di mezzi: sacramenti, simboli, riti, definizioni discorsive il cui fine è sviluppare nell’uomo quella parte o facoltà o potenza o vocazione che si voglia dire, la quale lo pone in contatto con il massimo di essere che gli sia consentito, ponendo in cima alla sua costituzione corporea o psichica lo spirito o l’intuizione intellettuale”.
In questa definizione, la semplice adesione all’idea tradizionalista diviene una vocazione o potenza trasmessa dall’alto, una facoltà sacrale frutto di una teofania, determinando una gerarchia dell’essere indiscussa.Non possiamo dimenticare, in questo senso, la profonda influenza del pensiero di René Guénon, i cui testi sono pubblicati sia dagli editori dell’ambito esoterico che da altri – molto ufficiali e integrati – come Adelphi. La tesi ripetuta in ogni testo guénoniano è l’esistenza di una tradizione rivelata, anteriore a tutte le religioni, che sono soltanto le forme exoteriche di essa, forme impoverite e ingannatorie, adatte al volgo. In questa tesi, se i moderni si sono allontanati dalle religioni, che rappresentano la necessaria quanto volgare apparenza della tradizione, ciò deriva dalla perdita concettuale della continuità fra i due aspetti, appunto tradizione e religione. Ma vi è fortunatamente, secondo il pensiero guénoniano, un’élite che ha conservato questa famosa tradizione. Ma a coloro che si dichiarano élitariamente tradizionalisti è impossibile chiedere a che titolo parlano e quali siano le fonti di questo supposto sapere. Si sostituisce così alla figura del sapiente, che deriva la sua trasmissione da fonti perfettamente chiare, analizzabili e verificabili, all’autorità spesso caricaturale dei maestri, che hanno tramandato, attraverso i secoli, una verità che avrebbero appreso orizzontalmente, attraverso una catena temporale continua. Vi è, in questa concezione della tradizione, una tendenza teologizzante e dogmatizzante che non può non concordare con quella puramente religiosa, e che rappresenta in realtà il vero filo di Arianna delle cosiddette fonti tradizionali. Lo Schuon (8), autore della scuola guénoniana, ribadisce questo concetto quando afferma:
L’aspetto exoterico d’una tradizione è dunque una disposizione provvidenziale che, lungi dall’essere biasimevole, è necessaria, visto che la via esoterica non può riguardare, soprattutto nelle condizioni attuali dell’umanità terrestre, che una minoranza, e che non c’è niente di meglio, per il comune mortale, della via consueta della salvezza.”

In questo senso, vi è una contraddizione dei termini, in quanto fede e conoscenza sono concetti antitetici. La fede è acritica, basandosi su una verità comunque indimostrabile, ma aprioristicamente determinata e definita. La sua certezza fideistica chiude la ricerca, mentre la conoscenza si apre a essa mediante il dubbio che è la chiave dell’infinito e dell’eterno.
Ammettendo che la tradizione sia la primigenia forma della spiritualità, la via più reale e diretta ai molteplici stati dell’essere, come può aver necessità di un exoterismo religioso considerato comunque volgare e adatto solo ai comuni mortali?
Le religioni combattono il sincretismo tradizionalista, che tende a omogeneizzarle tutte in una sorta di comparativismo pervertito inaccettabile ai fondamentalisti incalliti. Ma questo sincretismo in realtà forma una sorta di religiosità intercambiabile e ineluttabile, che non può comunque esulare dall’inevitabile contrasto fede-conoscenza.
I tradizionalisti si assumano quindi, surrettiziamente, la funzione di una clericalità superiore gerarchicamente a quella delle varie caste sacerdotali, quanto altrettanto basata su l’affermazione di una verità rivelata e indiscussa.
Questa tesi è stata riproposta anche da Mircea Eliade (9), attraverso l’interpretazione dell’inconscio junghiano. Secondo Eliade, esisterebbero in ogni anima degli archetipi universali che sono gli archetipi del sacro e che formano quell’inconscio di cui la psicoanalisi si occupa. Se nell’anima umana vi sono dei simboli e degli archetipi che si ripetono, allora la storia delle religioni non è che l’ermeneutica di questi. Si induce quindi che gli uomini, di là dalle forme, credono alla stessa cosa, ed è quindi giusto di farla vivere o rivivere nella sua alienità dalle forme stesse. I vantaggi consisterebbero nel fatto che la fede costituita nelle varie religioni particolari non “spoglierebbe” quindi il sacro e che si potrebbe così sfuggire al pericolo dei vari dogmatismi.
Eliade definisce la “universalità” del sacro, e quindi l’oggettività di esso in questo modo(10):

L’occidentale è avvezzo a riferire spontaneamente le nozioni del sacro, della religione, e perfino della magia, a certe forme storiche della vita religiosa giudeo-cristiana, e quindi le ierofanie straniere gli sembrano in gran parte aberranti. Anche se fosse disposto a considerare con simpatia certi aspetti delle religioni esotiche – anzitutto delle religioni orientali – soltanto con difficoltà riuscirà a capire la sacralità delle pietre, per esempio, o l’erotica mistica. Ε anche supponendo che tali ierofanie eccentriche possano in qualche modo giustificarsi (per esempio considerandole «feticismi »), è quasi sicuro che un uomo moderno sarà refrattario alle altre ierofanie, ed esiterà a riconoscere il loro valore di ierofanie, cioè di modalità del sacro”.

Ma il rischio, in questa visione, è quello di ricostituire una chiesa di coloro che non hanno chiesa, di ricostituire dogmi inverificabili e, come tali, oppressivi e prevaricatori.

IL SACRO, LA TRADIZIONE E I TRADIZIONALISTI.

I tradizionalisti, nel suddetto periodo, erano di una composizione sociale piccola o medio-borghese colta, alieni dalla politica corretta della loro epoca, liceali o universitari di un tempo in cui le classi popolari erano escluse dalla cultura accademica. Per lo più legati a ciò che si potrebbe definire destra rivoluzionaria, antiliberale e antiborghese i loro riferimenti erano la filosofia di Evola e Heidegger, Junger, ma anche alla sociologia politica di Ezra Pound, Berto Ricci, Romano Bilenchi e al romanticismo letterario della sconfitta di Ernst Von Salomon e di Vintilâ Horia. Sarebbe interessante analizzare il pensiero effettivo di questi filosofi, politici, scrittori, sociologi, comparandolo con quello della cosiddetta “destra metafisica” e potremmo verificare che la loro concettualità non sempre coincide con quella dei loro discepoli.
Quali sono stati gli assiomi di questi tipo di “destra”?

1. La società deve essere governata da una tradizione obliata in un periodo di estrema decadenza.
2. Più indietro si va nel passato e più questa tradizione è pura e luminosa.
3. La risposta e la critica verso le ideologie del presente è carente, in quanto il carattere “numinoso” della tradizione è incontestabile e non necessita di verifiche nel contingente.
4. La finalizzazione della storia, “l’eterno ritorno” è molto simile alla Parusia cristiana e probabilmente da essa deriva, nell’ammirazione della “linearità orizzontale” del cattolicesimo, e della sua arcaicità concettuale. Da qui le tentazioni cristianeggianti e anche cattoliche di alcuni tradizionalisti, nonostante il loro neo-paganesimo di fondo.

Raramente ci si occupa più della metafisica introspettiva individuale del postulato tradizionale che della questione socio-politica, involuta in un pessimismo sociologico che è, specularmente, lo stesso errore dell’ingenuo ottimismo del “progressismo”. Dato che i contemporanei sono naturalmente stupidi, cattivi, decadenti, che la società materialista dell’oggi non recupera i valori spirituali del passato, che la scienza e la tecnologia sono gli strumenti stessi del male, i tradizionalisti rifiutano qualsiasi concetto di evoluzione storica, qualsiasi solidarietà con un popolo che considerano comunque sfruttato, ingannato, prevaricato.

L’ego diventa così introverso, ipetrofico, eccessivamente individualista, dicotomico di contro alle premesse universalistiche tradizionali, che prevedono una società globale in cui ognuno si situa al posto che gli compete intellettualmente e spiritualmente. È questo l’ego della cosiddetta corrente tradizionalista del XX secolo, nelle sue utopie regressive, le sue considerazioni fumose e astruse. Il suo fatalismo metafisico produce inattività e perdita di energia, rinforzando la figura borghese del pensatore come perno immobile della storia, giustificando così la sua fragilità e debolezza intrinseche.
Le radici nietzschiane della volontà di potenza sono così dimenticate, come la filosofia delle vette di Evola. Di fronte alla ripulsa contro il mondo moderno, ricordiamo l’aforisma di Nietzsche:

una cosa buona non ci piace, se non ne siamo all’altezza”.

Vi sono però, nell’era attuale, delle variazioni concettuali nell’immaginario tradizionalista. Si inizia a intravedere che le qualità liriche, poetiche, estetiche di una cultura sono strettamente integrate nei loro valori materiali e spirituali, e che non vi è, come nel pregiudizio cristiano, separazione fra materia e spirito. La scienza fisica oggi è sconfinata nella metafisica e il suo progredire produrrà unità e identificazione fra il reale oggettivo e quello soggettivo. Si inizia a intravedere che la tecnica non produce soltanto effetti materiali e meccanici, ma variazioni profonde nella psiche umana, che è la porta stessa dell’anima e degli stati molteplici dell’essere. Se il tradizionalismo del XX secolo ha rappresentato il museo di una vita borghese rinnegata quanto praticata, quello del XXI secolo potrà rappresentare il suo cimitero. L’idea tradizionale non potrà più essere il lato oscuro e opposto – ma complementare – della modernità, il collezionismo melanconico delle contemplazioni, delle distrazioni, degli esercizi estetici fini a se stessi. Questi strumenti di sonno e di morte potranno divenire mezzi di azione, trasformazione del mondo, della cultura e della società.

Come affermò Goethe, l’azione precede tutto, e i valori e le idee non esistono prima di agire.

IL SACRO E LA TRADIZIONE NELLA VIA INIZIATICA
L’Uomo di Desiderio, nella ricerca di equilibrio e di quiete interiore, è sottoposto più di ogni altro alle tensioni quaternarie, alle contraddizioni delle correnti psichiche provenienti da una civiltà in decomposizione, alle difficoltà economiche e sociali sempre crescenti e impellenti. La via iniziatica mette in contraddizione una raggiunta sensibilità, sempre più acuta ed esasperata tanto più lontano è stato l’inizio del cammino, con la necessità di mantenersi in un centro di neutralità e pace interiore.
Se “l’uomo del torrente” vive in preda delle contingenze, e soprattutto delle passioni che gli avvenimenti gli producano vi è forse qualcuno, anche e soprattutto fra gli Uomini di Desiderio, che può dichiararsene immune? Ed è possibile, e soprattutto giusto, reprimere impulsi biologici come, ad esempio, l’aggressività quando dobbiamo far fronte all’ingiustizia, o difendere che è meno fortunato di noi e non si può difendere? Il rituale massonico di origine francese e scozzese dimostra una secolare esperienza umana e una filosofia stoica di alto livello quando recita:

M.V. Per quale motivo si riuniscono i liberi Muratori?
1° Sorv.: Per scavare oscure e profonde prigioni al vizio ed innalzare templi alla virtù.

Non si tratta quindi di eliminare il vizio, perché anche il male che vi è nell’uomo è parte ineliminabile della legge degli opposti e della polarità. A che servirebbe amputarsi un braccio paralizzato che fa parte comunque del nostro destino e del nostro male?
Regolare e reprimere le tendenze eccessivamente egoistiche, distruttive e autodistruttive è l’unica strada possibile all’uomo, così come pensare di poter veramente praticare le virtù è illusorio e fuorviante. Possiamo solamente lodarle e tentare di praticarle, nella coscienza che il principio materico di imperfezione che esiste nell’universo si riflette inevitabilmente nella nostra natura biologica e nella nostra umana, umanissima, interiorità. I Filosofi Unitarie e Triunitari a cui ci sentiamo affini, credono e affermano l’esistenza dell’anima. Ma cosa è quest’anima, se non ciò che ci anima, e come possiamo credere di abolire, ingannandoci, le reazioni di sentimenti ed emozioni di fronte agli imprevedibili e spesso non voluti avvenimenti della nostra vita? Per Jacob Boehme, l’anima non è un principio immateriale (11). Nasce dalla nostra stessa fisicità, dai geni e dagli zigoti che i nostri antenati ci hanno trasmesso, dalle esperienze di tutta una vita, reali o oniriche che siano, ed è forse più formata da sogni, miti e misteri che da atti e accadimenti reali. L’anima è una sostanza, cioè un insieme di qualità o proprietà sensibili. L’unica sostanza dell’anima è la sensibilità, cioè la capacità individuale di reazione, elaborazione, trasformazione, sublimazione ed elevazione di fatti esteriori o interiori. Anche se, per un gratuito atto d’amore di Dio, l’anima fosse abitata per un eterno istante dallo Spirito di Dio, sarebbe ugualmente un prodotto materico della nostra sensibilità (12). Se è vero che è lo spirito la radice incomprensibile dell’anima, preesistente alle cose e alla stessa emanazione della natura e dell’uomo, è vero nel contempo che lo spirito ha, per la sua stessa suprema esistenza e coscienza, qualità sensibili non materiche e totalmente sottili. Sono queste che preformano l’anima sensibile dell‘uomo, come forme misericordiose che non accolgono e non disperdono inutilmente le esperienze gioiose e dolorose della vita umana, il cui senso non è quindi nella loro essenza in sé ma nella forma radicale in cui sono collazionate e comprese. La nostra anima, in sé pura maschera di un individuo caduco è, nonostante questo, il sensorium che può comunicare con il piano divino.

Vi è una parte tenebrosa dell’anima, che percepisce grossolanamente il percepibile, ma vi anche una parte luminosa che sa percepire l’impercepibile. Lo spirito è assolutamente inconoscibile. Solo i riflessi della sua luce sono percepibili nell’ombra della nostra anima, sensibile solo alla materia e ai suoi avvenimenti. La scintilla dello spirito in noi è emanata direttamente da Dio. L’anima sensibile è creata e imperfetta, ma è l’unica intermediaria capace di sentire l’eco della grande voce. Vi sono quindi due letture possibili di ciò che Dio ha emanato scrivendo nella materia. Il primo libro, il Liber M[undi] dei rosacroce, è la lettura di ciò che è creato e visibile. Anche i libri più sacri dell’umanità sono espressione dell’anima sensibile dell’uomo, e quindi sottoposti all’imperfezione della sua interpretazione. L’uomo non è che la natura (13), solo l’anima eterna è la natura eterna. In Boehme, quindi l’anima sensibile, pur essendo materica ha origine e radice dall’anima spirituale, la sola che può amare e comunicare, se non comprendere, il piano divino. L’uomo, nella sua libertà e dignità, unifica in sé spirito e materia e in ciò consiste la sua grandezza, superiore a quella di tutti gli esseri intermedi con l’Essere Supremo, che possiamo indifferentemente chiamare angeli o demoni. La materia dell’uomo, che è la sua estasi e la sua miseria, il suo effimero piacere e il suo eterno dolore, è il Mysterium Magnum di Boehme. Come si può conciliare il male di ogni giorno, che conosciamo senza necessità di fede, con la suprema bontà che presumiamo in Dio? L’Ungrund boehmiamo, che è l’inconscio individuale e collettivo, produce Brama, che è passione spasmodica della materia, ma ha la stessa natura del Desiderio, tanto che spesso le loro polarizzazioni si alternano e la Brama diviene Desiderio e viceversa.

La spinta verso la vita, verso l’esaltazione dei sensi, verso l’ebbrezza dionisiaca, bacchica e iacchica è la maschera materica della sobria e spirituale solarità di Apollo. La filosofia dell’Uno e del Tutto non può spingere verso la mortificazione, l’annullamento, il senso di colpa e la relativa autopunizione. Se il crimine attribuito ad Adamo-Eva è la ricerca della coscienza di sé, della conoscenza, dell’eternità di un pensiero che si accresce nello scorrere delle generazioni, dell’orgoglio di essere creatura di un Creatore, questo preteso crimine è in realtà ciò che da, finalmente, un senso all’emanazione della nostra anima e della nostra vita. Non è forse lo stesso Vasaio dell’umana argilla, come afferma Omar Kajiam (14), ad averci formato di questa creta? L’umanità deve solo imitare Dio, che ha limitato la sua stessa libertà con la sua stessa legge, perché lo spirito soffia dove vuole, ma solo nella corrente del bene. Nemo noli nocere è regola di assoluta libertà e dignità. Se gli dei ci concedono qualche istante di felicità, ce la fanno pagare con secoli di dolore. Ben cara paghi, Uomo di Desiderio, la gioia del riso e della danza, l’effemericità splendente e meravigliosa dell’amore, la lieve ebbrezza del vino, tutto ciò che nella vita è ti è giustamente caro. Tuttavia, niente vale l’esaltazione di un istante di illuminazione e di unificazione con il divino, stati reali in cui l’essere vive e coincide con l’Essere. Il soffio tenebroso dell’Ungrund non produce così solo Brama materica, di solipsistica separazione da sé, dagli altri e dall’Uno, ma, nel contempo, retto Desiderio di vita spirituale e materiale assieme, di amore ardente e dissetato di se e degli altri, di nostalgia bruciante per un inconoscibile sacro.

Note:
1- Michel Leiris, sociologo, surrealista. La citazione è tratta da una sua conferenza al Collège de Sociologie di Parigi;
2- Cfr. Girard René La violenza e il sacro;
3- D’Alonzo Antonio, Genealogia dell’immaginazione;
4- Boyer Remy, Briciole di assurdità sacra, Nona proposizione;
5- Bataille George Oeuvres completes, Gallimard, Paris, 1988.
6- Evola Julius, Cavalcare la tigre, Vanni Scheiwiller, Milano, 1973.
7- Platone, La Repubblica;
8- Schoun Frithjof Dell’unità trascendente delle religioni, Edizioni Mediterranee, Roma, 1997;
9- Eliade Mircea Trattato di storia delle religioni, Boringhieri, Torino, 1976;
10- Op.cit;
11- Mysterium Magnum, 15-16;
12- op.cit 6,19;
13- De electioni gratia, 9, 16;
14- Robajat

 

Vittorio Vanni

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