12 Maggio 2024
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OLTRE IL CAPITALISMO: verso l’alternativa della green economy – Alessandra Iacono

« In un mondo dominato dal mercato capitalistico
e dal suo credo utilitaristico,
che pone alla radice del comportamento umano
lo spirito di competizione e l’interesse personale,
la sola idea che gli esseri umani possano essere attratti
da un modello d’impresa cooperativo
basato sulla collaborazione,
l’equità e la sostenibilità
appare fatalmente irrealistica »

Terzo ed ultimo capitolo della trilogia firmata da Riccardo Tennenini ed edita da Ritter, Oltre il capitalismo conclude – momentaneamente – il percorso del giovane autore, appassionato di filosofia e grande osservatore – piuttosto critico – del mondo moderno. Questo lavoro segue, logicamente oltre che cronologicamente, il solco “tradizionale” tracciato dai precedenti episodi, Pan è morto e Europa Nostra. Non fatevi ingannare dal titolo: non oltre ma contro il capitalismo si esprime Tennenini. Una critica radicale, a tratti un’invettiva, sì, ma non fine a se stessa: la ricerca si conclude non in aporia ma con un (potenziale) lieto fine. Dunque il nostro si evolve sul piano formale, nella propria indagine filosofico-politica e nell’elaborazione scritta, ma mantiene intatta o quasi la sua caratteristica più profonda, la sua essenza: l’ottimismo, la speranza di una società migliore, probabilmente dettata dalla comprensione della necessità di un’inversione di rotta, altrimenti… kaputt.

Degna di nota la prefazione della dottoressa Cristina Coccia – biologa e nutrizionista, prestata anche alla scrittura, in quanto autrice di due saggi, Ortogenetica e Un futuro senza avvenire?, entrambi pubblicati da Edizioni di Ar – che introduce alcuni dei punti salienti sviluppati poi dall’autore nel corso dell’opera: «la nostra deve essere la generazione della forza e della decisione, l’intera nazione va rifondata sui principî di sangue e suolo». Difesa dei confini, salvaguardia del territorio, sostenibilità, corretta alimentazione, esaltazione delle differenze, sia in senso naturale (ed individuale) che sociale (e dell’intera comunità), e sopra tutto educazione delle nuove generazioni, la quale «deve essere affrontata – necessariamente al di fuori del sistema scolastico pubblico – da maestri in grado di fissare in maniera inequivocabile le leggi della selezione naturale e dell’ortogenetica – al fine di preservare lo stato di salute del nostro popolo – e del rispetto della comunità e dell’ambiente al quale i nostri gruppi umani appartengono; educatori rispettosi delle doti innate e delle predisposizioni di ogni bambino. Ognuno avrà il posto e la funzione che il destino gli ha assegnato al momento della nascita. Solo in questo modo sarà possibile ricostituire, con individui sani e forti, un popolo che abbia ancora un destino di prosperità, che possa decidere il proprio avvenire sottraendosi alle imposizioni esterne e conservando inalterati, per le future generazioni, i principî sui quali si fonda la continuità etnica dei popoli europei».

Sembra prenderla alla larga Tennenini, affidando al mito di Sisifo – perennemente impegnato a spingere un masso dalla base alla cima di un monte e costretto a ricominciare ogni volta che il masso gli rotola nuovamente giù – la rappresentazione della modernità nel senso più deteriore possibile, indicato dall’autore ora con l’espressione società liquida (Bauman), ora con società-specchio, ora con società dello spettacolo (Debord), tutte sfumature di una società corrotta, basata sull’immagine; e ad un altro mito greco, quello di Narciso, viene affidata la spiegazione dei suoi effetti nefasti. L’immagine, dunque, alla base di una infausta catena di (s)montaggio (dell’individuo): pubblicità, mass media, social network, consumismo sfrenato. “Produci, consuma, crepa!” cantava Ferretti.  Per battezzare il prodotto umano tipico di questa società, l’autore sceglie l’azzeccata definizione coniata da Ortega y Gasset: uomo-massa. Caricatura dell’Uomo (inteso nel suo miglior sé), egli (esso?) è vittima e insieme artefice del proprio conformismo. Individualista, egoista, edonista, narcisista, materialista. All’alienazione da lavoro aggiunge quella da eccesso di tecnologia: il mondo virtuale si sovrappone a quello reale, e si confonde con esso, persino le attività più fisiche, più sanguigne, come lo sport e il sesso, smettono di essere delle vere attività e si convertono prima immagini, in spettacolo, poi in “app” (applicazioni per dispositivi elettronici).

La sapienza greca, con Socrate ed Epicuro, ci aiuta a individuare il nocciolo della questione: l’uomo-massa non è cattivo, è solo ignorante. Ignora cosa sia la felicità (“eudaimonia”), la perde di vista, la confonde con altre cose: «Dunque in queste pagine proveremo a delineare un modello di vita che faccia dell’eudaimonia il suo unico scopo, eudaimonia quale virtù che disprezza la comodità superflua e ogni agio materiale effimero, tale da contrastare le sue illusioni, con la sua edonistica ricerca della ricchezza economica, del potere politico, della fama sociale, del piacere sessuale. Persegue l’eudaimonia solo chi conduce un’esistenza in accordo con la natura, selvaggia e tribale, superando le convenzioni sociali e progressiste, alla ricerca di se stessi, celebrando l’istinto e quella volontà di potenza che appartiene solo a pochi, i quali sono in grado di imporsi, in maniera naturale, come guida e protezione sui più deboli».

Non ci distraggano citazioni e rimandi ai pesi massimi del pensiero occidentale – onnipresenti Platone e Jünger, il nemico è riconoscibile e riconosciuto: il capitalismo sarebbe, heideggerianamente, Verfallen, una “deiezione”; ovvero «il vettore fondamentale della modernità occidentale dettato dall’oblio dell’essere […] Per capitalismo si intenda non solo il sistema politico-filosofico smithiano, ma più ampiamente, un sistema che crea enormi disuguaglianze economiche, una (cattiva) distribuzione della ricchezza mondiale tale che la vede concentrata quasi interamente nelle mani di una piccola percentuale di popolazione globale […] All’uomo comune resta un modello di vita meccanicistico, come quello di Sisifo, spogliato di qualunque valore, con l’unico rilievo di ciò che produce e consuma: un’umanità sterile e alienata, i cui membri sono (s)componibili e intercambiabili come i pezzi di una macchina. Il capitalismo si appropria della nostra libertà rivendendocela sotto forma di merce».

Ma il mostro non è sbucato fuori dal nulla, come un moderno Minotauro è concepimento di un connubio contro natura, tra borghesia, rivoluzione industriale e urbanizzazione: «Nell’ambiente urbano vengono stravolte le caratteristiche fondamentali di una vita sana, a contatto con la natura, dunque esso è il suo esatto contrario: artificiale, industriale e urbano. Tra le anomalie presenti nella società liquida possiamo annoverare la sovrappopolazione del pianeta, l’isolamento dell’uomo dalla natura, la globalizzazione e il crollo delle comunità locali naturali di piccole dimensioni». Il corrispettivo antropologico di questo scenario stravolto, che non conserva più niente di naturale, non può che essere un’umanità anch’essa stravolta, caratterizzata dalla totale assenza di spiritualità – in occidente sopravvivono sulla carta le religioni abramitiche, ma in una forma blanda, svuotata di ogni sacralità; dalla confusione dei ruoli naturali e sociali: «donne anoressiche o bulimiche con tratti mascolini, uomini effeminati, anziane che si atteggiano ad adolescenti e bambine che si comportano da adulte»; dalla conseguente esasperazione del politicamente corretto a tutti i costi: «l’industria della moda necessita di nuovi modelli che abbiano “difetti”, come persone con handicap, in sovrappeso, anoressiche, asessuati, senza età […] l’individuo libertino […] vuole andare oltre, apponendosi una seconda maschera con la chirurgia estetica, spingendosi fino a decidere il sesso o la specie a cui appartenere […] La moda tende a rendere simile l’aspetto di chi sta in basso e di chi sta in alto. È chiaro quindi perché in Europa l’affermazione della moda sia connessa con l’ascesa della borghesia». Sotto l’egida di una tipologia politica aberrante e sacrilega, una democrazia fortemente livellante, che propugna l’uguaglianza nella forma, oltre che nella sostanza.

Con l’esortazione al rifiuto di questo modello, malato, l’autore inizia a delineare una possibile terapia: «Con impudenza e fierezza occorre denigrare e disprezzare la società liquida, le sue regole, i suoi costumi, assunti come “normali” dai più, per liberarci finalmente da una volontaria e logorante schiavitù, dall’ingrato servizio dei potenti […] immaginiamo una comunità composta solo dai migliori europei, intelligenti, forti e sani; uomini e donne nobili, che vivano e lavorino insieme in armonia e unità. Questo è il futuro che vedo». Eccoli i punti chiave: l’ecologismo e il ritorno piccoli agglomerati umani. Occorre quindi innanzi tutto dotare queste comunità di un nuovo habitat, rurale, basato sulla green economy; di un sistema politico-organizzativo arcaico, tripartito in capo, membri e associati; di una sua costituzione, ancora piuttosto rudimentale, ma con buone potenzialità da sviluppare: «L’eco-clan ha regole precise, ogni abitante deve condividerne i principi ispiratori: agricoltura organica, ruralismo, ecologismo, uso di energie rinnovabili, autarchia alimentare basata sul vegetarianesimo, rimedi olistici, educazione pedagogica, selettività e religiosità naturale»; di una valuta alternativa e istituti di credito no profit: «Il risultato è che al valore di scambio nel mercato si sta gradualmente sostituendo il valore di condivisione […] Questo tipo di economia reale, dove avviene un crowdfounding del capitale, la socializzazione della moneta e l’espansione dell’imprenditoria locale in opposizione a quella finanziaria alle affollatissime metropoli e alla caotiche aree suburbane l’europeo può costruirsi un nuovo futuro negli eco-clan di dimensioni più ristrette, piccoli comuni con pochi abitanti immersi nel verde della natura».

Nella declinazione delle varie “proposte” per la fondazione dell’eco-clan, svolge un ruolo fondamentale l’elemento antropico e antropologico: «i membri scelti per iniziare a popolare la nostra comunità devono essere in età fertile, perfettamente sani sotto ogni punto di vista e con l’intenzione precisa di generare, di modo che di anno in anno il numero degli abitanti sia sempre maggiore […] clan, letteralmente ‘discendenza’ o ‘famiglia’, nelle scienze etnoantropologiche identifica specificamente una comunità rurale di famiglie imparentate tra loro, dunque omogenee per ghénos ed ètnos, che si stanziano in un determinato territorio, scegliendo di vivere in un ambiente naturale alternativo all’umanità cittadina». Il principio ispiratore – ben espresso nella proposta VII – è dunque che gli uomini debbano adattarsi all’ambiente – non viceversa – «sino ad una situazione di equilibrio panteistico tra ambiente e popolazione che abita all’interno dell’eco-clan», cioè l’opposto di ciò che accade nella società-specchio: «Questo tipo umano, potremmo dire “cresciuto in cattività” nella società specchio, una volta lasciato libero di conoscere se stesso ed esprimere al massimo le sue facoltà, mostrerà una “volontà di potenza” e un impulso vitalistico caratterizzato da misura, ordine ed equilibrio. Egli sarà l’unico capace di andare oltre il capitalismo, rimanendo fedele alla natura, fonte dei suoi valori, riuscendo a operare una transvalutazione di quei valori capitalistici che fanno riferimento unicamente ad un mondo fittizio».

In altre parole, l’eco-clan immaginato da Tennenini è una piccola comunità autosufficiente e autarchica, posta ai margini se non proprio al di fuori dell’economia globale capitalista, costituita da un’aristocrazia terriera rurale, che nel perseguimento di uno scopo comune si avvale di socialismo contadino e agricoltura organica; l’ereditarietà costituisce l’anima di questo clan, conferendo (o diremmo meglio “restituendo”) ai suoi membri caratteristiche innate, “archetipiche”: «La comunità funzionerà anche da corporazione alimentare, regolamentando i prezzi, avrà una propria microeconomia, grazie alla quale organizzerà, organicamente e indipendentemente, secondo criteri corporativi, l’intera produzione agricola, l’allevamento, la selvicoltura e il riciclo dei rifiuti e avrà come primo scopo soddisfare i primari bisogni di sopravvivenza degli abitanti. Con la socializzazione della produzione, alla fine chiunque nell’eco-clan potrà accedere ai mezzi di produzione […] Agendo come comunità senza scopo di lucro […] e dunque estraneo alle logiche di mercato, l’ eco-clan potrà offrire ai propri membri prodotti e servizi a costi marginali».

L’autore non sembra immaginare una comunità primitiva, bacchettona e cieca nel rifiuto assoluto di qualunque prodotto della tecnica; semplicemente essa accoglie un tipo di techne non esasperato, utile sì, ma non dannoso. La proposta IV della trattazione è dedicata appunto alle energie rinnovabili (solare, eolica, idroelettrica) e al riutilizzo e riciclo dei rifiuti, inoltre «la costruzione delle strutture fisiche dell’eco-clan avviene secondo la bio-architettura, che si ispira alla sostenibilità ambientale». La parola d’ordine è quindi “sostenibilità”, e ad essa viene dedicata la proposta II, in cui viene raccomandata la pratica dell’ortoterapia e del giardinaggio per tutti i membri, fin da bambini, oltre che per gli ovvi benefici psicofisici ad essa associati, come preludio all’impiego prediletto dagli adulti nell’eco-clan, ovvero quello nel settore primario, su cui si basa l’economia del clan, un’agricoltura tipo biologico, altrimenti detta agricoltura organica, ecologica, tradizionale, in opposizione a quella moderna.

Prevedibilmente, nell’eco-clan viene adottato un regime alimentare vegetariano, a cui l’autore dedica la proposta III; anche qui, il discrimine è tra tipo “rurale” e “urbano”: escluse a priori le tendenze alimentari borghesi, progressiste e modaiole, si opta per un vegetarianesimo “tradizionale”, dettato in primis da motivi di natura filosofico-spirituale, essendo l’autore molto vicino alla sensibilità spirituale antica, che contempla tra le altre cose la trasmigrazione delle anime, come insegnano Pitagora e le Upanisad; le motivazioni della scelta sono anche di tipo eco-ambientale, economico e sanitario. E per quanto attiene alla salute e al benessere, non può che avere un ruolo preminente la scienza olistica, che contempla la medicina tradizionale indiana, l’ayurveda (propostaVI), con la sua forte componente preventiva e fitoterapica, completa di tecniche di meditazione e rilassamento (ad esempio lo yoga), pensata per tutti i membri della comunità e adatta anche ad esigenze particolari, come la cura della gestazione.

L’educazione dei giovani – oltre che direzionata verso l’agricoltura, come abbiamo visto – sarà improntata allo studio della filosofia (proposta V), con particolare attenzione al pensiero greco classico – Platone su tutti – e alla tradizione vedica. La scelta non è casuale, in quanto la lettura e l’approfondimento dei testi indicati vuole svolgere una funzione purificatrice per le nuove generazioni. Gli studenti dell’eco clan, lungi dall’essere considerati operai specializzati in germe, e dunque oggetti passivi di un’istruzione solo utile e pratica, «arriveranno a concepire la conoscenza condivisa tra i propri simili, il cui scopo è la realizzazione interiore. Gli studenti dell’eco-clan studieranno tutti insieme in “giardini epicurei”, membri sodali della comunità dove il sapere è un patrimonio condiviso. Il filosofo sarà il loro maestro, organizzando la ricerca interiore e permettendo agli studenti di collaborare tra loro. L’obbiettivo sarà quello di stimolare le loro qualità genetiche ereditarie. Gli studenti dopo lo studio presteranno servizio alla comunità di cui fanno parte».

Come si evince in più punti fin dall’inizio, Tennenini tiene in forte considerazione la sfera sacra, senza la quale non può realizzarsi in maniera completa nessun eco-clan: «Del resto, l’insieme delle nostre otto proposte per l’eco-clan è frutto di una visione panteistica tanto della relazione uomo-vita quanto di quella uomo-universo, con l’intento di far scaturire un nuovo vitalismo, di offrire una proposta per affrontare gli attuali problemi globali» e ciò è apertamente dichiarato fin nell’ultima proposta, la VIII, sulla religiosità naturale, «un approccio alla spiritualità completamente diverso da quello monoteistico. La religiosità naturale abbraccia il bisogno umano della ricerca di se stessi, non di un Dio redentore […] L’uomo rurale, distaccato da questa artificiosa società, sviluppa invece una religiosità interiore, che proviene dal profondo della sua anima, non cerca a qualunque costo spiegazioni scientifiche per ogni evento che gli capita, né ha bisogno di antropomorfizzare la divinità a propria immagine e somiglianza, semplicemente crede in un principio metafisico presente in ogni cosa […] Il tempio di ciascuno è il proprio corpo, che per questo motivo va curato, il tempio non è qualcosa che deve edificare in giro per il mondo; non si ha bisogno di immagini o idoli, ogni anima è il soggetto della propria personale venerazione; la posizione della preghiera è in piedi con le braccia in alto, con fierezza, non piegati in modo servile e mortificante per una supposta condizione di peccatore». Dunque un approccio animista, panteista, con evidenti riferimenti ancora una volta alla religiosità gentile, alla concezione dell’anima secondo Platone e alle Upanisad (i testi sacri del”induismo).

Concludiamo con quella che potremmo considerare una dichiarazione d’intenti dell’autore, riassuntiva dell’intera opera e dei principi che la ispirano: «Questa visione panteistica nel complesso vuole essere una radicale critica al capitalismo; non pretendiamo di cambiare il mondo perché sarebbe utopico, ma si provi almeno a “depurare” le relazioni sociali da ogni forma di urbanizzazione dello spirito e a valorizzare piuttosto la libertà, la conoscenza e la vita».

Alessandra Iacono

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