14 Aprile 2024
Antropologia Origini Scienza

“Madre Africa” ?

Di Michele Ruzzai
Avevo concluso il precedente articolo sul “Paradiso Iperboreo” preannunciando alcune riflessioni attorno a quella che è oggi la teoria prevalente in merito alle origini di Homo Sapiens, ovvero la cosiddetta “Out of Africa” (nel prosieguo, per brevità “OOA”); una teoria, ovviamente opposta a quella “iperborea”, che ipotizza l’origine delle attuali razze umane a partire da uno, o anche più, flussi migratori, che comunque sarebbero tutti usciti dall’Africa in un periodo più o meno situabile tra 50.000 e 100.000 anni fa.

Dirò subito che la teoria OOA non mi sembra così “neutra” ed oggettiva come vorrebbe accreditarsi – la scienza, in fondo, non lo è mai – ma pare alimentata ad arte per suggerire implicitamente di “abbassare la guardia” davanti ad un fenomeno divenuto ormai endemico, quello dell’immigrazione massiccia, che secondo i sostenitori non rappresenterebbe altro che la naturale riproposizione di quanto già verificatosi decine di migliaia di anni fa; un evento antico del quale anche noi Europei saremmo in fondo i discendenti e la cui riacutizzazione odierna dovrebbe essere accettata serenamente, rifiutando come “antistoriche” tutte le più “irrazionali” resistenze davanti ad un afflusso che, guarda caso, in larga parte proviene proprio da quel continente.

Se ora iniziamo ad entrare nel merito della solidità argomentativa della OOA – mai comunque dimenticando come non vi sia nessuna Tradizione che individui nell’Africa la sede primordiale dell’Uomo – possiamo già sottolineare in partenza quanto sintetizzato da alcuni ricercatori meno conformisti, ovvero che, contrariamente a quanto viene “passato” dai mass-media, non esistono tuttora prove veramente decisive, di tipo genetico, fossile o archeologico, che attestino con assoluta certezza l’origine africana di Homo Sapiens, come più nello specifico avremo modo di vedere. Un altro utile spunto preliminare, può essere costituito dal semplice, ma stringente, interrogativo che è stato posto sulle ragioni che avrebbero spinto l’uomo ad abbandonare i favorevoli climi africani per dirigersi, ad esempio, verso la gelida Europa del tempo; un’area che, per dei gruppi ipoteticamente provenienti da sud, ben difficilmente sarebbe apparsa climaticamente appetibile prima dell’Interstadio temperato di Hengelo, il quale, posto tra 42.000 e 36.000 anni fa, è però meno antico dei primi reperti attestati nel nostro continente.
Il discorso quindi non torna, e già sotto questo aspetto appare poco convincente.

Come già accennavo in un precedente articolo (“Discontinuità nella nostra Preistoria”), la teoria OOA sostiene che il processo di “speciazione” che avrebbe portato alla nascita di Homo Sapiens – il cosiddetto “Uomo anatomicamente moderno” – sarebbe avvenuto totalmente in Africa, insistendo sulla ipotetica maggior antichità, rispetto agli altri continenti, dei ritrovamenti locali attribuibili ai Sapiens (Omo, Herto, Pinnacle Point, Border Cave, Klasies, Blombos). Una maggior antichità che, appunto, è però solo ipotetica, perché non mancano, e sono piuttosto “scomodi”, anche reperti extra africani con età paragonabile: già da tempo quelli di Skuhl e Qafzeh in Palestina (risalenti a circa 100.000 anni fa e che avevano lasciato perplessi gli archeologi proprio per la loro prossimità temporale ai reperti sudafricani e la stasi, che allora sembrava evidenziarsi, nella ulteriore colonizzazione del mondo), ma in seguito anche Jebel Faya in Arabia (circa 120.000 anni fa), Liujiang in Cina (fino a 139.000 anni fa), Kununurru in Australia (forse fino a 174.000 anni fa). Per non parlare del recente ritrovamento, potenzialmente molto destabilizzante, di Qesem in Palestina che, se confermato, potrebbe arrivare anche a 400.000 anni e “far saltare” definitivamente tutto il banco.

La difficoltà con le datazioni “alte” dei reperti extra africani è particolarmente palese per la versione della OOA che, in tempi recenti, è sembrata prevalere, ovvero quella che ha preferito abbassare il momento della migrazione dall’Africa, rispetto a quanto stimato in precedenza, entro i 50.000 anni fa (tra l’altro, denotando un sensibile e significativo avvicinamento alle datazioni centro euroasiatiche, prossime a 45.000 anni fa se non di più); una riduzione che, in effetti, è sembrata essere più coerente con la vistosa carenza di elementi archeologici sud e centro asiatici collocabil
i, a grandi linee, tra 50 ed 80.000 anni fa, nonché con la ridatazione dei reperti australiani di Lago Mungo (precedentemente valutati a 60.000 anni fa, ma che poi hanno subìto un sostanzioso abbassamento a 42.000 anni da oggi). E’ però evidente che, d’altro lato, tale riformulazione ha ottenuto il risultato di accorciare ulteriormente la coperta ed incrementare ancora di più le perplessità sulla spiegazione da dare alle datazioni extra africane più alte. Tra i continui tentativi, dietro ai quali non è nemmeno agevole riuscire a stare aggiornati, che i ricercatori hanno messo in campo per trovare una soddisfacente quadratura del cerchio, anche una recentissima ipotesi (
22 aprile 2014 – Sito Le Scienze) di una migrazione non più singola ma in “doppia fase”, situerebbe comunque l’ondata più antica, diretta soprattutto lungo la via costiera verso l’Asia meridionale e l’Australia, non prima di 100.000 anni fa (mentre la seconda sarebbe più recente e centro euroasiatica, entro i 50.000 anni da oggi), quindi di fatto mantenendo quasi del tutto irrisolto il disallineamento con le datazioni extra africane più antiche.

Secondo la teoria OOA i siti africani, la cui alta antichità come abbiamo visto non è così esclusiva, dovrebbero peraltro denotare anche un ininterrotto popolamento del continente nero, giustificandone così una incontestata funzione di “vagina gentium”; bisogna però dire che le evidenze demografiche più antiche non sembrano deporre in questa direzione. Infatti, a parte forse la sola zona orientale, è stato rilevato come circa 50.000 anni fa buona parte dell’Africa risultasse disabitata: più nello specifico, Klein ad esempio segnala come l’area maghrebina e settentrionale dai 40.000 ai 20.000 non fosse occupata, e così anche quella meridionale, forse da prima di 30-40.000 anni fa (ma un altro autore indica da ben 70.000 anni), sino alla fine della glaciazione, quindi a non meno di 15.000 anni da oggi. La stessa osservazione che nell’Africa sub-sahariana molte caratteristiche del comportamento umano moderno, come l’arte astratta, si ritroverebbero già 90.000 anni fa (ma, come già rilevavo nel precedente articolo “Discontinuità della nostra Preistoria”, questi reperti dovrebbero ricadere nel Manvantara precedente e quindi appartenere ad un’altra umanità) per scomparire circa 65.000 anni fa e riaffiorare solo 25.000 anni dopo, potrebbero andare nella stessa direzione di un antico popolamento africano scarso o saltuario, non molto compatibile con la centralità che la OOA dovrebbe implicare.

Come noto, la teoria OOA ha copiosamente utilizzato anche valutazioni di ordine genetico, soprattutto a seguito della ricerca di Alan Wilson dell’università di Berkeley sul DNA mitocondriale (cioè non il DNA del nucleo cellulare vero e proprio ma quello dei mitocondri, organelli ereditati solo per via femminile e presenti nel citoplasma con funzioni principalmente di produzione di energia); un lavoro che ha portato, più di vent’anni fa, alla costruzione del primo albero genealogico globale basato sulla distribuzione delle mutazioni intervenute in questo DNA tra varie popolazioni umane. Si è individuato in Africa un’unica capostipite femminile di tutte le linee riscontrate che ben presto è stata ribattezzata – anche con un certo effetto mediatico – “Eva mitocondriale”.

Ma, sulla base di ulteriori analisi di tipo statistico, secondo vari genetisti il lavoro di Wilson non sarebbe esente da critiche e la forma dell’albero mitocondriale avrebbe potuto essere piuttosto diversa, evidenziando anche una radice primaria collocata fuori dall’Africa. Ad esempio, Cavalli Sforza ha opportunamente rilevato come l’albero di Wilson sia stato scelto fra un’infinità di altri possibili, oltre ad essere costruito sulla base del “principio di parsimonia”: un postulato logico-statistico molto debole, che minimizza l’ipotesi delle mutazioni intervenute dall’inizio della storia evolutiva e individua preferenzialmente il percorso più semplice per la ricostruzione di una storia filogenetica. In pratica è l’applicazione del cosiddetto “Rasoio di Occam” principio metodologico che, in sintesi, suggerisce di percorrere, nel tentativo di spiegare un fenomeno in termini razionali, la via più semplice e soggetta al minor numero di fattori. E’ peraltro significativo il fatto che anche Renè Guenon vi accenni criticamente, notando come la formulazione del “Rasoio di Occam” appartenga al momento decadente della Scolastica e rappresenti un postulato del tutto gratuito, anche perchè spesso la natura non sembra seguire la via più semplice, ma ingegnarsi a moltiplicare gli eventi senza necessità alcuna…

Uno dei punti fondamentali collegati alla questione della “Eva africana” è oltretutto quello della corretta definizione della velocità del cosiddetto “orologio molecolare”, attraverso il quale tutta la serie di mutazioni rilevate possono in qualche modo essere accompagnate ad una datazione temporale dei vari eventi storici. E’ tuttavia molto importante tener presente che per “tarare” qu
esto orologio – in pratica per definire la velocità del suo “ticchettìo” – la genetica non dispone di mezzi autonomi: deve invece ricorrere a degli elementi esterni per fissare almeno alcuni punti di partenza ed effettuare successivamente delle estrapolazioni più o meno proporzionate alla sequenza delle mutazioni intervenute. Wilson, ad esempio, come punto di partenza ha utilizzato la presunta data di separazione tra scimpanzé e uomo, evento che già avevamo discusso nei suoi aspetti meno convincenti; l’operazione, peraltro, è stata poi sottoposta ad una “ritaratura” utilizzando un altro evento considerato di datazione sufficientemente sicura, ovvero il momento di separazione dei nativi americani dalle popolazioni siberiane. Ma tale snodo è stato collocato 12.000 anni fa e quindi, come abbiamo già visto, appare certamente sottostimato. Sono stati quindi espressi, da parte di Cavalli Sforza ed altri ricercatori, forti dubbi sulla aleatorietà di un affidabile ancoramento degli orologi biochimici agli eventi preistorici, tanto che potrebbero conseguirne distorsioni interpretative non da poco, situando ad esempio in contesti paleolitici eventi neolitici, o viceversa; una “elasticità” che infatti anche lo stesso Wilson di fatto confermò segnalando come, ripercorrendo a ritroso tutte le mutazioni della linea mitocondriale, probabilmente ci si spinge ancora più indietro dell’origine dell’uomo moderno, con Eva africana che poteva addirittura far parte di una popolazione più arcaica. Cann e Stoneking – entrambi allievi di Wilson – ammisero infatti la difficoltà di datare “Eva mitocondriale” più precisamente del lasso tra 50.000 e 500.000 anni da oggi (ma qualcuno arriva anche ad ipotizzare fino ad un milione di anni), giungendo quindi ad affermare di aver potenzialmente individuato, nelle mutazioni mitocondriali, non le tracce dei flussi Sapiens dall’Africa ma forse quelle di precedenti migrazioni di Homo Erectus. Successive analisi di Stonecking, volte a raffinare ulteriormente il tasso di mutazione del DNA che Wilson aveva desunto partendo dall’ipotetico punto di separazione tra scimpanzè e uomo, avrebbero più o meno confermato l’antichità di Eva africana a circa 200.000 anni fa; potrebbero però essere state anch’esse negativamente influenzate dall’errata datazione, presa questa volta a riferimento “esterno”, di 60.000 anni fa per la colonizzazione di Homo Sapiens in Nuova Guinea, dal momento che secondo Roger Lewin le prove archeologiche di una presenza in sito di uomini anatomicamente moderni prima di 45.000 sono scarsissime, quindi rendendo fortemente ipotetica anche questa ulteriore analisi.

Ma, oltre al problema della corretta determinazione della velocità di questo orologio molecolare, vi sono seri dubbi anche in merito all’omogeneitàdel tasso evolutivo per tutte le popolazioni mondiali, piuttosto che un’ipotesi alternativa di ritmi diversificati e di velocità di mutazione non uguali per tutti. Secondo l’albero basato sui dati mitocondriali, l’Africa si fa preferire come patria iniziale solo, appunto, scegliendo a priori un’ipotesi di costante tasso di mutazione per tutta l’umanità, ipotesi che però non è ancora confermata; al contrario, alcuni studi hanno evidenziato come, anche all’interno di una stessa specie, il tasso di mutazione sembri invece variare in funzione dei geni considerati. Se piuttosto si fosse preferito dare maggior rilievo ad un concetto diverso, ovvero quello dell’area dove si riscontra il materiale mitocondriale più vicino alla media di tutte le popolazioni mondiali, è emerso che invece sarebbe l’Asia ad apparire più indicata come iniziale patria umana; in tal caso, la notevole divergenza (numero di mutazioni) riscontrata in gruppi quali i khoisanidi sarebbe interpretabile come il risultato di una specifica accelerazione nella velocità evolutiva di quella popolazione.

In effetti, alcuni studiosi valutano come più probabile l’ipotesi di una velocità di mutazione non omogenea per tutte le popolazioni mondiali ed in tal caso potrebbe, a nostro avviso, essere anche maggiormente intuitivo il concetto che alcuni dei gruppi odierni siano il risultato di un allontanamento genetico più marcato rispetto al comune tronco ancestrale, magari favorito da una precoce separazione geografica. Già infatti ricordavamo la notizia (Le Scienze – giugno 2006) della scoperta di una generale velocità doppia di fissazione delle mutazioni genetiche alle latitudini tropicali rispetto a quelle medie; a mio avviso non è quindi insensato considerare, a fianco della parallela osservazione di una minore biodiversità nelle zone polari rispetto a quella delle latitudini più basse, la possibilità che popolazioni migrate in prossimità delle zone equatoriali possano dare oggi l’erronea impressione di essere più antiche (perché con un genoma maggiormente mutato e quindi apparentemente più antico) rispetto magari ad altre, invece effettivamente loro coeve ma… rimaste “in frigorifero” a latitudini più elevate.

Eppure il tema della velocità evolutiva non impatta solo sulla datazione, più o meno corretta, dei vari eventi preistorici, ma comporta anche delle ricadute sull’architettura generale dell’albero filogenetico che viene prodotto dall’elaborazione statistica, con particolare importanza per la definizione della radice di partenza di tutta la struttura che, ovviamente, costituisce l’informazione fondamentale sul punto di origine di tutta la popolazione mondiale. In pratica, sulla base dei soli dati genetici, gli alberi che riescono a strutturarsi definendo autonomamente una chiara radice di partenza devono però essere pre-impostati proprio con una, indimostrata, velocità evolutiva costante per tutte le popolazioni, cioè programmando fin dall’inizio i vari rami dell’albero ad avere tra loro la stessa lunghezza dal punto di origine alla linea odierna: quindi introducendo un elemento fondamentale per l’architettura finale della struttura. Altre tipologie di alberi filogenetici, costruiti con metodi statistici diversi, non presentano una radice iniziale in conseguenza del fatto che non vengono limitati da una precondizione di ipotetica velocità mutazionale omogenea per tutti, ma scontano però l’inconveniente che il loro significato sia evolutivamente meno sicuro, perché chiaramente privi di indicazioni riguardo all’origine di tutto il disegno. In definitiva, che siano di tipo “NJ” (“evoluzione minima”), “massima verosimiglianza”, o altro ancora, le strutture filogenetiche che si rivelano compatibili con i dati di partenza – e che appaiono anche piuttosto diverse a seconda del metodo utilizzato – risultano sempre essere in numero considerevole; devono quindi venire vagliate alla luce dei dati “esterni” per scegliere quello con la radice o la struttura generale che si reputa essere più “ragionevole”.

E’ quindi evidente che non rappresentano uno strumento né univoco né infallibile.

Tutto ciò senza considerare il fatto che comunque gli alberi filogenetici devono scontare un rilevante problema metodologico in quanto, raffigurando essenzialmente la storia delle fissioni umane, non riescono efficacemente a tener conto di eventi di segno opposto, ovvero le possibili mescolanze intervenute tra popolazioni diverse, che in pratica costituiscono delle interconnessioni ed interferenze reciproche tra i rami. In effetti, oltre agli alberi filogenetici, è stata elaborata anche un’altra modalità di rappresentazione grafica per illustrare quella che è la variabilità umana nonché la sua distribuzione territoriale, ovvero le cosiddette “Componenti Principali”, applicabili su diverse scale geografiche a seconda del livello di dettaglio delle informazioni genetiche raccolte. Cavalli Sforza segnala comunque come la “Prima Componente Principale” del mondo (ovvero quella che dovrebbe raffigurare sinteticamente, se non tutte, almeno le grandezze più evidenti nella distribuzione genetica a livello globale) non mostri così nettamente la presupposta separazione primaria tra popolazioni africane e non, tendendo piuttosto ad indicare, genericamente, un ipotetico spostamento di uomini anatomicamente moderni lungo l’asse occidente-oriente. Ma anche a voler mantenere valida una primaria separazione africani / resto del mondo, Cavalli Sforza ammette significativamente una possibile “bidirezionalità” interpretativa dei dati, che non dicono necessariamente se i primi uomini fossero africani e si diffusero verso l’Asia o viceversa (!!!); le mappe geo-genetiche in fondo descrivono una situazione statica ed al massimo evidenziano delle “parentele” più o meno strette tra gruppi diversi, ma non possono mai indicare dinamiche e movimenti migratori. E’ fondamentale ricordarsi che questi li aggiungiamo sempre noi, sulla base di altri elementi, esterni alla genetica e con il supporto di ulteriori teorie.

Se quindi pure ammettiamo, come dato generale, l’esistenza di due grandi blocchi genetici separati (appunto, uno africano e l’altro euro-asiatico), tale evidenza non risulta spiegabile solo attraverso l’ipotesi di un’età più elevata degli africani – e quindi di una loro “ancestralità” rispetto a tutti gli altri – ma anche con quella, del tutto plausibile per evidenti motivazioni geografiche, che vi possa essere stato un maggior interscambio genetico (mescolamento) tra europei ed asiatici; in questo caso l’Africa potrebbe senz’altro non essere la culla iniziale di tutta la popolazione planetaria. Come anche potrebbe non esserlo in ragione della maggiore eterogeneità genetica interna delle popolazioni africane, che, invece di indicare, anche qui, una maggiore antichità, potrebbe invece essere il risultato di una distorsione statistica indotta dal fatto che il continente nero è stato probabilmente più popolato di altri, almeno in tempi abbastanza recenti: vi si sarebbe accumulato un maggior numero di individui con le relative diversificazioni, che quindi avrebbero impiegato più tempo, rispetto ad altre parti del mondo, per scomparire senza lasciare tracce rilevabili. Se allora la probabile origine geografica di un certo carattere non va ricercata dove esso è più diffuso, bensì dove esso appare più eterogeneo, e questo criterio non vale solo per la genetica ma sembrerebbe anche per la glottologia storica, che dire allora delle oltre 150 famiglie linguistiche indigene in America, mentre il Vecchio Mondo ne conta solo 40? Chiaramente non è sostenibile un popolamento americano (comunque meno recente di quanto finora ritenuto) che sia tre/quattro volte più antico di quello del resto del mondo, ed in effetti è un’ipotesi che nessuno si sogna di affermare.

Pare quindi evidente che molti punti della teoria OOA, che ci viene presentata quasi come una certezza “oggettiva” ormai acquisita, risentano invece moltissimo di elementi pregiudiziali del mondo scientifico-accademico-divulgativo: se ad esempio, come è stato effettivamente scritto (Sykes – Le sette figlie di Eva, riferendosi ipoteticamente alla Scozia), venissero attestate delle evidenze genetiche particolarmente significative in aree considerate però “non coerenti”, perché ad esempio ritenute a suo tempo glacializzate, è chiaro che tali dati non potrebbero essere letti come la dimostrazione di una possibile “patria di origine” di quella zona, e quindi andrebbero tranquillamente interpretati in modo alternativo.

Un esempio che mi è sembrato particolarmente calzante per la prospettiva nella quale ci muoviamo…

D’altro canto, invece, sempre sulla base di interpretazioni di dati genetici, anche di recente sono state proposte (Sito Le Scienze – 24/02/2014) zone di origine umana localizzate in posizioni nettamente più occidentali dell’Africa e che mai erano state avanzate prima, evidenziando in questo caso anche un’incongruenza veramente stridente con i dati paleoantropologici, vista l’assenza totale di reperti umani di età compatibile in quella specifica area: un dato fortemente problematico che, peraltro, già da tempo era stato rilevato sempre da Bryan Sykes. Non è quindi un caso che la teoria OOA, pur oggi fortemente maggioritaria, venga comunque avversata ancora da diversi ricercatori poco inclini ad unirsi al coro dei figli di “Madre Africa”; si tratta ad esempio dei “multiregionalisti” (come Milford Wolpoff) o della gran parte degli antropologi cinesi, che respinge l’idea di una discendenza dei loro connazionali da fantomatici protoafricani e si trova anche in disaccordo con l’ipotesi di una derivazione dei primi asiatici orientali e sud-orientali da zone più meridionali, come l’Australia o la Nuova Guinea (un concetto spesso correlato alla OOA).

Ma, oltre a tutte queste considerazioni di carattere metod
ologico e generale, più in particolare va evidenziato che sono emersi anche dei dati specifici e molto significativi che smentiscono direttamente gli assunti della OOA: si tratta delle analisi sul reperto australiano del Lago Mungo che avrebbero evidenziato una sequenza mitocondriale più divergente di qualunque altra finora conosciuta, comprese quelle africane (quindi chiaramente incompatibile con una provenienza da lì) e l’individuazione di linee ritenute più antiche di un gene coinvolto nel metabolismo dello zucchero, riconducibili una ad un individuo africano e l’altra ad uno asiatico, mettendo anche in questo caso in “fuorigioco” la teoria afrocentrica. Inoltre, altri studi rivelerebbero che le popolazioni della Melanesia sarebbero tra le più differenziate del pianeta, presentano molte varianti genetiche altrove ignote e quindi, anche qui, molto poco congruenti con il quadro OOA.
Quadro nel quale – oltretutto – sempre più pare sfuggente e mal definito proprio il soggetto che invece dovrebbe essere centrale in tutta la teoria, ovvero quella popolazione “protoafricana” ancestrale che dovrebbe aver migrato ovunque sul pianeta ed aver dato origine a tutti noi.

Infatti, se escludiamo i caucasoidi nordafricani ed andiamo ad analizzare l’Africa subsahariana, vedremo intanto che l’origine genetica delle popolazioni tipicamente negroidi e maggioritarie (quelle parlanti lingue niger-kordofaniane e nilo-sahariane) è praticamente sconosciuta. In termini tipologici, queste presentano una varietà interna estremamente elevata a causa dei moltissimi incroci avvenuti con popolazioni alloctone, in misura nettamente superiore a quella di altre razze; così tanto che oggi è difficile stabilire dove effettivamente si trovi il “Negro” puro. In rapporto a questo vero e proprio “magma” antropologico, i Khoisan (Boscimani ed Ottentotti), che secondo alcuni genetisti rappresenterebbero gli eredi più diretti dei “protoafricani” autoctoni ed ancestrali, per Cavalli Sforza invece evidenziano un patrimonio genetico misto e piuttosto deviante rispetto al tipo africano principale; ciò non disgiunto dalle stesse caratteristiche fenotipiche, tanto che l’antropologo Carleton Coon non li considerò neppure appartenenti al gruppo negroide classico (da lui chiamato “Congoide”) ma una razza a parte, quella “Capoide”. Sempre secondo Cavalli Sforza, i Khoisan potrebbero piuttosto essere il risultato di un antico meticciamento, forse avvenuto in zona mediorientale prima ancora di entrare in Africa (qualcuno ha addirittura rilevato un’antichissima impronta “semitica” nel sangue degli Ottentotti e dei Boscimani) tra popolazioni non ancora specializzatesi in direzione chiaramente negroide ed altre (secondo Vallois) di tipo asiatico e che forse iniziavano allora a dirigersi verso la forma dell’attuale razza gialla. Anche per quanto riguarda le popolazioni etiopiche è stata da più parti sottolineata una netta divergenza rispetto al tipo negroide ed una marcata prossimità a quello caucasoide (aspetto sul quale torneremo) e quindi anche per esse appare problematico considerarle dirette discendenti degli ipotetici protoafricani iniziali; come per i Khoisanidi, sembrerebbe più corretto inquadrarle come un gruppo fondamentalmente allogeno e non autoctono. D’altronde Cavalli Sforza rileva come la “Seconda Componente Principale“ africana evidenzi un valore estremo presente sia in Etiopia che nell’Africa meridionale e relazionato ai Khoisan, quindi accomunando i due gruppi che geneticamente appaiono intermedi tra asiatici ed africani subsahariani, forse addirittura più vicini agli asiatici occidentali che a questi ultimi; una parentela peraltro già a suo tempo ipotizzata anche dal glottologo Alfredo Trombetti che avvicinò il cuscitico, parlato da popolazioni etiopiche, alle lingue boscimano-ottentotte.

Ancor di più, fuori dall’Africa, è stato notato (Klein) come in genere i più antichi europei ed australiani conosciuti tendano ad evidenziare delle somiglianze fisiche molto più pronunciate con i loro discendenti di età storica piuttosto che nei confronti di questi presunti antenati africani; ad esempio, nei primi ritrovamenti ossei del nostro continente – Combe-Capelle e Cro-Magnon – sono riscontrabili non poche caratteristiche ancora oggi presenti negli attuali europei, o almeno in buona parte di essi (più avanti torneremo sul significato di tali reperti); di questi ipotetici antenati africani, ad un esame attento, non sembrano cioè sussistere reperti di antichità compatibile con la teoria OOA e chiaramente riconoscibili come tipo fisico africano, arcaico o avvicinabile ad una qualche popolazione attuale. Ad esempio i famosi ritrovamenti liguri di Grimaldi, o dei Balzi Rossi, hanno da un po’ di tempo viste completamente ridimensionate le caratteristiche “negroidi” inizialmente attribuite loro (probabilmente anche in malafede, proprio per meglio inquadrarli in una presupposta visuale evolutivo-progressiva-afrocentrica). Ed, a fianco delle “non evidenze” antropologiche, il discorso appare analogo anche a livello archeologico, nel senso che non si riscontra negli altri continenti alcuna comparsa di tecnologie litiche tipicamente africane portate dagli ipotetici discendenti della “Eva mitocondriale”.

Davanti ad un simile quadro, e tenendo presente la summenzionata ammissione di Cavalli Sforza sulla “bidirezionalità” delle possibili interpretazioni dei dati genetici, a mio avviso si potrebbe completamente capovolgere l’assunto iniziale: l’Africa, cioè, non sarebbe stata la “culla” dalla quale partirono le migrazioni più antiche ma, all’opposto, un’area di forte immigrazione, dove nel corso del tempo avrebbero confluito le più disparate varietà umane. Soprattutto fattori climatici (ricordiamo che, ad esempio, il Sahara era una terra rigogliosa fino a non molti millenni fa) ne avrebbero favorito il ruolo di refugium, mentre vaste zone del pianeta venivano aggredite dalla glaciazione wurmiana; tutto ciò probabilmente in tempi diversi ma soprattutto, ed in termini demograficamente più rilevanti, in un momento più recente, ad esempio in occasione del secondo pleniglaciale o più tardi ancora, alla fine del Pleistocene, che infatti per Kozlowski avrebbe denotato una migrazione più massiccia in particolare verso le zone costiere e subequatoriali.

Un’Africa, quindi, che potrebbe essere stata una specie di “melting pot” ante litteram.

In effetti, pur rimanendo nell’ambito della teoria OOA, vari studiosi ipotizzano essersi verificato un “riflusso” (che per noi invece è un vero e proprio primo ingresso) di popolazioni dall’Asia occidentale verso l’Africa; un’idea che aveva già trovato un certo spazio nell’antropologia classica e sembrava anche concordare con gli accenni, presenti nel folklore di varie popolazioni subsahariane, ad antichi antenati giunti dalla direzione di nord-est. Diversi antropologi ipotizzarono infatti che il ceppo originario delle popolazioni nere dovette essersi formato primariamente in aree iranico-indiane, migrando poi sia verso ovest, in Africa, sia verso est, in Insulindia ed Oceania; una linea simile a quella postulata dal glottologo Alfredo Trombetti, sulla base di alcune influenze linguistiche che ritenne di aver individuato, per il quale i progenitori dei negroidi africani (sopratutto i Bantu, ma non solo) sarebbero anticamente giunti dalle regioni dell’India orientale abitate sia dai Munda, oggi ancora ivi presenti, che da alcune popolazioni australoidi poi migrate in direzione sud-est. Oswald Spengler suggerì addirittura l’idea, più estrema ancora, di un’origine iniziale dei neri africani direttamente in area australiana, e di una loro successiva modificazione tipologica una volta giunti nella sede più occidentale. Più recentemente, Olson segnala oltretutto l’innegabile persistenza di contatti tra Africa ed Asia meridionale, prendendo ad esempio tutte quelle popolazioni asiatiche (pigmei semang, andamanesi, indiani meridionali di pelle nera) che dall’aspetto appaiono chiaramente accomunati a quelle africane; d’altro canto lo stesso autore riferisce opportunamente un ulteriore dato molto significativo, ovvero che i geni dei “negridi classici” sembrerebbero essere più recenti di quelli pigmei (popolazione sulla quale sarà il caso, a tempo debito, di fare delle riflessioni specifiche).

E’, questo, un elemento che introduce un ultimo punto a mio parere fondamentale, ovvero quello dell’effettiva antichità delle popolazioni subsahariane e che, nell’ottica della teoria OOA, ritengo dovrebbe essere di primaria importanza; infatti, ammettendo tale ipotesi, sarebbe logico attendersi che il vasto insieme delle popolazioni centro-occidentali, quelle che forse più “tipicamente” rappresentano l’umanità africana rispetto ai gruppi più segnatamente allogeni – come abbiamo visto, i Khoisanidi meridionali, gli Etiopi orientali, i Caucasoidi settentrionali (p.es. i Berberi) – risultino della massima antichità, in quanto ultime e più dirette discendenti di quegli ipotetici ed antichissimi “protoafricani” che avrebbero generato loro e tutte le altre popolazioni mondiali.

Ebbene, anche qui, la teoria OOA non sembra suffragata da evidenze paleoantropologiche favorevoli.

Caratteristiche razzialmente ed inequivocabilmente “nere” in Africa si segnalano infatti molto tardi ed in modo anche piuttosto problematico: ad esempio, i ritrovamenti di Boskop sono relativamente recenti (circa 20.000 anni) e gli elementi negroidi ivi rilevati non trovano consenso unanime, dal momento che viene piuttosto ipotizzata una componente khoisanide, se non addirittura un’affinità che sembrerebbe ancora a più chiara con elementi caucasoidi del tipo Cro-Magnon. Un altro famoso reperto africano, l’Uomo di Asselar, presenta caratteristiche negroidi probabilmente più nette, ma anch’esso denota una certa affinità con i reperti Cro-Magnon e forse khoisanidi; in ogni caso, risale a tempi ancora meno antichi di Boskop, probabilmente al paleolitico recente se non addirittura al neolitico. Il reperto di Asselar è stato rinvenuto in corrispondenza del margine meridionale del Sahara che in quel periodo, ormai piuttosto vicino ai tempi storici, era abitato (come immaginavamo sopra) da popolazioni già ben diversificate, quali protoberberi mediterranei, etiopi di tipo orientale, boscimani, negrilli ascendenti degli attuali pigmei; è in effetti probabile che solo in questo momento si sia verificata la mutazione che ha prodotto l’attuale tipo negroide, il quale rappresenta la base razziale dei tre odierni raggruppamenti etnici Bantu, africani occidentali e Nilo-sahariani.

In definitiva, è generalmente riconosciuto (Kurten, Canella, Biasutti, Bertaux) che vi è una forte carenza di resti sufficientemente antichi riconducibili ad individui antropologicamente negroidi; ed anche se la cosa fosse spiegabile con una certa difficoltà di conservazione dei fossili nelle foreste pluviali dell’Africa centro-occidentale, vi sono in ogni caso molti antropologi che insistono nell’idea che la “Razza Nera” rappresenti una variante umana relativamente recente, forse anche meso-neolitica (Bernatzik, Biasutti, Brian, Coon; Canella segnala che per Weinert sarebbe più giovane delle popolazioni oceanico-melanesiane).

Infine va rimarcato che, oltre ad essere particolarmente recente, il ramo negroide non denoterebbe affatto caratteri di “primitività”, ovviamente non da intendersi nell’errato senso “evolutivo-progressivo” (cioè corrispondente più o meno al concetto di “animalità”) ma in quello di un tipo ancora relativamente indifferenziato, originario e – diciamo così – “standard”; al contrario, in rapporto alle caratteristiche antropometriche medie dell’ecumene umano, i negroidi presentano valori molto specializzati, estremi e differenziati (per Biasutti, analogamente a quanto, in direzione tipologica ovviamente diversa, sembra rilevarsi anche per biondi europei e mongolici).

Tutto ciò, a mio avviso, è piuttosto significativo in merito a quanto, invece, sarebbe lecito attendersi secondo la teoria OOA, e ci porta verso l’interrogativo di quali caratteristiche razziali possono aver avuto i primi Uomini che hanno p
opolato il pianeta; argomento che cercheremo di affrontare nel prossimo articolo.

Bibliografia consultata per il presente articolo:

·       Fabrizio Ardito / Daniela Minerva – La ricerca di Eva – Giunti – 1995
·       Oddone Assirelli – La dottrina monogenistica di Alfredo Trombetti – F.lli Lega – 1962
·       Veronique Barriel – L’origine genetica dell’uomo moderno – in: Le Scienze – Aprile 2000
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