11 Aprile 2024
Tradizione Romana

Le ragioni della inesistenza della persona giuridica in Diritto Romano – Giandomenico Casalino

Nota di Redazione:

E’ con piacere che offriamo ai nostri lettori un celebre saggio di Giandomenico Casalino, ampliato rispetto a precedenti edizioni e che in una sua pubblicazione presso la rivista “La Cittadella” ricevette, tramite una lettera inviata al Direttore, un alto elogio di Rutilio Sermonti, compianto combattente della II Guerra Mondiale, esempio e militante della Tradizione, di cui riportiamo alcuni passi:

Quel che particolarmente mi ha colpito è il meraviglioso saggio di Casalino: LE RAGIONI DELL’INESISTENZA DELLA PERSONA GIURIDICA IN DIRITTO ROMANO. Quel che scrive è, per me, carissimo amico di Auriti da vent’anni, pane quotidiano, ma dico meraviglioso per la chiarezza, vastità, profondità e completezza, superiore persino a quella dello stesso scomparso docente (per tacer della mia). Io conduco, su Rinascita, la rubrica “Tutto da rifare”, in cui tratto di ciò che dev’essere ripudiato e sostituito perché il cammino della civiltà tradizionale possa riprendere, dopo il precipitoso fallimento di quella nata dagli “immortali principi” (longevi loro, ma mortali per chi li adotta). Intendo dedicare all’argomento di Casalino uno dei miei saggi, o meglio due: il primo economico e il secondo dilatato all’intera Weltanschauung. Il primo s’intitolerà: S.P.A.: I FANTASMI BULIMICI. Ti prego, intanto, di esprimere all’autore tutto il mio plauso e sincera ammirazione, oltre alla mia certezza che, soprattutto se è ancora giovane, gli spetterà un ruolo rilevante tra i ricostruttori sulle macerie. Che esistano uomini con la sua chiarezza di idee, mi permette di affrontare con tutta serenità la morte, senza timore di disertare“.

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Rudolf von Jhering (1), attraverso una potente critica antimommseniana, alla fine del XIX secolo, ribadiva l’identità ontologica del “Populus Romanus”, intendendo con questo termine tutto il popolo, nella concretezza storica, ogni “civis” quale “pars patriae”, nonché tutti i “cives” come collettività, distinguendolo radicalmente dalla concezione dello “Stato moderno”. Egli pertanto intuiva lucidamente la relazione che vi è tra tale problematica e quella delle persone giuridiche e, in una pagina memorabile, affermava: “Se si paragona il quadro offerto dall’antica Roma (e di cui anche il nostro passato nazionale offre un significato parallelo nella storia delle città anseatiche) con la cupa concezione dello Stato prodotta dall’assolutismo moderno e dallo stato di polizia nei popoli dell’Europa moderna; se si pensa alla separazione totale, anzi alla contrapposizione, nel rapporto fra singolo e Stato, si stupisce per la quasi incredibile diversità di aspetto che ha potuto assumere il medesimo rapporto. Dovremo ancora soffrire a lungo delle conseguenze di ciò. Anche la teoria del diritto privato non le ha ancora superate e mi sembra che un resto di ciò si sia conservato fino ai giorni nostri nella teoria delle persone giuridiche. Il Romano sapeva che, come lo Stato non è altro che i suoi cittadini, anche la “gens”, il “municipium” e la “colonia” non erano altro che i “gentiles”, i “municipes” ed i “coloni”. La nostra scienza moderna, invece dei singoli membri (in funzione dei quali esiste la persona giuridica; cioè invece dei destinatari o dei soggetti dello scopo della persona giuridica, come li chiamo io), prende in considerazione la persona giuridica, come se questo ente soltanto pensato, che non può né godere, né sentire, avesse un’esistenza autonoma. Se è vero quello che ho detto poc’anzi (“Lo stato sono io”), posso ripeterlo anche per la persona giuridica” (2).

Tale pensiero, lo abbiamo posto a premessa del presente studio perché la lettura dello stesso non può non indurre quantomeno a riflettere sulla differenza, come alterità, tra il mondo del Diritto Romano e la filosofia giuridica moderna. Alterità oltremodo evidente proprio intorno alla problematica relativa alla inesistenza della persona giuridica in diritto romano; anzi, “rectius”, del concetto medesimo della stessa, risultando essere, quest’ultimo, parto cerebrale della sola modernità quindi ulteriore prova emergente della patologica predisposizione della stessa alla creazione fantastica di entità irreali. È noto, tanto in antropologia culturale quanto in sede di storia delle forme mentali, che il pensiero e la cultura medesima, intesi come aspetti di una generale visione del mondo, delle civiltà tradizionali o premoderne (3), sono caratterizzati da un forte legame relazionale con l’Essere inteso nella sua globalità come manifestazione visibile di enti, che possono essere tanto concreti quanto astratti ma, sempre, reali, nel senso di effettivamente esistenti a prescindere dal pensiero del soggetto umano che può anche non incontrarne l’evidenza nello stesso suo agire storico. Ciò vale ancor più per la “forma mentis” romana, come si può evincere principalmente proprio dalla medesima lingua latina la quale aborre l’astratto preferendo il concreto (4). È d’uopo precisare che, se “astratto” nella Metafisica classica non ha il significato moderno di frutto di una elaborazione mentale del soggetto ma di processo oggettivo di esemplificazione essenzializzante dello stesso ente reale, per concreto non si deve intendere la rozza materialità, “esistente” solo per i moderni in uno con le loro “fictiones mentis”, ma le reali forme dell’essere, cioè tutto l’esistente come complesso cosmico visibile e quindi conoscibile, proprio perché formale; secondo la retta gnoseologia classica platonica (5).

La concezione che ha il Romano della società politica, che è anche e soprattutto giuridico-religiosa, come in ogni vera Tradizione, è organico-personalistica, dove la stessa, che è più corretto definire Comunità, è l’insieme degli uomini vivi e concreti legati da un rapporto fondato su valori comuni, funzionale ed organico, cioè finalizzato alla realizzazione del destino della stessa; quindi è una visione finalisticamente etico-religiosa e moralmente determinata dal Fas dello Jus e dai “mores maiorum” (vedi G. Casalino, Il Sacro e il Diritto. Saggi sulla Tradizione giuridico-religiosa romana, Lecce 2000). È bene sgombrare, pertanto, il campo da tutte le astrazioni moderne e bandire la parola “Stato”, nel trattare tanto della cosiddetta “Costituzione” romana quanto, in genere, del suo Diritto Pubblico. È appena il caso di ricordare che il termine “stato” deriva dal latino “status” e che in quella lingua aveva ed ha il significato di “condizione, “qualità”, “situazione” (Ulpiano, Digesto I.I.I.2: “Publicum jus est quod ad statum rei Romanae spectat”), quindi è sempre seguita da un complemento di specificazione. Solo nel XV secolo si inizia a fare dello stesso termine un uso ipostatizzato, cioè astratto, specialmente in Machiavelli (6); (è sufficiente rammentare il famoso passo del “Principe”: “… tutti li Stati, tutti i domini che hanno havuto…”).

Ed è con la seconda o “tarda” scolastica ed il pensiero di Francisco Suarez (Disputationes metafisicae, 1597) che si giunge, alla noetizzazione dell’ente reale, cioè al passaggio dell’ente da realtà concreta a realtà di pensiero; nel senso che si comincia a teorizzare che l’essere esiste perché è pensato e non vi è più, come nel realismo filosofico classico, la priorità ontologica dell’ essere sul pensiero, ma bensì il contrario (7).
In altre parole, non esiste uno “Stato antico” ed uno “Stato moderno”, ma esiste soltanto la concezione moderna dello Stato, come ipostasi, astrazione, lontana, distante, opposta e, nel tempo, nemica del Popolo, cioè quell’insieme di uomini vivi di cui sopra dicevamo. Sarà infatti la rivoluzione borghese della fine del XVIII secolo, attraverso le sue carte costituzionali e la loro base filosofica (8) che arriverà a pensare allo Stato come ad una sorta di “entità astratta”, un super-soggetto, sovraordinato e distinto dai suoi componenti, avente vita e mezzi proprii, nonché diritto d’imperio su di un territorio. Attraverso la deviante interpretazione meccanicistico-moderna del pensiero arcaico-sapienziale di Hegel e la sua identificazione di oggetto e soggetto (popolo = Stato) che diviene un panlogismo astratto e monistico, si perviene, in seguito, alla concezione filosofico-giuridica dominante negli ultimi due secoli del millennio, cioè allo Stato-persona giuridica, allo Stato-Ente anzi persona giuridica prima ed originaria secondo la astratta e formalistica teoria kelseniana dello Stato di diritto. La mostruosità innaturale di tale ideologia, se si pone mente, consiste proprio nel personificare un “Golem” artificiale ed inesistente, attribuendo allo stesso qualità umane, e nel, al contempo, reificare, cosalizzare, rendere materia bruta il Popolo che è l’unico insieme di uomini veri ma che agli occhi del giurista moderno, quasi non esiste. Questa deriva era d’altronde inevitabile: la personificazione dello “strumento” e la riduzione a strumento della persona, è un percorso mentale obbligato per la modernità che ha il suo vizio di origine esattamente nello staccarsi cartesiano dal realismo platonico e nel pensare il mondo come “res extensa” cioè come materia separata dalla “res cogitans” che è la sola ragione cerebrale la quale, mentre crea entità astratte non esistenti nella realtà, non vede più quest’ultima e riconosce come vere solo quelle entità; obliando il mondo, anzi progettando, mediante l’ideologia politica, frutto del razionalismo del soggetto, l’imporsi nella società umana delle stesse sue astrazioni, a prescindere dalla natura del mondo medesimo e contro lo stesso, visto non più come Ordine cosmico eterno, ma come oggetto della tecnica umana (9).

Ciò premesso, vediamo come nella cultura romana, che è, come sempre abbiamo sostenuto, giuridico-religiosa, è definito e cosa si intende per Ordine politico. Diciamo subito che lo “Stato” Romano è il Popolo Romano, infatti “…più che colle astrazioni gli antichi operano con termini concreti, incarnazioni vive dei problemi e dei concetti giuridici: essi assurgono alla rappresentazione e personificazione dello Stato, o della repubblica, come ordinamento sovrano, attraverso il “Populus Romanus”, cioè lo stesso ordine dei cittadini, incarnato nella comunità organizzata; di qui il significato di “civitas”, ad indicare il complesso degli uomini liberi organizzati in vita collettiva, o la stessa organizzazione giuridica-politica che si dà tale qualifica, di qui il significato di “Populus”… e la definizione di “Res Pubblica” come “Res Populi”, e l’uso di Populus Romanus là dove noi tradurremmo come “Stato” (G. Grosso, Storia del Diritto Romano, Torino 1965, p. 232 ss.).
Ciò che è evidente nel corretto pensiero del Grosso è proprio l’assenza radicale della “personificazione dello Stato” nella mentalità romana, dal momento che il tutto si risolve in quei termini di concretezza in ordine all’insieme degli uomini che compongono il Popolo. Ecco che, alla luce di tutto ciò, appare chiara la celebre enunciazione di Cicerone: “…populus non omnis hominum coetus quomodo congregatus, sed coetus multitudinis; iuris consensu et utilitatis communione sociatus…” (De Re Publica 1.25) nonché l’equazione “Populus” = “universi cives” che è presente in Gai 1.3: “Populi appellatione universi cives significabantur”. Essere “civis” non significa, nella cultura romana, avere una qualifica che è distinta da un ordinamento separato e lontano dai suoi componenti, ma è semplicemente l’essere parte costitutiva di quel “corpus ex distantibus” che è il “Populus Romanus”. E qui entra in questione l’intera problematica della cosiddetta “rappresentanza” (10) e del rapporto intercorrente tra il Popolo Romano, ritualmente organizzato (rite et auspicato, afferma Cicerone) nei “Comitia”, il Senato e i Magistrati.

Il rapporto non è mai di “rappresentanza” per la ragione essenziale che tale concetto è assolutamente assente nel Diritto Pubblico Romano (da quello arcaico a quello giustinianeo…); il Popolo non è un ente, una realtà distinta dai suoi componenti e, pertanto, non è rappresentato da nessuno, poiché, sia nel suo complesso come “universi cives” che nelle sue singolarità, è titolare sempre della sovranità (“Majestas Populi Romani”) che non delega ad alcuno e della quale non può essere privato; non sussistendo infatti la “fictio” moderna del rappresentato (il Popolo) che perde la sua potestà d’imperio, nei fatti, a favore del rappresentante, del delegato, del deputato. La figura della rappresentanza politica sorge nel moderno diritto costituzionale inglese e solo il Rousseau l’aveva capito! Essendo poi, questo istituto, la laicizzazione del concetto medievale della Chiesa come “corpus misticum” la quale, nella dommatica giuridica canonica, “rappresenta” il Cristo e, secondo la definizione di Paolo, è nettamente distinta dai membri. Il Ruffin (11), infatti, riprendendo l’indagine del Gierke (12), ha dimostrato che l’idea di “persona ficta” o “rapraesentata” sorge con estrema chiarezza in Sinibaldo dei Fieschi, Papa Innocenzo IV: “…cum collegium causa universitatis fingatur una persona …” (Innocenzo IV, Super Decretalium, Venetiis, 1570, in e. 57 x 2,20). Il Magistrato romano è, pertanto, soltanto esecutore della volontà del Popolo Romano (e quindi anche del Senato); il Magistrato è dotato di “jus imperii” proprio perché deve eseguire il comando del popolo (jussus Populi), come il Principe, l’Imperatore, che è anch’esso esecutore della volontà del Popolo; stante il fatto che tanto il Magistrato quanto l’Imperatore sono tali per volontà sovrana ed originaria del Popolo (vedi la “lex de imperio” …e la ratifica, mediante l’”Auctoritas Patrum” del Senato, dell’acclamazione imperiale 13). Nella “Pax Deorum”, il Popolo nel e con il rito giuridico-religioso, crea (14) i Magistrati, esecutori del suo comando in quanto volontà formale che entra nella storia del mondo, ordinandolo in guisa magica, secondo lo “jus civile” che è lo “jus romanorum”.

È tanto originaria la maestà del Popolo Romano avente al di sopra solo quella di Jupiter Optimus Maximus che gli deriva dall’essere il Popolo che realizza l’Ordine di Jupiter, in pace con il mondo Divino, tanto fondante la sua sovranità, gerarchicamente superiore nel senso eziologico del termine, che il Console, davanti al Popolo Romano organizzato ritualmente nel comizio, avendo tratto gli auspici, fa abbassare ai portatori significativamente i Fasci, intendendo, con tale gesto, il fatto giuridico che la sua “majestas” è inferiore e subordinata a quella del “Populus”, essendo questa la fonte di quella, la sua causa nel senso di aitìa in quanto archè, cioè Principio primo. Tale indirizzo ermeneutico del Diritto Pubblico Romano nonché della concezione medesima della società romana, si è, con molta difficoltà, fatto strada nel corso del Novecento ad opera di insigni quanto solitari romanisti e costituzionalisti. È d’uopo citare qui gli studi di autentici Maestri quali: Riccardo Orestano, Pietro De Francisci, Pierangelo Catalano, Francesco De Martino, Rudolf Von Jhering, B. Eliachevitch (15) ed altri che, con un lavoro di vera e propria smitizzazione, hanno dovuto rivedere ed emendare l’enorme e peraltro grandioso edificio mommseniano, monumento alla concezione statalistica del Diritto Pubblico dei Romani e padre di tutta la letteratura giuspubblicistica e romanistica che ha dominato tra l’ottocento ed il novecento. Non si trattava, infatti, solo di reinterpretare le fonti alla luce del loro autentico significato, e ciò in termini di dottrina romanistica in senso stretto, ma, anche e soprattutto e con un ricaduta politica attuale, tagliare quel cordone ombelicale che tutta la cultura giuridica moderna, imperniata sulla teoria del soggetto di diritto (tanto in tema di persona giuridica privata quanto in tema di persona giuridica pubblica per eccellenza cioè lo Stato…) aveva fatto sviluppare con una interpretazione per l’appunto moderna, cioè deviata, del Diritto Romano.

Che andava ad isolare e separare quello pubblico nella persona dello Stato quale Ente astratto, erroneamente traducendo il termine “Res Publica” ed entificando il “Populus”, da quello privato che, effettivamente privato nel senso di depauperato da ogni riferimento a valori comunitari cioè etico-religiosi, come nella vera e storica istituzionalità romana, diveniva il diritto della borghesia razionalista ed industriale, limite e difesa dei suoi egoistici affari e del suo atomistico concetto di proprietà. Pertanto, ideologia contrattualistica dell’ordinamento giuridico ed individualismo, tanto statuale quanto privato, erano le potenze dottrinarie indiscusse che osavano pontificare “ex cathedra” in nome del cosiddetto Diritto Romano. Il discorso sin qui condotto sul tema dello “Stato” che è tale solo in termini moderni, sulla improprietà dell’uso di tale termine in riferimento alla realtà giuridico-religiosa romana, sulla radicale differenza semantica tra quello e la parola “Res Publica”, tra quello e la parola “Populus”, dove per i Romani “Res Publica” equivale a “Res Populi”, il tutto sempre ritornando alla realtà comunitaria ed organica del “Populus”, come insieme gerarchico di ordini e “majestates”, sempre non “quomodo congregatus, sed juris consensu…” per dirla con Cicerone, dove i concetti base sono la “moltitudine”, cioè gli uomini veri e concreti, ed il “jus”, cioè il complesso di formule e riti che il “mos majorum” detta e che la Comunità osserva nella “Pax Deorum”; orbene tutto questo discorso, dicevamo, può e deve essere ricondotto, perché così è storicamente accaduto, nella tematica della persona giuridica in senso stretto.

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La filosofia giuridica moderna, in un succedersi epocale di ideologie e prassi culturali (16), si è concretizzata in un fenomeno storico e politico unitario che è consistito, in buona sostanza, nel procedere sui due campi ormai separati: della sfera pubblica da un lato e di quella privata dall’altro. Tale processo, che è quello dell’astrazione, secondo la essenza razionalista della concezione moderna del mondo, è talmente evidente nel proliferare contemporaneo della cosiddetta persona giuridica che, assurgendo ad ente distinto e separato dagli uomini che la compongono, usurpa ai medesimi i loro diritti (tra cui quello di proprietà come nella società di capitali, dove infatti la proprietà come diritto patrimoniale di godimento diretto ed indiscusso del bene comune, non è più dei soci che sono gli uomini vivi e concreti, ma della società, vero fantasma giuridico dietro al quale, però, si nascondono uomini altrettanto vivi e concreti, solo…più “fortunati”!) diviene ed è riconosciuto soggetto di diritto, cioè ente “individualizzato” e “personalizzato”, definito “centro di imputazione astratta di rapporti giuridici” (sic!) lontano dai componenti la medesima società. Gli stessi soci sono così “governati”, non certo in virtù di principii di solidarietà, non certo in forza di una sovranità che pur in teoria dovrebbe essere in testa agli stessi, ma “jure imperii”, sono gestiti da una minoranza di uomini che godono indiscriminatamente del diritto di proprietà e di godimento dei beni sociali nonché di quello decisionale in ordine ai destini della stessa società, cioè di quella finzione giuridica, che è un vero e proprio velo dietro al quale essi stessi occultano. La questione, allora, è come abbiamo sostenuto, eminentemente culturale, provenendo, tale impostazione teoretica, dal quel monismo effettuale al mistificante criterio ermeneutico empirio-praticistico del pensiero hegeliano (17) il quale identifica soggetto ed oggetto, quindi, in termini giuridici, società e soci, postulando l’esistenza di una sola realtà, che è quella del pensiero, in senso astratto, e, pertanto, sviluppando le premesse logiche presenti già in Cartesio. Infatti, tale astrattismo razionalistico moderno (che è la laicizzazione dell’astrattismo fideistico cristiano, il quale “creava” l’ente “Dio” lontano e staccato dal mondo), dopo aver creato l’ente “società” staccato dai soci, attribuisce all’ente ciò di cui ha privato i soci medesimi poiché l’ente (di pensiero…) si identifica alla cosa stessa anzi ne è la sua sublimazione, la sua vera realtà filosofica, quale “idea” assoluta.

Ecco che qui riemerge la già cennata problematica della rappresentanza che abbiamo visto essere inesistente nella cultura giuspubblicistica romana, ma fondamentale in quella moderna, dove sia la persona giuridica privata, quanto lo Stato-Ente e quindi la persona giuridica per eccellenza, esercitano quei diritti (di proprietà, di imperio che possono e devono esercitare solo gli uomini) in rappresentanza del rappresentato cioè dell’uomo concreto (sia esso il socio o il cittadino); atteso il presupposto di quella logica filosofica secondo il quale le due realtà si identificano e quindi è come se quei diritti fossero esercitati dal rappresentato medesimo. Come non si può, ci si consenta il paragone, mangiare un piatto di minestra in “rappresentanza” di qualcuno, così non si può, nel senso che non è vero e quindi è falso, godere dei benefici del diritto di proprietà in rappresentanza del legittimo proprietario! La ideologia giuridico-filosofica che sta, infatti, alla base tanto della idea stessa della società dotata di persona giuridica e con fine di lucro, in termini privatistici, quanto dello Stato nel cosiddetto socialismo reale, in termini pubblicistici, è la medesima. È noto infatti che in quel tipo di regime, poiché lo Stato si identificava con i cittadini, godeva di tutti i diritti dei quali gli stessi cittadini erano stati dallo Stato espropriati; in pratica il diritto di proprietà di tutti i beni della Nazione era in testa ai componenti del Comitato Centrale del Partito nella stessa guisa in cui, sempre quel diritto di proprietà, è in testa al Consiglio di amministrazione della società di capitali occidentale. E ciò è comprensibilissimo, stante il fatto che tanto il liberalismo politico ed il liberismo economico, cioè l’ideologia capitalista, quanto il marxismo, provengono ambedue dalla filosofia del diritto e dello Stato di Davide Ricardo, Adamo Smith, Stuart Mill e Karl Marx, essendone l’una la faccia destra e l’altra quella sinistra. Individualismo e collettivismo sono, pertanto, due aspetti della stessa concezione razionalista e quindi materialistica della società. Si noti, infatti, che l’ideologia marxista usa, per indicare una moltitudine di uomini e donne la parola “massa”, che è solo un termine tecnico della cosiddetta scienza fisica moderna per significare la materia inorganica e, quindi, non vivente! Se quanto detto è vero, allora “l’eliminazione del concetto di persona giuridica non ha nessuna conseguenza dannosa per la nostra cultura giuridica, la storia del diritto romano insegna il contrario.
La posizione giuridica del cittadino romano non ha, né in età repubblicana né in quella imperiale, sofferto del fatto che la persona giuridica fosse e rimanesse sconosciuta al diritto” (U. Von Lubtow, Bemerkungen Zumproblem der juristischen person, in “L’Europa e il diritto romano. Studi in memoria di P. Koschaker”, II, Milano 1954, p. 510).

Ed attualmente giudici e giuristi hanno davanti sempre più spesso l’esigenza di evitare iniquità ed abusi, figli della netta separazione tra società (ente astratto) e membri della stessa, proprio come se la “personalità giuridica” fosse solo un paravento avente l’unico fine di occultare finalità ed interessi non solo contrari a quelli dei membri ma anche a quelli dell’ordinamento stesso (cfr. F. Galgano. Struttura logica e contenuto normativo del concetto di persona giuridica, in “Rivista di Diritto Civile”, 1965, I, pp. 553 ss. Per un’ampia prospettiva della intera problematica cfr. J. L. Correa de Oliveira, A dupla crise da persoa juridica, San Paolo del Brasile 1979). Questa è la ragione storica della contemporanea e contestuale crisi sia della persona giuridica privata quanto dello Stato, inteso come persona giuridica pubblica. Davanti al disfacimento di queste astrazioni, riemerge la possente concretezza della nozione di “Populus Romanus Quirites” e di “homines”, dove la tradizione romanistica non solo vale ancora ma è insegnamento per il futuro: “ubi societas ibi autem communio, nulla communio datur sine societate” e la società risulta formata da due elementi, che sono: la comunione di impresa e la responsabilità solidale!
Ci rendiamo conto che stiamo per entrare, “de jure condendo”, in tema di riforma della società di capitali, dove in tale sede la responsabilità solidale potrà essere diversamente regolata a seconda dei vari tipi di società (cfr. G. Auriti, Azione di rescissione per lesione nella liquidazione di quota sociale per recesso, in “Diritto Fallimentare”, 1952, II, 695; A. Scialoja., Corso di diritto della navigazione, Roma 1943, I, p. 319). Invero è tempo che si dica quanto è falso ciò che crede l’uomo della strada e cioè che il titolo azionario nella società di capitali sia una quota di capitale sociale! La personificazione dello strumento, cioè dell’ente-astratto, consente invece a tutta la dottrina giuscommercialistica prevalente di far passare come “normale” il fatto che al momento del conferimento del capitale la proprietà passi dal socio alla società, concepita, come abbiamo detto, in termini di fantasma giuridico che la legge (uniformata a quella cultura dominante) definisce “persona giuridica” e che è una realtà completamente diversa dai soci; è, infatti, una personificazione senza contenuto umano! Pertanto, in cambio del suo conferimento, il socio acquista un titolo di credito nei confronti di questo fantasma ed il fantasma diventa debitore del socio per il capitale che gli è stato conferito. E in ciò si realizza la stessa inversione diabolica del rapporto creditizio che è presente tra il cittadino e la banca (privata) di emissione della moneta, nel momento in cui si fa passare quest’ultima per titolo di credito a favore del cittadino; tale secolare truffaldino inganno a danno dei popoli, non fa che attuare quanto affermò Samuel Paterson, fondatore della Banca d’Inghilterra, prima Società per Azioni del mondo moderno (1693): “la Banca lucra tutto l’interesse dalla moneta che crea dal nulla!”.

E tanto è vero ciò che questa operazione è riportata al passivo del bilancio societario! Invece, tornando al principio romano dell’ “ubi societas ibi communio”, dov’è la società lì c’è la comproprietà, sarebbe sufficiente approvare una semplice norma la quale deve qualificare il titolo azionario come un titolo rappresentativo di una quota di proprietà dei capitali sociali! Solo in questi termini verrebbe impedito il perseguimento di quei fini occulti di dominazione e di arricchimento che consentono ai pochi gestori e proprietari della società di capitali di sfruttare le oscillazioni tra il valore cosiddetto nominale (che è poi quello reale) ed il valore cosiddetto reale (che è poi quello di borsa cioè convenzionale). Tutto ciò si verifica proprio perché si attribuisce, da parte della dottrina dominante, la proprietà alla persona giuridica, dato che la proprietà è godimento giuridicamente protetto dei beni (cfr. G. Auriti, La società di capitali come strumento di dominazione economica, orientamenti per una riforma della società anonima, con ampia e dettagliata bibliografia, in “Atti del Convegno del Centro Studi Politici e Costituzionali”, Rimini 1972). Sino a tutto il Medioevo si è sempre pensato che solo l’uomo può essere centro di imputazione di rapporti giuridici e se anche esistevano “universitates”, “collegia”, “municipia”, è sempre alla nozione concreta di “homines” che si faceva riferimento. L’indicazione di tale nozione principale nel titolo V (“De Statu hominum”) del libro I dei Digesta di Giustiniano lo conferma esplicitamente ed il pensiero che ne sta a fondamento è antichissimo e si trova addirittura nel formulario Pontificale della “indictio belli” (Livio 1, 32, 11 e 13). In tale fonte è chiarita, infatti, in relazione alla partecipazione degli “hostes” allo “jus fetiale”, la nozione di “Populus” che fa riferimento ad ogni singolo componente dei Quiriti come ad ogni singolo “hostis” della comunità nemica.

Lo “Jus Civile” romano è sempre fondato sulla realtà di “homo” la quale è adoperata nelle formule solenni per l’acquisto e la difesa dei diritti del Quirite (vedi Gaio 1, 119; 2, 24; 4, 16, a proposito di “mancipatio”, “in jure cessio”, “legis actio sacramenti”). Gli antichi giuristi romani con le nozioni di “homo” e di “persona”, si riferiscono sempre ad una realtà concreta: l’uomo; ed anche se si parla nei testi di “persona civitatis”, “persona coloniae”, l’uso traslato è sempre in relazione all’uomo persona fisica. Gli studi di un Maestro quale Riccardo Orestano (18) hanno peraltro inequivocabilmente dimostrato che è necessario giungere al XVI secolo per iniziare a trovare le prime astratte distinzioni tra “homo” e “persona” (Donellus (1517-1591): “servus homo est, non persona; homo naturae, persona juris civilis vocabulum” in “Commentarium juris civilis”, Napoli 1763, I, p. 6); (Duarenus (1509-1559) “Universitas est hominum societas, ita contratta, ut una tantum persona esse appareat, a singulis differens personis, ex quibus ea constat” in “Opera omnia”, Lucca 1765, I, pp. 131). Si noti nel passo citato, l’insinuazione del concetto, che inizia a fare capolino, di “differenza” tra la “societas” e gli “homines” di cui, comunque, la stessa consta.
Sarà comunque il Savigny a compiere una vera e propria opera storiografica e dogmatica di oggettivo stravolgimento dei testi e delle fonti romane. Egli, infatti, partendo da Ermogeniano (D. 1, 5, 2) afferma: “perciò il concetto primitivo di persona ossia del soggetto di diritti deve coincidere col concetto di uomo … tuttavia questo primitivo concetto della persona può ricevere dal diritto positivo modificazioni di due maniere, limitative ed estensive, già accennate nella formula enunciata. Può cioè, in primo luogo, negarsi a taluni singoli uomini, in tutto ed in parte, la capacità giuridica. Può, in secondo luogo, estendersi la capacità a qualche altro ente, oltre l’uomo singolo, e così può artificialmente formarsi una persona giuridica” (E C. Savigny, Sistema del Diritto Romano Attuale, II, trad. it. di V. Scialoja, Torino 1888, p. 133).

Questo pensiero che attribuisce alla “forma mentis” giuridica romana dei concetti come “ente”, “persona giuridica”, “artificiosità” della stessa, è frutto della lettura delle fonti con la presenza fuorviante delle lenti della ideologia moderna; è sovrapporre alle fonti medesime delle realtà mentali che nelle stesse non vi sono: è tutta qui la drammatica incomprensione moderna della natura più genuina dello spirito della Romanità, per fermarsi agli aspetti più genuinamente in buona fede di studiosi della levatura di un Savigny o di un Mommsen. Più densa però di significati e più carica di conseguenze, anche politico-ideologiche per la contemporaneità, è la lettura che del mondo giuridico romano compie Hegel, la deviante interpretazione che ne dà il positivismo, quale punto filosofico nodale e crocevia e del liberalismo e del marxismo. Nelle “Lezioni sulla filosofia della storia” il grande filosofo tedesco così si esprime: “Lo Stato (Reich) romano non è più il regno degli individui, com’era la città di Atene… L’universale soggioga gli individui i quali devono alienarsi in esso, ma in compenso essi ottengono l’universalità di loro medesimi, cioè la personalità: essi, come privati, diventano persone giuridiche…” (G. W. F. Hegel, Lezioni sulla filosofia della storia, Firenze, I, 1961, pp. 282 ss.; III, Firenze 1963, pp. 165-179. Su l’Idealismo tedesco, cfr. C. Ottaviano, Critica dell’idealismo, Catania 1968). Tale mistificante operazione moderna troverà poi sostegno e riscontro nella romanistica del XIX e XX secolo, la quale resterà subordinata alle categorie pandettistiche e mommseniane, per sfociare nella letterale “invenzione” di un diritto romano, storicamente mai esistito, prettamente individualistico (sarebbe a dire isolato dalla Religione, dalla Tradizione del “Mos Majorum”, dalla Politica come “Jus Publicum…) che è il supporto teorico ed il sostegno storico e storicistico al diritto degli Stati borghesi. Giuristi e legislatori moderni, infatti, sono giunti, sulla scia della cultura del Golem, a “creare nuovi esseri” ed a negare, al contempo, la reale esistenza ad esseri concretamente esistenti!

 

Tale ideologia disumana ha condotto alla creazione, sulla pelle dei popoli, di società di capitali, di natura mondiale, quali il F.M.I. e la Banca Mondiale che, quali persone giuridiche al di sopra degli Stati, in assoluto distacco e siderale lontananza dai popoli medesimi, come comunità di uomini e donne con i loro destini e tradizioni culturali e religiose, dettano le condizioni della vita e dello sviluppo medesimo di quei popoli, senza essere stati mai a ciò delegati da ogni popolo né da nessuno dei componenti degli stessi. Questo è l’esito della teoria della rappresentanza, della “persona ficta”, dell’artificio della persona giuridica, cioè della costruzione, come in un laboratorio, di un “monstrum” che è, in questo momento storico, il veicolo, lo strumento della globalizzazione dei mercati, viatico per la mondializzazione della cultura economicistica mediante quello che ormai si definisce il pensiero unico dominante del neoliberismo internazionale. Anche se abbiamo accelerato i tempi dei passaggi ideali, il senso resta però il medesimo: quando, contro la Tradizione giuridico-religiosa romana del “Populus” come comunità di uomini vivi e concreti che è la “Res Publica” e che esercita la sovranità (19) primaria attraverso gli esecutori della sua volontà, cioè i Magistrati, si creano “ex nihilo” gli enti astratti: Popolo, Società, Stato, e li si distacca dalla comunità storica, attribuendo agli stessi inizialmente diritti, volontà, capacità giuridiche che possono essere solo dell’uomo singolo, per poi attribuirgli anche il diritto di proprietà, trasferendolo dagli uomini all’ente (società di capitali, stato socialista…); allora sul piano di questa logica razionalista e quindi irreale è facile, è inevitabile che la persona viva che non è ancora nata sia mostruosamente definita “feto”; mentre nel primo libro dei “Digesta” di Giustiniano, cioè nel titolo “De Statu hominum” (D. 1, 5, 5, 3; 1, 5, 7; 1, 5, 26) e nel titolo “De verborum significatione” (D. 50, 16, 161) è definita “qui in utero est” (20); ed invece chi persona non è sia dichiarata tale!

Ragion per cui nella modernità possono esservi uomini che non sono persone (e penso alla schiavitù di interi popoli e categorie sociali, al commercio sui e dei bambini, allo sfruttamento dell’immigrazione…) e persone che non sono uomini o insieme di uomini, bensì meramente enti… che decidono il destino di quelli… Noi, comunque, sappiamo che dietro al fantasma giuridico (poiché fantasmi non esistono!) si celano sempre gli uomini, con i loro progetti di dominazione; si celano ideologie e culture che sono il nocciolo esotericamente satanista tanto della filosofia giuridica quanto della prassi politico-economica del mondo moderno.

Note:
1 – R. VON JHERING, Geist des romischen rechts auf detz verschiedenen Stufen seiner entwicklung, IV Ed., I, Lipsia, pp. 183-225. Per l’interpretazione di questa parte dell’opera di Jhering cfr. P. CATALANO, Populus romanus Quirites, Torino 1974, pp. 64 ss.
2 – R. VON JHERING, Lo scopo nel diritto, Torino 1972, pp. 393 ss.
3 – Sul concetto di cultura tradizionale cfr. J. EVOLA, Rivolta contro il mondo moderno, Roma 1998; R. Guénon, La crisi del mondo moderno, Roma 1953; IDEM, Il regno della quantità e i segni dei tempi, Torino 1979; K. LÖWITH, Dio, Uomo e Mondo – nella metafisica da Cartesio a Nietzsche, Roma 2000.
4 – P. POCCETTI – D. POLI – C. SANTINI, Una storia della lingua latina, Roma 1999; G. DEVOTO, Storia della lingua di Roma, Bologna 1940; R. ORESTANO, Introduzione allo studio del diritto romano, Bologna 1987, pp. 392 ss.
5 – C. NATALI – F. FERRARI (a cura di), Modelli di ragionamento nella filosofia antica, pp. 103-235, Bari 1994; F OLGIATI, I fondamenti della filosofia classica, Milano 1953; F. PIEMONTESE, Introduzione alla metafisica classica, Milano 1959.
6 – Al MACHIAVELLI infatti si attribuisce l’avere introdotto per primo il nome di “Stato”, col significato moderno, nel vocabolario politico, da cui ben presto passò anche in quello giuridico: v. al riguardo O. CONDORELLI, “Per la storia del nome “stato” (Il nome “Stato” in Machiavelli)”, in archivio giuridico Filippo Serafini 89,90 (1923) pp. 223 ss.; 77 ss.; F. ERCOLE, Lo Stato nel pensiero di Machiavelli, Roma, 1926; V. ORLANDO, Il nome di Stato, in “Diritto pubblico generale”, Milano 1954, pp. 185 ss.; F. CHABOD, L’idea di Nazione, Bari 1961, Appendice; A. PASSERIN D’ENTRÈVES, La dottrina dello Stato, Torino 1962 (cap. IV, Il nome Stato: genesi e fortuna di un neologismo), 47 ss. Sullo “Stato moderno”, la letteratura (storica, giuridica, politica, filosofica, sociologica) è immensa, d’ogni lingua e d’ogni paese: limitandoci all’italiana più recente e più propriamente giuridica, cfr. G. Solari, La formazione storica e filosofica dello Stato moderno, Napoli 1974; F.ORESTANO, Filosofia del diritto (1941), cap. VIII, ora in “Opera omnia”, III, Padova 1961, 125 ss.; F. BUSSI, Evoluzione storica dei tipi di Stato, Cagliari 1954; C. MARONGIU, Storia del diritto pubblico, Milano 1956; A. ASTUTI, La formazione dello Stato moderno in Italia, I, Torino 1957; cfr. anche, per il pensiero giuspubblicistico dal secolo scorso a noi, F. TESSITORE, Crisi e trasformazione dello Stato, Napoli 1963; in particolare, sui problemi della sovranità, v. da ultimo PASINI, Riflessioni in tema di sovranità, Roma 1965.
7 – J. FRANÇOIS COURTINE, Il sistema della metafisica. Tradizione Aristotelica e svolta di Suarez, Milano 1999.
8 – A. BARBERA (a cura di), Le basi filosofiche del costituzionalismo, Bari 2000.
9 – U. GALIMBERTI, Psiche e techne. L’uomo nell’età della tecnica, Milano 1999.
10 – G. LOBRANO, Diritto pubblico romano e costituzionalismi moderni, Sassari 1994; IDEM, Res publica res populi, la legge e la limitazione del potere, Torino 1996; J. J. ROUSSEAU, Il contratto sociale, Bari 1997, pp. 163 ss.; E. KANTOROWITZ, I due corpi del re, Torino 1989, p. 179; B. ACCARINO, La rappresentanza, Bologna 1999, pp. 26 ss.; D. FISICHELLA (a cura di), La rappresentanza politica, Milano 1983, pp. 61 ss.; G. NOCERA, Il binomio pubblico-privato nella storia del diritto, Napoli 1989, p. 65 ss.
11 – P. RUFFINI, La classificazione delle persone giuridiche in Sinibaldo dei Fieschi (Innocenzo IV) e in F. C. Savigny, in studi giuridici dedicati ed offerti a E. Schupfer, II, Torino 1898, pp. 316-323; cfr. anche Enciclopedia del Diritto, Milano 1983, voce “persona”. pp. 169-192; E. MONTANARI, Phersu e persona, in “Studi e Materiali di Storia delle Religioni”, 1997, vol. 63°.
12 – ” OTTO VON GIERKE, Das Deutsche Genossenschaftrecht, III, Berlin 1881 (Rist. Graz 1945).
13 A. BURDESE, Manuale di diritto pubblico romano, Torino 1997, pp. 168 ss.; F. DE MARTINO, Storia della Costituzione romana, Napoli 1974, vol. IV, Tomo I, pp. 561 ss..
14 – P. DE FRANCISCI, Arcana Imperii, Roma 1970. vol. III , Tomo I, pp. 116 ss.
15 – B. ELIACHEVITCH, La personnalité juridique en droit privée romain, Paris 1942. pp. 129; 188-192.
16 – G. SOLARI, La formazione storica e filosofica dello stato moderno, cit.; IDEM., Filosofia del diritto privato. Vol. I., Individualismo e diritto privato, Torino 1959, pp. 1-59; A. M. HESPANHA, Introduzione alla storia del diritto europeo, Bologna 1999, pp. 141 ss.; J. M. KELLY, Storia del pensiero giuridico occidentale, Bologna 1996, pp. 205 ss.; F. DE MARTINO, Individualismo e diritto romano privato, Torino 1999.
17 – L. CORTELLA, Dopo il sapere assoluto. L’eredità hegeliana nell’epoca post-metafisica, Milano 1995, pp. 225 e segg.
18 – R. ORESTANO, Il problema delle persone giuridiche in diritto romano, Torino 1968, vol. I; v. anche G. TAMBURRINO, Persone giuridiche, associazioni non riconosciute, comitati, Torino 1980, pp. 30-44; E. ALBERTARIO, Studi di diritto romano, Milano 1931, pp. 111 ss.; P. CATALANO, Diritto e persone. Studi su origine e attualità del sistema romano, Torino 1990.
19 – A. GUARINO, La democrazia a Roma, Napoli 1979.
20 – P. VOCI, Diritto ereditario romano, I, Milano 1967, p. 402.

Giandomenico Casalino

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