11 Aprile 2024
Julius Evola

La parola oscura di Evola come Poesia Ultima – Vitaldo Conte

la necessità disinteressata del seme che si sviluppa in pianta (…)

è necessità stessa che trasformerà la pianta in fiore

(J. Evola).

Tra il 1919 e il 1921 Evola ha usato talvolta le indicazioni del “poemetto a quattro voci” per il titolo delle sue opere pittoriche per esprimere le affinità visive della sua astrazione sconfinante. Una è proprio La parola oscura (1921), un olio su cartone, che si ricollega nel titolo al poema forse anche “per una possibile affinità con il processo di trascendenza che l’opera poetica vuole esprimere, visualizzato nel sovrapporsi di diversi elementi cromatici e compositivi” (C.F. Carli). Questo astrattismo mistico vuole esprimere un’immagine che si edifica con il suo ideale “a umano” di trascendimento e distacco: dalle emozioni, dal mondo, dalla società, riducendo al minimo l’elemento umano per entrare in una sfera superiore, non più compiutamente esprimibile, dove un silenzio di risonanze è dominante.

Il poemetto è il “preludio a Dada”, pure in riferimento ai processi e all’operare dell’alchimia: come è espresso dalla sua copertina, riempita da segnaletiche specifiche che costruiscono la complessità del suo discorso. La poesia è da leggere anche come espressione di un percorso di formazione: quello proteso verso una conoscenza sempre più approfondita della tradizione ermetico-alchemica. Quest’ultima, “muovendosi” fra Simbolismo, Futurismo e Dadaismo, si contamina con questi movimenti. L’alchimista è “l’archetipo … l’antesignano del dadaista”, rileva Arturo Schwarz. L’alchimia diviene, per Evola, creazione, lettera-concetto e procedimento immaginale di pensiero, travalicando anche i confini fra le arti, come quello fra la pittura e la scrittura poetica. In questa apertura-passaggio fra linguaggi diversi c’è l’ulteriore, naturale, testimonianza della sua sconfinante espressione.

Il poemetto La parole obscure du paysage intérieur è stato tradotto dall’italiano in francese, come indicato sulla copertina della prima edizione, da Evola insieme a Maria de Naglowska. La stessa interpretò il poemetto alle Grotte dell’Augusteo di Roma nell’autunno del 1921, in occasione di una manifestazione Dada. Nel ‘63 l’autore, nella prefazione alla ristampa, realizzata in concomitanza della mostra personale alla Galleria “La Medusa” di Roma, indicherà il livello dadaista di astrazione del suo poemetto: “E’ ‘astratto’ solo in certi aspetti del testo, dove ho seguito la tecnica della composizione o ‘alchimia’ dei puri valori evocativi, e non oggettivi, delle parole e anche di suoni. Per il resto, esso ha un ‘contenuto’ abbastanza preciso“.

Nel poema prendono alternativamente la parola quattro voci, che non appartengono a diversi personaggi. Rappresentano il quaternario inferiore, a cui fanno riferimento le dottrine orientali, e i quattro enti dell’uomo, trattati dall’Alchimia (come lo stesso Evola conferma nella prefazione alla riedizione del ’63). Le quattro voci simbolizzano i “quattro elementari” della vita interiore. Il tema fondamentale del poema è quello dell’oscurità esistenziale, dell’incessante gravitazione che sta al fondo della vita umana, in cui la distruzione e la rarefazione intervengono nel presentimento di una superiore libertà e per effetto di un diverso impulso. Nella lettera che Evola scrive a Tzara nel ‘21, per accompagnare una copia del suo poemetto, questo viene definito “una specie di documento di un episodio della mia vita”, non negando così il soggettivismo della propria espressione: “Testimonianza di un vissuto e di una ricerca che si muove su più fili – alcuni dei quali sicuramente così intimi da restare a noi completamente ignoti”.

La parole obscure diviene anche “disegno” dell’autore per la copertina del suo poema, realizzando, in tal modo, un possibile percorso di ampliamento visivo della vocazione all’autotrascendimento ascendente espressa dal testo poetico. Ne La parole obscure si espande la pluralità polisemica della poesia nella presunta pienezza della parola ermetica, con cui l’autore spinge “il codice poetico verso una dimensione della conoscenza priva di un equivalente linguistico, considerata gerarchicamente superiore”. Tale tensione è espressa dalla parola iperbole, la curva che tende verso l’infinito, richiamata alla conclusione del poemetto: “Questa nuova vita, è il regno dell’iperbole, che, come la chiamavano i greci è ‘Madre, sorella e figlia di se stessa’: è l’attività disinteressata: ossia la libertà”. Nella ritualità ermetica l’autore diviene depositario di un segreto iniziatico.

Evola, nel suo saggio Sul significato dell’arte modernissima, espone l’estrema rarefazione del suo poetico “paesaggio interiore”: questo “promana unicamente da un insieme incoerente di stati vitali oscuri, intimi, allarmanti che, come sperduti in uno spazio ora diafano, ora torrido, in cui un senso di sogno o di delirio gradatamente trasmutano e si chiarificano fino ad una rarefazione solare, hanno suoni e moti in sé inesplicabili. Una logica assolutamente diversa da quella di tutti i giorni regge questa sfera: in essa tutte le luci più famigliari o gloriose si fanno pallide come le frali vegetazioni dei sotterranei, la comune volontà vi barcolla come ebbra, le stesse parole danno un senso incomprensibile di lingua straniera”.

La tecnica del poema, da lui ricercata, è come già ricordato quella della poesia astratta e della cosiddetta “alchimia delle parole”, in cui le parole sono usate soprattutto nelle combinazioni delle loro frange evocative, dissociate dal senso reale. Il valore puro di questi suoni esprime la sua poesia dada. Questa ricerca compositiva è rintracciabile in altri autori del movimento, come in Hugo Ball: “Dobbiamo tornare alla più intima alchimia della parola, rinunciare alla parola in modo da poter conservare alla poesia il suo ultimo e più sacro rifugio”.

Il poemetto vuole esprimere il compimento di quell’azione “anti-umana” auspicata da Tzara nel suo Manifesto del 1918. Raggiungere la pienezza dell’astrazione può comportare il silenzio della parola poetica: esperienza in cui “entrarono” altri dadaisti. Evola, abbandonando l’attività artistica, sancisce, su “Bleu”, ciò che aveva affermato: “Siamo fuori (…) abbiamo esaurite … tutte le esperienze, spremute … tutte le passioni (…). Non è pessimismo: si tratta di aver veduto (…) io, sono al di fuori”. Come fece Rimbaud, che abbandonò la sua poesia attraversata da illuminazioni, dopo aver scoperto che “Io, è un altro”. Oltre l’arte astratta (o “modernissima”) e oltre Dada, che ne costituisce a suo parere l’esito finale, c’è dunque la rivelazione della nuda essenza dell’Io e la possibilità pericolosa di esperienze superrazionali o superindividuali.

Come Evola scrive a Papini, siamo di fronte all’uomo “finito sul serio”: “Smette di scrivere e ne ha abbastanza dell’intellettualismo; fa come fece un Rimbaud, taglia tutti i ponti, cambia essenzialmente di piano. Magari si uccide”. Da quel momento si dedicherà esclusivamente al pensiero filosofico. Il nuovo percorso coincide con l’esaurimento di un periodo dell’arte italiana d’avanguardia. Nel ‘63 l’autore fornirà una spiegazione al riguardo. L’autore probabilmente “silenzia” la parola poetica per “finire” il sé umano, realizzando con coerenza le proprie enunciazioni teorico-esistenziali “di andare oltre”.

NOTA. Lo scritto attraversa La poesia di Evola come testo sconfinante, introduzione dell’autore alla produzione poetica di J. Evola, in AA.VV., Julius Evola / Teoria e Pratica dell’Arte d’Avanguardia, Ed. Mediterranee, Roma 2019. L’autore ha letto e interpretato le poesie di Evola alla presentazione del sopracitato libro a Roma, presso la Galleria d’Arte Moderna e Contemporanea, il 7 marzo 2018.

Vitaldo Conte

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