11 Aprile 2024
Punte di Freccia

Je ne regrette rien – Mario Michele Merlino

Un po’ di Amarcord. Senza pretese e qualche vanto. Cane sdentato o, parafrasando il poeta Pound, simile a formica di un formicaio sconvolto. La pioggia di Ferragosto non turba le giornate tutte uguali, tappato in casa; il dramma di Genova scene di una apocalisse annunciata in un paese sempre meno ‘mio’; gli occhi scrutano non le distanze di orizzonti da travalicare ma penetrano nei meandri della memoria.

9 aprile 1969, Battipaglia, città di 30.000 abitanti, in provincia di Salerno. La gente si ribella scende in strada alla notizia della chiusura di due fabbriche. Verso la stazione ad occupare i binari far sentire l’urlo disperato contro l’ennesima ingiustizia contro il Meridione avvilito e depresso. Polizia e carabinieri fanno cordone, le armi in pugno. Insulti pugni levati donne in lacrime i primi sassi. Si spara sulla folla. Lacrimogeni non solo. Teresa Ricciardi, giovane insegnante, segue gli incidenti dalla finestra della sua abitazione. Un proiettile la prende in pieno. Muore un operaio tipografo, diciannove anni, Carmine Citro (dicono fosse iscritto alla Giovane Italia).

Polizia e carabinieri, eredi inconsapevoli dei ‘piemontesi’ del generale Enrico Cialdini in numero tanto superiore alla somma d’ogni guerra d’indipendenza; uomini donne vecchi e ragazzini d’ogni ceto, eredi inconsapevoli dei ‘briganti’ quali Carmine Crocco e del suo luogotenente Ninco Nanco e del generale catalano José Borges, fucilato dai bersaglieri a Tagliacozzo, al confine con lo Stato della Chiesa dove si stava recando in cerca di rifugio. (Le mie origini, famiglia torinese arrivata a Roma dopo la breccia di Porta Pia, cresciuta dentro Palazzo Carignano, poi interventista nel 1915, inducono alla cautela di fronte alla ‘questione meridionale’ e a certo recente ‘revisionismo’, in cui i briganti divengono patrioti e il Regno delle Due Sicilie depredato d’ogni florido sviluppo, nonostante sia consapevole come la linea di confine tra il compimento dell’Unità d’Italia – necessità della storia – e la conquista del Sud sia sottile e giocata tutta tra luci ed ombre).

Roma. Il corteo di protesta percorre le vie del centro. Via Arenula, altezza Ministero (dis)Grazia e (in)Giustizia. Il Puledro si attarda. Due poliziotti in borghese, confusi tra la folla sul marciapiede, gli si scagliano contro lo abbrancano cercano di portarlo via. Errore. Torno indietro afferro l’asse a strisce rosse e bianche di lavori in corso. Botte in testa all’uno e all’altro. Di corsa filiamo verso ponte Garibaldi. Dopo il lancio di una molotov (il racconto completo si trova in E venne Valle Giulia), il corteo sbanda. Io finisco (sfigato prendo una via laterale dove c’è il Commissariato) tra le amorevoli grinfie degli sbirri. A Regina Coeli e processo per direttissima.

Convinco lo scopino, che funge da barbiere, a tagliarmi la barba (si rifiuta tagliarmi i capelli ché è vietato cambiare fisionomia a chi va in direttissima, cioè entro cinque giorni). Il costo: un pacchetto di sigarette. Da qualche parte devo aver conservato il ritaglio de Il Tempo con la fotografia dei quattro imputati, fra cui, in alto a destra, il sottoscritto rasato e un paio di occhiali neri dalla montatura pesante.

Inutile accortezza. Uno alla volta entrano i due poliziotti, sono entrambi ancora con la testa a garze e cerotti. A domanda del P.M. se riconoscono chi li ha menati, come da copione, prima l’uno e poi l’altro mi indicano, aggiungendo ‘anche se si è tagliato la barba’… Sembra una scena da film comico anni Trenta. Condanna a due mesi con la condizionale, scarcerazione immediata, promessa, mantenuta per cinquanta anni, da parte mia che la barba non sarà più sottratta dal mio volto.

Come con le sigarette. Ho iniziato in prima media. Allora si potevano acquistare dal tabaccaio sciolte, due tre, e te le mettevano in bustine di carta velata. Fin da subito senza filtro. Mi dava l’impressione d’essere più ‘maschio’. In un tardo settembre da vitellone riccionese, forse inizio anni ’60, scoprii le Philip Morris. Fu amore a prima boccata. A Villa Triste, celle d’isolamento, potevo tenere le sigarette vietati però i fiammiferi. Sadismo o stupidità? Dallo spioncino mi facevo accendere la prima dal secondino di turno e andavo avanti con il mozzicone una dopo l’altra fino a che mi sentivo saturo… Poi, estate 1992, 29 agosto, in bicicletta, sbocco di tosse e vomito e l’ultima sigaretta vola sul marciapiede. ‘Faber est suae quisque fortunae’.

C’è una morale, come al termine d’ogni favola?

Si dice che sia veramente finita quando della vita non restano che ricordi. E, forse, se dovrò radermi la barba in vista di questa operazione (non ci torno su per non essere ulteriormente patetico), anche in ciò l’autunno delle stagioni… E, sebbene il filosofo Martin Heidegger ci tenga a distinguere il tramontare dal perire, un certo retrogusto amaro mi riempie la bocca. L’aurora riposta nel tramonto e da esso protetta vale per chi preserva in sé la speranza non per un disincantato nichilista. Eppure mi volgo al mare aperto, ‘arma la prora’ contro l’onda e il vento, mentre ‘l’isola che non c’é’ mi attende…

Giacinto mi ha fatto dono dell’esile libro di Andrea Cangini La camicia nera di mio padre, raccolta di alcuni (autorevoli, si fa per dire) commenti sulla scelta del padre dell’autore di essere sepolto, appunto, in camicia nera. Mi aveva preavvisato di toni decisamente ‘borghesi’ dove il Fascismo, quello a noi caro, si scolora in tonalità da destra giacca cravatta e ‘scusate il disturbo’… Non di questa critica il mio intento. Racconta il figlio che, in una atmosfera carica di viva commozione, il padre, di solito sobrio nell’esprimere certe emozioni, descrivesse come si fosse avverata la capito l’azione in Algeria dei paracadutisti che si erano opposti al processo di decolonizzazione. ‘Sconfitti ma non domi, cinti d’assedio nel loro fortino nel deserto, i parà francesi chiesero e ottennero l’onore di potersi arrendere senza deporre le armi. Uscirono dai loro quartieri inquadrati, marciando dietro la loro bandiera con i mitra in spalla e intonando, solenni, la celebre canzone di Edith Piaf: Non, je ne regrette rien’…

Rimpianti rimorsi rancori rivalse zero, ricordi tanti.

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