11 Aprile 2024
Antropologia Tradizione

Herman Wirth e la traduzione di “Aufgang…”: note al primo capitolo “La Preistoria delle Razze” – Michele Ruzzai

In un articolo pubblicato il 30/12/2017, sempre su EreticaMente, avevo segnalato l’iniziativa recentemente partita nell’ambito del gruppo Facebook “MANvantara. Antropologia, Ethnos, Tradizione” per la traduzione, ad uso privato, del ponderoso volume “Der Aufgang der Menschheit” di Herman Wirth: un progetto per il quale rinnovo ancora l’invito a partecipare a tutti coloro che sono interessati a questi temi, contattando il gruppo (che è pubblico) o anche, in assenza di un’utenza Facebook, scrivendo alla casella mail: michele.ruzzai@libero.it.

Nel frattempo è stata completata la traduzione del primo capitolo “Zur Urgeschichte der rassen” (La Preistoria delle Razze) ed è quasi terminata quella del secondo “Die Urheimat der nordischen rasse” (La patria primordiale della razza nordica), mentre ricordo che l’introduzione è già stata tradotta e pubblicata nel 2013 da Effepi, con il libretto “Introduzione a l’Aurora dell’umanità”: adesso, con questo nuovo articolo, propongo una sintesi dei punti che nella parte “La Preistoria delle Razze” mi sono sembrati di particolare interesse, sottolineando comunque come la densità dello scritto e la vastità dell’approccio di Herman Wirth siano tali che nulla – assolutamente nulla! – possa sostituire la lettura diretta del suo testo (ed anche della tabella a fine capitolo, qui difficilmente riassumibile). Le analisi del ricercatore tedesco-olandese, che in termini più ampi ho provato a sintetizzare a fine dicembre, in questo primo capitolo partono fondamentalmente dall’interrogativo di quali possano essere le modalità di origine e la profondità temporale dell’attuale razza nordica europea ma anche – mi sia concesso aggiungere – in un’ottica più generale quella della stessa umanità “bianca” in tutte le sue varie, splendide, sfaccettature.

Nello specifico della razza nordica, Wirth inizia rilevando come, tra i reperti europei, le relative tracce archeologiche non sembrerebbero risalire a tempi anteriori al Mesolitico, in connessione con la cultura di Ertebølle (attestata tra circa 7.000 a 5.500 anni fa in area baltica – nota 1), con quella maglemosiana (nota 2) o, al massimo, con l’Aziliano. Si tratta di evidenze che appaiono coerenti con l’osservazione, di carattere più prettamente antropologico, che interpreta il tipo biondo e con occhi chiari come altamente specializzato e ben poco “primitivo” (note 3 e 4), dove quest’ultimo termine non è sinonimo di arretratezza evolutiva ma piuttosto di “omnipotenzialità morfologica”. In effetti, l’assenza di ritrovamenti ossei di età particolarmente antica ed attribuibili chiaramente alla razza nordica sembrerebbe rafforzare l’ipotesi di un suo sviluppo maturato non prima dei tempi postglaciali (praticamente olocenici), a partire dalle due stirpi principali del Paleolitico europeo, ovvero il Cro-Magnon (più robusto) e l’Aurignac/Combe Capelle (più leggero); o anche dalle varie modalità di incrocio verificatesi tra queste, più o meno come ad esempio aveva ipotizzato Gustaf Kossinna (note 5 e 6).

Tuttavia Wirth sottolinea anche il fatto, significativo, che la razza nordica presenta pur sempre delle caratteristiche morfologiche costanti e consolidate ormai da 10.000 anni, quindi non ritiene biologicamente possibile che essa sia potuta sorgere solo in tempi postglaciali a causa di un rapido fenomeno di depigmentazione, ad esempio indotto da significativi cambiamenti climatici, intervenuto su di una popolazione precedente. Ricordiamo che quest’ultima potrebbe essere una prospettiva più simile a quella seguita da Carleton Coon, secondo il quale (nota 7) gli attuali nordici europei non deriverebbero direttamente dalle più antiche razze paleolitiche, ma sarebbero fondamentalmente dei mediterranei di età neolitica adattatisi a situazioni ambientali più fredde e di minor irraggiamento solare.

L’idea di Herman Wirth sull’origine della razza nordica è invece molto diversa. Pur, come detto sopra, ammettendone un’attestazione fossile di età solamente postglaciale, egli ipotizza che essa, nella sua forma attuale, rappresenti la mutazione (“idiovariazione”) di un gruppo più antico, maturata però in un arco temporale decisamente più lungo, dell’ordine delle decine di migliaia di anni, ritenendo che solo pochissimi millenni non sarebbero stati sufficienti per arrivare alla conformazione odierna (e va da sé che tale gruppo originario, pur non corrispondendo certo ai mediterranei neolitici di Coon, dovrebbe comunque aver presentato delle caratteristiche fenotipiche non del tutto coincidenti con i nordici attuali). Viene infatti ricordato il caso di quei popoli che vivono in condizioni glaciali da alcune migliaia di anni ma che continuano tuttora a conservare tratti morfologici alquanto distanti da quelli della razza nordica: un esempio in tal senso è costituito dagli Esquimesi, che fino a tempi recentissimi presentavano elementi culturali molto vicini alla cultura magdaleniana europea (circa 10-17.000 anni fa), e che in gran parte hanno tuttora gli stessi capelli scuri probabilmente derivanti dai loro antenati paleolitici.

E’ evidente che cercare i processi formativi dell’attuale razza nordica nelle decine di migliaia di anni a monte dei tempi olocenici, significa ovviamente addentrarsi in profondità nel periodo glaciale wurmiano, di conseguenza riconoscendo in quelle estreme condizioni climatiche un fattore determinante per la sua formazione (nota 8). A Wirth appare quindi chiara la necessità di guardare ai tempi paleolitici e alle due principali forme umane del nostro continente – le anzidette Aurignac/Combe Capelle e Cro-Magnon – almeno per partire con alcune prime considerazioni di carattere generale. Per quanto riguarda la prima, al di là della datazione del vero e proprio reperto di Combe Capelle (che in sé stesso potrebbe essere più recente di quanto a suo tempo stimato), lo si può comunque prendere a riferimento di una linea umana – più snella e minuta – che, come ricordato da vari autori (note 9,10,11), probabilmente è più antica di quella robusta del Cro-Magnon. Nella storia razziale europea, Wirth considera l’ingresso in campo dell’uomo di Aurignac come un evento di importanza davvero cruciale: stirpe probabilmente giunta da est (nota 12), con tracce che sembrano spingersi fino in Siberia, non trovò tuttavia il nostro continente disabitato, bensì occupato dai Neanderthal. Questi vennero progressivamente sospinti in sacche geografiche sempre più ristrette, ma è probabile che con essi ebbero luogo anche non trascurabili fenomeni meticciatori (nota 13). La razza Aurignac, inoltre, viene avvicinata anche al tipo Brünn (o Brno, in lingua ceca), secondo una linea di pensiero che pare largamente condivisa in ambito paleoantropologico (note 14, 15 e 16).

Wirth quindi si chiede se sia possibile collegare la genesi della razza nordica – il cui arrivo nel nostro continente appare tanto improvviso e poco chiaro – al tipo Aurignac che pure, come Evola ci segnala (nota 17), da qualche antropologo (ad esempio Reche) viene ipotizzato essere il nucleo dal quale, piuttosto, potrebbe essersi sviluppata la razza mediterranea-occidentale; altri ricercatori (ad esempio Kloatsch) invece propendono proprio per una sua filiazione nei confronti della razza nordica, idea che pare condivisa anche da Gunther (nota 18). Ma questa è però un’ipotesi che a Herman Wirth appare poco fondata, pur ritenendo il disegno del volto aurignacoide alquanto vicino al tipo nordico, ma tuttavia non scorgendo somiglianze evidenti nella conformazione della mandibola e dell’occipite. Lo studioso tedesco-olandese quindi propende per un’idea praticamente opposta: la razza Aurignac non come ancestrale, ma come il prodotto per meticciamento di una stirpe originaria nordico-artica – o “prenordica” – evidentemente ancora più antica (sulla quale torneremo nel corso dell’articolo ed in conclusione) con altri ceppi ad essa coevi e di diversa provenienza (e qui si ripropone il tema dell’impostazione tendenzialmente “poligenista” di Wirth, sulla quale mi permetto di rimandare al mio articolo del 30/12/2017).

Discorso non molto diverso viene fatto anche per l’altra razza fondamentale del Paleolitico Superiore europeo, il Cro-Magnon, che pare accompagnarsi ancor più strettamente alle prime culture aurignaziane (culture, dunque, da non leggere unicamente in collegamento organico con l’omonima razza di Aurignac/Combe Capelle); per il Cro-Magnon sarebbe ravvisabile, in misura forse ancora maggiore, una genesi meticciatoria alquanto marcata – idea che oggi appare piuttosto condivisa (note 19, 20, 21, 22) – tra stirpi paleolitiche europee (ad esempio gli stessi Combe Capelle e addirittura, in una certa parte, pure i Neanderthal) ma anche altri ceppi di origine asiatica ed africana, con i tipi più prettamente boreali e “prenordici” postulati da Wirth. Una complessa dinamica ibridatoria che con il tempo si sarebbe stabilizzata, divenendo ereditaria ed assumendo un vero e proprio carattere razziale. Il Nostro, dunque, non ritiene possibile che l’attuale razza nordica sia nata in tempi postglaciali nemmeno a partire dal tipo Cro-Magnon, ipotesi che ad esempio Evola ci riporta formulata da Wilser (nota 23). Questo, tuttavia, non impedì al Cro-Magnon di divenire, in termini antropologici, il perno centrale delle aree artiche, atlantiche ed euro-occidentali, anche se Wirth non esclude la presenza in Europa di ulteriori forme umane alquanto diverse, attestate ad esempio dal reperto di Grimaldi (rinvenuto in Liguria, presso la località dei Balzi Rossi): interpretato come l’esponente di una razza di colore precedentemente stanziata nel nostro continente – forse l’antenata della razza nera – bisogna però dire che con il tempo tale ipotesi è stata destituita di ogni fondamento, riclassificando l’Uomo dei Balzi Rossi come semplice variante di un Cro-Magnon vissuto tra 25.000 e 18.000 anni fa (nota 24).

La dislocazione della stirpe cromagnoide appare molto estesa soprattutto in longitudine, dal momento che forme ad essa riconducibili sembrano essersi stanziate anche in aree tropicali, come ad esempio nell’arcipelago delle Canarie (il noto caso dei Guanci, che pare fossero contraddistinti da una statura particolarmente alta, scarsa pigmentazione, capelli biondi o rossi ed occhi azzurri – nota 25) ma con propaggini spintesi anche molto più a sud: in quella mescolanza, razziale e culturale assieme, che Wirth ricorda particolarmente attiva soprattutto in area “sud atlantica”. Qui Evola segnala le indubbie influenze esercitate dal mondo oceanico sull’Africa occidentale e che furono ben esplorate dall’etnologo Leo Frobenius (note 26 e 27), il quale rilevò addirittura la presenza e la notevole importanza rivestita, in certi contesti africani, di un simbolo dai chiari rimandi solari e polari come lo Swastika (nota 28). Ma, per aree ancor più meridionali, qualche antropologo giunse ad ipotizzare un popolamento cromagnoide fino nell’Africa australe, prima ancora dell’arrivo in sito di Boscimani ed Ottentotti (nota 29), o il collegamento morfologico a reperti locali come quelli di Boskop (nota 30), però negando decisamente nel Cro-Magnon alcun negroidismo: quindi suggerendo, piuttosto, un’influenza esercitata da quest’ultimo “verso” le popolazioni australi discendenti da Boskop. Il tutto, infine, per arrivare a sviluppare alcune correnti migratorie che Wirth ipotizza superarono l’Africa meridionale per giungere fino in Oceania.

Ma ritorniamo al ramo più settentrionale dei Cro-Magnon. Il nostro autore ritiene che esso presenti forti legami addirittura con alcune popolazioni esquimesi: una connessione particolarmente evidente attraverso una forma – il Chancelade – che diversi ricercatori considerano una variante cromagnoide più gracile (note 31, 32, 33). Per Wirth tali somiglianze sono ravvisabili soprattutto tra gli Esquimesi della Groenlandia e del Labrador, e non solo in termini razziali ma anche culturali, in particolare nei confronti della cultura magdaleniana. Una somiglianza quindi derivante fin dal Paleolitico Superiore, se in questa chiave interpretiamo ad esempio la tipica imbarcazione esquimese, il “kayak”, che pare raffigurata addirittura nelle più antiche pitture rupestri: Breuil, infatti, individuò segni che giudicò rappresentazioni di questo natante addirittura nelle pitture della grotta di Altamira. Wirth accenna anche ad antichi rapporti esistenti tra gli Esquimesi e la popolazione originaria di Irlanda e Scozia, i Pitti e i mitici Fir Bolg, ma ne parla più estesamente nel secondo capitolo di “Aufgang…”. Queste relazioni con i Cro-Magnon europei non sono necessariamente spiegabili tramite contatti avvenuti attraverso il lunghissimo percorso nordeurasiatico ma, all’opposto, attraverso un tragitto molto più breve, quello nordatlantico: un settore che in tempi paleolitici potrebbe essere stato ripetutamente attraversato grazie alla presenza di vaste aree emerse tra Groenlandia, Islanda ed Europa nordoccidentale (note 34, 35, 36, 37) se non addirittura (Forrest) di un vero e proprio ponte continentale (nota 38). O anche, senza necessariamente postulare una geografia nordatlantica così diversa da quella odierna, tali contatti potrebbero essersi stabiliti (Greenman) con l’attraversamento della banchisa (nota 39) o la semplice navigazione di piccolo cabotaggio favorita dall’utilizzo, come temporanei punti di sosta, dei numerosi iceberg presenti in zona (nota 40).

Tuttavia, gruppi esquimesi dolicocefali (cranio allungato) in mezzo alla popolazione di estrazione più mongoloide, di derivazione asiatica, non sono sporadicamente presenti solo nei settori prossimi all’Oceano Atlantico, ma anche più ad occidente, ad esempio nell’isola di Victoria (arcipelago artico canadese) e sicuramente senza che questi elementi possano essere ricondotti al recente popolamento islandese della Groenlandia, bensì alla ben più antica razza nordico-artica. Per Wirth, quindi, ciò rimanda a tempi antichi di centomila anni e, nella tabella a fine capitolo, sembra infatti che arrivi a riferirsi all’interglaciale Riss-Wurm. Tali caratteristiche superano anche il contesto eschimese per evidenziarsi pure in altri popoli boreali eurasiatici, come i Ciukci dell’estremo nord-est siberiano (che Marcozzi ci ricorda essere, più che mongolici in senso stretto, dei “pre-mongolici” a caratteri più attenuati – nota 41) fino ad arrivare alla famiglia linguistica uralica con i Voguli (o Mansi) e gli Ostiachi, molto più ad ovest. In definitiva si può dire (nota 42) che le popolazioni del nord asiatico presentano caratteristiche fenotipiche (tra le quali il colore degli occhi e della cute, questa addirittura spesso con riflessi rossicci) riscontrabili quasi solo presso i più occidentali europidi settentrionali. E, secondo Wirth, questi elementi di continuità andrebbero appunto ricondotti alla remota presenza di un tipo nordico “primario” nell’attuale Artide, dal quale sarebbero giunte alcune caratteristiche fisiche, tra le quali la dolicocefalia, introdottesi in popolazioni che invece oggi presentano di base un cranio brachicefalo: il tutto attraverso una dinamica meticciatoria più o meno simile a quella che nel Paleolitico aveva interessato i gruppi europoidi più antichi, Aurignac/Combe Capelle e Cro-Magnon, quindi presupponendo l’esistenza di altre razze coeve, come già avevo accennato nel precedente articolo del 30/12/2017.

L’antica razza nordico-artica starebbe anche all’origine di un’altra caratteristica biologica importante, questa volta a livello di gruppi sanguigni: Wirth ritiene che ad essa sarebbe interamente attribuibile l’origine del gruppo “0”. E’ interessante rilevare come, su scala mondiale, questo gruppo si trovi massimamente rappresentato (fino all’80-90% – nota 43) tra quelli che il ricercatore tedesco-olandese considera i più diretti discendenti degli antichi Prenordici, ovvero i Nativi nordamericani e, come ricorda Evola (nota 44), in percentuali anche maggiori rispetto a quelle rilevate in Islanda e Svezia. Con il tempo, dall’antico gruppo “0” sarebbe sorto per “idiovariazione” (variazione senza mescolanza) il gruppo “A”, che Wirth accosta ad una razza non più coincidente con la prenordica originaria ma che definisce “nordico-atlantica”: un gruppo che appare particolarmente diffuso in Europa. Comunque una certa vicinanza tra le due stirpi sarebbe stata mantenuta nel corso del tempo, dal momento che, oltre al livello ematologico, Wirth con una serie di immagini sottolinea la notevole somiglianza ravvisabile tra alcuni Nativi nordamericani e diversi tipi europei (elemento segnalato anche da altri ricercatori – note 45 e 46). E’ anche interessante rilevare che nel nostro continente, il gruppo “A” progressivamente diminuisce, ed in proporzione aumenta il “B”, man mano che si procede da nord-ovest verso sud-est (nota 47): questa dinamica appare in accordo con l’idea che il gruppo “B” sia di provenienza soprattutto asiatica ed originato dallo “0” primordiale non per semplice mutazione interna, come il gruppo “A”, ma per mistovariazione. Ed in effetti una particolare forma di mistovariazione sta per Wirth anche all’origine della razza mongolide, prodotta dall’unione tra la razza prenordica con alcuni ceppi asiatici di colore: tale è anche l’idea di Evola (nota 48) secondo il quale tali popolazioni residuali potrebbero essere collegate ad una remotissima razza antartico-lemurica che era già decaduta al periodo delle prime migrazioni iperboree (nota 49). Ma l’ingresso di gruppi nordico-artici anche nelle aree asiatiche più orientali, secondo Wirth potrebbe essere testimoniato dalla locale presenza, relativamente elevata, del gruppo sanguigno “0”: aggiungo che sarebbe interessante verificare questo dato tra gli Ainu, autoctoni giapponesi pre-mongolici, ed anche che tali migrazioni in aree estremo-orientali potrebbero forse riferirsi ai movimenti della “Gente di Tanara”, sulla quale mi permetto ancora di rimandare al mio precedente articolo del 30/12/2017.

Partendo da questi elementi, è chiaro come il Nostro consideri il popolamento americano da parte di gruppi asiatico-mongolidi un fatto dalle conseguenze quantitative piuttosto esigue nella compagine dei Nativi (altri autori hanno infatti rilevato la quasi totale assenza del gruppo sanguigno “B” nel continente americano – nota 50); una componente, tra l’altro, penetrata attraverso il ponte delle Aleutine e lo stretto di Bering in tempi non molto remoti. Ne consegue che i processi di ingresso del Nuovo Mondo appaiono quindi ben più complessi ed articolati del semplice modello di origine unicamente asiatica (nota 51); e l’intuizione di Herman Wirth sembra confermata anche dalle più recenti analisi genetiche, nelle quali Cavalli Sforza (nota 52) individua all’interno della “prima componente principale” americana – sviluppata secondo un chiaro gradiente nord-sud – una situazione di “fondo scala” presente in Groenlandia (come a rappresentare un’area di origine demica) che si mostra significativamente analoga a quella rilevata in Alaska e nel Canada settentrionale. Un’impressione rafforzata anche dalla terza e dalla quarta componente principale che suggerirebbero un notevole contributo genetico di provenienza caucasoide giunto nel Nordamerica da nord-est.

A mio parere, comunque, un punto fondamentale sul quale bisognerebbe cercare di fare il massimo di chiarezza possibile è la datazione di questi contributi genetici nordorientali. Perché una cosa è dire – come peraltro anche la ricerca accademica sembra considerare, almeno a livello di ipotesi di lavoro – che tali ingressi sarebbero riconducibili a saltuari influssi trans-atlantici del Solutreano europeo di 18-20.000 anni fa nei confronti della più tarda cultura Clovis americana (note 53 e 54): influssi forse portati da genti dal fenotipo specificatamente cromagnoide (nota 55). Ma una cosa piuttosto diversa è invece collocarci, come in effetti fa Wirth, in un quadro antropologicamente più profondo, dove tali evidenze starebbero a rappresentare il vero e proprio substrato primario del popolamento americano, temporalmente più antico e riferite ai movimenti della citata razza prenordica: che dovette spostarsi da latitudini ben superiori a quelle europee e per cause probabilmente più stringenti di altre, successive. Da zone collocate a nord del Circolo Polare Artico e probabilmente a causa degli esordi della glaciazione wurmiana, secondo Wirth sarebbero dunque partite le primissime migrazioni boreali che, similmente allo schema che Julius Evola propone in “Rivolta contro il mondo moderno” (nota 56), avrebbero inizialmente spinto le razze artiche verso i settori nordamericani, nordatlantici e nordeurasiatici. In questo quadro, come causa scatenante del peggioramento delle condizioni climatiche, viene postulato uno slittamento polare: tema controverso – Tilak, ad esempio, non ritiene sufficientemente solidi gli elementi in questa direzione (nota 57) – ma che da alcuni viene invece accettato (nota 58) anche nel contesto, relativamente recente, della glaciazione wurmiana (nota 59). Più discutibile può essere l’accostamento di tali eventi alla teoria Köppen-Wegener della “deriva dei continenti” (nota 60), proprio per la scala temporale enormemente diversa – almeno decine di milioni di anni – implicata da quest’ultima.

In ogni caso è un tema, questo dello spostamento polare, non certo secondario nel quadro interpretativo wirthiano perché causa dell’improvviso congelamento delle aree artiche che nel “Terziario” (altro termine che andrebbe meglio definito) avrebbero goduto di un clima temperato poi improvvisamente distrutto, con la conseguente migrazione delle stirpi prenordiche. Ma è proprio questo dato climatico che dovrebbe suggerire un fenotipo delle genti che abitarono le antiche sedi iperboree non del tutto coincidente con quello dell’attuale razza nordica – forgiata dai rigori del clima glaciale – razza dalla quale Wirth parte per seguire a ritroso la linea della sua filogenesi. E tra il punto iniziale e quello finale di tale linea, non dimentichiamoci che anche Wirth ipotizza almeno un livello di discontinuità, nel momento in cui parla di “idiovariazioni” intervenute sulla stirpe originaria. Discontinuità che personalmente non escluderei possano anche essere state più di una: ad esempio ricordiamo i “protonordici” ipotizzati da Montandon (nota 61) che avrebbero rappresentato un gruppo più vasto dal quale si sarebbero differenziati sia gli odierni nordici europei che gli Ainu giapponesi. O anche un altro insieme antropologico, forse coincidente con i “protonordici” di Montandon o forse – più probabilmente – di ampiezza ancora maggiore, al quale Wiklund diede il nome di “razza paleoartica” (nota 62), ipotizzandola come contesto nel quale si enuclearono sia i caratteri paleoeuropei ma anche quelli paleoasiatici, e del quale i Lapponi oggi potrebbero essere considerati tra gli eredi più diretti. Credo in definitiva che non sia semplice stabilire, nella pluralità di definizioni spesso soggettivamente adottate dai singoli ricercatori, quali rapporti possono essere intercorsi tra i “protonordici” di Montandon, i “paleoartici” di Wiklund ed infine i “prenordici” di Wirth. Se non rilevare come questi devono aver identificato gruppi nei quali vennero lentamente a sedimentarsi determinate caratteristiche nel corso di decine di migliaia di anni (e non la secca depigmentazione di un gruppo neolitico mediterraneo verificatasi in tempi molto più ridotti, come ipotizzato da Carleton Coon) con il risultato di un certo grado di affinità ma, al tempo stesso, anche di differenza tra le attuali caratteristiche “classiche” di tipo nordico-europeo e, ad esempio, quelle dei Nativi nordamericani, considerati oggi gli eredi più diretti dei gruppi boreali primordiali ed illustrati sia da Wirth che da Evola (nota 63).

Il tutto, comunque, per condividere in ultima analisi una sorta di “koinè boreale” – una comunanza di Origine, di Spazi, di Miti – che certamente annovera Herman Wirth tra i suoi esploratori più fecondi (motivo per il quale invito ancora tutti a partecipare a questo progetto di traduzione), ma le cui suggestioni sono animate da una forza tale da riuscire talvolta, ed inaspettatamente, a coinvolgere anche autori dal retroterra culturale molto diverso: “Mentre l’Occidente viveva ripiegato su se stesso, sembra che tutte le popolazioni settentrionali, dalla Scandinavia fino al Labrador, passando per la Siberia e il Canada, mantenessero fra loro i più stretti contatti. Se i Celti hanno attinto alcuni dei loro miti da questa civiltà subartica, di cui non conosciamo quasi nulla, si capisce come mai il ciclo del Graal dimostri, con i miti degli Indiani delle foreste dell’America del Nord, una parentela più stretta che con qualunque altro sistema mitologico. E non è probabilmente neppure un caso che i Lapponi costruiscano ancora tende coniche identiche a quelle di questi ultimi.” (Claude Levi-Strauss – nota 64).

Note

• Nota 1) Adriano Romualdi – Gli Indoeuropei. Origini e migrazioni – Edizioni di Ar – 1978 – pag. 47
• Nota 2) Romano Olivieri – Le razze europee – Alkaest – 1980 – pag. 23
• Nota 3) Renato Biasutti – Razze e Popoli della terra – UTET – 1959 – pag. 386
• Nota 4) Franz Boas – L’uomo primitivo – Laterza – 1995 – pag. 89
• Nota 5) Mario Giannitrapani – Paletnologia delle antichità indoeuropee. Le radici di un comune sentire (parte 1) – in: I Quaderni del Veliero, n. 2/3 – 1998 – pag. 257
• Nota 6) Adolfo Morganti – Il razzismo. Storia di una malattia della cultura europea – Il Cerchio – 2003 – pag. 48
• Nota 7) Romano Olivieri – Le razze europee – Alkaest – 1980 – pag. 113
• Nota 8) L.F. Clauss / W. Stapel / O. Spann / J. Evola – Orizzonti del razzismo europeo – Editrice il Corallo – 1981 – pag. 43
• Nota 9) Louis Charpentier – Il mistero Basco. Alle origini della civiltà occidentale – Edizioni L’Età dell’Acquario – 2007 – pagg. 22, 73 e 124
• Nota 10) Julius Evola – Il mito del sangue – Edizioni di Ar – 1978 – pag. 152-153
• Nota 11) Bjorn Kurten – Non dalle scimmie – Einaudi – 1972 – Pag. 122
• Nota 12) Fiorenzo Facchini – Il cammino dell’evoluzione umana. Le scoperte e i dibattiti della paleoantropologia – Jaca Book – 1994 – pag. 181
• Nota 13) Julius Evola – Il mito del sangue – Edizioni di Ar – 1978 – pag. 151
• Nota 14) Michel Barbaza – Dal Paleolitico medio all’Epipaleolitico nel Vecchio Mondo – pag. 64, in “AA.VV. (a cura Jean Guilaine) – La preistoria da un continente all’altro – Gremese Editore – 1995”
• Nota 15) Michel Brezillon – Dizionario di Preistoria – Società Editrice Internazionale – 1973 – pag. 62
• Nota 16) Fiorenzo Facchini – Il cammino dell’evoluzione umana. Le scoperte e i dibattiti della paleoantropologia – Jaca Book – 1994 – pag. 165
• Nota 17) Julius Evola – Il mito del sangue – Edizioni di Ar – 1978 – pag. 152
• Nota 18) Adriano Romualdi – Gli Indoeuropei. Origini e migrazioni – Edizioni di Ar – 1978 – pag. 145
• Nota 19) Eurialo De Michelis – L’origine degli indo-europei – Fratelli Bocca Editori – 1903 – pagg. 295-307
• Nota 20) Frank C. Hibben – L’Uomo preistorico in Europa – Feltrinelli – 1972 – pag. 37
• Nota 21) Claudio Pogliano – L’ossessione della razza. Antropologia e genetica nel XX secolo – Edizioni della Normale – 2005 – pag. 233
• Nota 22) Francisco Villar – Gli Indoeuropei e le origini dell’Europa. Lingua e storia – Il Mulino – 1997 – pag. 195
• Nota 23) Julius Evola – Il mito del sangue – Edizioni di Ar – 1978 – pagg. 152-153
• Nota 24) Renato Del Ponte – Miti e simboli della Liguria “esoterica” in Evola – in: Arthos, n. 16 – 2008 – pag. 24
• Nota 25) Louis Charpentier – Il mistero Basco. Alle origini della civiltà occidentale – Edizioni L’Età dell’Acquario – 2007 – pag. 101
• Nota 26) Julius Evola – Ricerche moderne sulla tradizione nordico-atlantica – in “I testi di Ordine Nuovo” – Edizioni di Ar – 2001 – pag. 64
• Nota 27) Leo Frobenius – I miti di Atlantide – Xenia Edizioni – 1993 – pag. 25
• Nota 28) Leo Frobenius – Storia delle civiltà africane – Bollati Boringhieri – 1991 – pag. 144
• Nota 29) Mario F. Canella – Razze umane estinte e viventi – Sansoni – 1940 – pag. 59
• Nota 30) Vincenzo Giuffrida-Ruggeri – Su l’origine dell’uomo: nuove teorie e documenti – Zanichelli – 1921 – pag. 190
• Nota 31) Michel Barbaza – Dal Paleolitico medio all’Epipaleolitico nel Vecchio Mondo – pag. 64, in “AA.VV. (a cura Jean Guilaine) – La preistoria da un continente all’altro – Gremese Editore – 1995”
• Nota 32) Michel Brezillon – Dizionario di Preistoria – Società Editrice Internazionale – 1973 – pag. 78
• Nota 33) Fiorenzo Facchini – Il cammino dell’evoluzione umana. Le scoperte e i dibattiti della paleoantropologia – Jaca Book – 1994 – pag. 166
• Nota 34) Edith Ebers – La grande era glaciale – Sansoni – 1957 – pag. 168
• Nota 35) Mario Giannitrapani – Paletnologia delle antichità indo-europee. Le radici di un comune sentire (parte 2) – in: Quaderni di Kultur, n. 4 – 1998 – pag. 88
• Nota 36) Charles H. Hapgood – Lo scorrimento della crosta terrestre – Einaudi – 1965 – pagg. 210 e 283
• Nota 37) Alberto Malatesta – Geologia e paleobiologia dell’era glaciale – La Nuova Italia Scientifica – 1985 – pag. 78
• Nota 38) Bruno Martinis – Continenti scomparsi – Edizioni Mediterranee – 1994 – pag. 31
• Nota 39) Jean-Francois Le Mouel – Preistoria del Nordamerica – pag. 117, in “AA.VV. (a cura Jean Guilaine) – La preistoria da un continente all’altro – Gremese Editore – 1995”
• Nota 40) Aldo Conti – L’enigma dei primi americani – in: Le Scienze – Ottobre 2003 – pag. 27
• Nota 41) Vittorio Marcozzi – L’Uomo nello spazio e nel tempo – Casa Editrice Ambrosiana – 1953 – pagg. 130 e 150
• Nota 42) Hugo A. Bernatzik – Popoli e Razze – vol. 2 – Editrice Le Maschere – 1965 – pag. 70
• Nota 43) Henry V. Vallois – Le razze umane – Garzanti – 1957 – pag. 96
• Nota 44) Julius Evola – L’ipotesi iperborea – in: Arthos, n. 27-28 “La Tradizione artica” – 1983/1984 – pag. 7
• Nota 45) Vinigi L. Grottanelli – Ethnologica. L’Uomo e la civiltà – Edizioni Labor – 1966 – pag. 114
• Nota 46) Henry V. Vallois – Le razze umane – Garzanti – 1957 – pag. 100
• Nota 47) Louis Charpentier – Il mistero Basco. Alle origini della civiltà occidentale – Edizioni L’Età dell’Acquario – 2007 – pag. 67
• Nota 48) Julius Evola – Ricerche moderne sulla tradizione nordico-atlantica – in “I testi di Ordine Nuovo” – Edizioni di Ar – 2001 – pag. 65
• Nota 49) Julius Evola – Sintesi di dottrina della razza – Edizioni di Ar – 1978 – pag. 67
• Nota 50) Louis Charpentier – Il mistero Basco. Alle origini della civiltà occidentale – Edizioni L’Età dell’Acquario – 2007 – pag. 74
• Nota 51) Steve Olson – Mappe della storia dell’uomo. Il passato che è nei nostri geni – Einaudi – 2003 – pag. 220
• Nota 52) Luigi Luca Cavalli Sforza – Storia e geografia dei geni umani – Adelphi – 1997 – pagg. 635, 640 e 641
• Nota 53) Aldo Conti – L’enigma dei primi americani – in: Le Scienze – Ottobre 2003 – pag. 27
• Nota 54) Luca Sciortino – Un giapponese in America – in: Le Scienze – Giugno 2006
• Nota 55) Fiorenzo Facchini – Il cammino dell’evoluzione umana. Le scoperte e i dibattiti della paleoantropologia – Jaca Book – 1994 – pag. 177
• Nota 56) Julius Evola – Rivolta contro il mondo moderno – Edizioni Mediterranee – 1988 – pag. 242
• Nota 57) Bal Gangadhar Tilak – Le regioni artiche e la “notte degli dei” – in: Arthos, n. 27-28 “La Tradizione artica” – 1983/1984 – pag. 15
• Nota 58) Charles H. Hapgood – Le mappe delle civiltà perdute. Le prove dell’esistenza di una civiltà avanzata nell’Era Glaciale – Mondo Ignoto – 2004 – pag. 226
• Nota 59) Rand e Rose Flem-Ath – La fine di Atlantide – Piemme – 1997 – pagg. 66 e 109
• Nota 60) Renato Biasutti – Alcune considerazioni sul primo popolamento del continente americano – in: Scritti Minori – Società di Studi Geografici – 1980 – pag. 143
• Nota 61) Mario F. Canella – Razze umane estinte e viventi – Sansoni – 1940 – pag. 164
• Nota 62) Roberto Bosi – I Lapponi – Il Saggiatore – 1969 – pagg. 32 e 174
• Nota 63) Julius Evola – Il mito del sangue – Edizioni di Ar – 1978 – pagg. 152 e 153
• Nota 64) Claude Levi-Strauss – Tristi tropici – Il Saggiatore – 2011 – pag. 213

 

Michele Ruzzai
Gruppo Facebook “MANvantara. Antropologia, Ethnos, Tradizione”
Email: michele.ruzzai@libero.it

2 Comments

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *