13 Aprile 2024
Archeostoria Religione Saggio

Ex oriente lux, ma sarà poi vero? (terza parte)

Di Fabio Calabrese

Vediamo, prima di proseguire, una brevissima sintesi delle due parti precedenti del nostro discorso: la leggenda, la fiaba (a cui mi sembrerebbe di fare troppo onore chiamandola un mito) di una presunta “luce da oriente” che avrebbe nel corso dei secoli, prima civilizzato l’Europa (la civiltà sarebbe il frutto di un complicato passaparola innescatosi in qualche modo tra il Nilo e la Mezzaluna Fertile e avrebbe man mano coinvolto Egizi, Sumeri, Assiri, Babilonesi, Persiani, Ebrei, Fenici, e infine buoni ultimi Greci e Romani) poi apportato, due millenni fa l’ulteriore illuminazione della “grande religione” cristiana, è una fola senza fondamento, perché gli Europei hanno avuto abbastanza inventiva da civilizzarsi da sé, e ne fanno testo ad esempio i monumenti megalitici che costellano il nostro continente da Malta a Stonehenge, e perché la cristianizzazione dell’Europa vi ha apportato solo elementi di crisi, a cominciare dalla disgregazione dell’impero romano.

Abbiamo visto anche che la supposta “luce da oriente” si mantiene attraverso censure e depistaggi da parte della “ricerca” accademica fra cui quella del ritrovamento delle “tavolette di Tartaria”, il primo esempio al mondo di scrittura conosciuto, rinvenuto non in Medio Oriente ma in Europa (Turda, Romania) ben mezzo secolo fa, è forse il più clamoroso.

Nella seconda parte abbiamo visto le affinità (e le differenze) che esistono fra il pensiero indiano e quello europeo (in particolare la filosofia greca), molto più vicini l’uno all’altro rispetto al mondo semitico-mediorientale che s’interpone fra essi, e che risulta estraneo e antitetico allo spirito dell’Europa, ma anche in questo caso non c’è da pensare a una presunta “luce da oriente” quanto a un comune fondo di cultura ancestrale che accomunerebbe Greci, Indiani e probabilmente gli altri popoli discendenti dal medesimo ceppo indoeuropeo.

Non è ancora tutto. Come ho ricordato, diversi anni fa ebbi un vivace scontro con una collega docente di storia dell’arte, infatuata come molti altri della leggenda della “luce da oriente” (in questa sede, è meglio che vi risparmi, anche se penso che potete immaginarli senza troppo sforzo, i battibecchi al calor bianco che ho spesso avuto con i “colleghi” – che io non ritengo per nulla tali, in quanto non scelti nemmeno dalle autorità pubbliche ma dalla curia – di religione cattolica, vi basti sapere che in uno di essi persi completamente la voce). In quella circostanza non mi accontentai di aver avuto ragione, ossia di aver subissato la mia interlocutrice con la veemenza e la passionalità delle mie argomentazioni; anzi, mi sembrò una “vittoria” di poco conto, trattandosi di una donna; e scusatemi, ma io al femminismo proprio non ci credo. Volevo essere certo di avere ragione, e quello scontro verbale diventò il punto di avvio di una serie di ricerche durate anni.

 Una cosa che è emersa in maniera sempre più chiara è questa: negli anni fra le due guerre mondiali è stato portato avanti il più deciso tentativo dell’homo europeus di rialzare la testa rispetto alla cospirazione cristiano-ebraico-democratico-massonica-marxista che ci sta lentamente strangolando, tentativo che fu definitivamente stroncato nel fuoco e nel sangue nel 1945; oggi, a quasi un settantennio da quei fatti, affinché possiamo essere “liberi”, non soltanto ce ne viene presentata una versione che dà ragione ai vincitori (e per i “revisionisti” che osano metterla in dubbio si spalancano frequentemente le porte del carcere), ma le idee che animarono il tentativo di riscossa europeo non devono neppure essere conosciute.

 Un concetto allora comune e oggi bandito, è che gli uomini e i popoli non sono tutti uguali (con fatica, sotto il peso di una anatema che è diventato pesante come una montagna, si arriva a stento a bisbigliare la parola “razze”), e che esistono popoli creatori, altri portatori e altri ancora distruttori di civiltà.

Bene, la realtà dei fatti ha la sgradevole tendenza a infischiarsene di quello che gli uomini vorrebbero fosse ritenuto vero, e basta grattare un poco sotto la superficie per accorgersi dell’esistenza di una serie di indizi, ovviamente ignorati da quella costruzione ideologica che è la storia ufficiale, che vanno proprio in quest’aborrita direzione, in particolare che all’origine delle grandi civiltà asiatiche ma anche dell’America precolombiana troviamo un antico popolamento di tipo caucasico. L’assunto “ex oriente lux” andrebbe allora del tutto rovesciato.

Nella sua opera incompiuta e pubblicata postuma, Urfragen (un titolo che andrebbe tradotto alla lettera Domande primordiali ma che significa piuttosto qualcosa come “domande sulle origini”) (1), Oswald Spengler si poneva l’interrogativo circa il fatto che abbiamo la prova di un fondamento caucasico, “bianco” per tutte le grandi civiltà, eccetto che per quelle dell’Asia orientale, e formulava l’ipotesi che un domani nuove ricerche avrebbero mostrato gli indizi di un’origine caucasica anche per queste ultime.  (E’ curioso che non si ponesse un analogo e apparentemente più pressante interrogativo riguardo alle civiltà precolombiane delle Americhe ma, una spiegazione forse c’è, e la vedremo nella quarta parte di questo scritto che, me ne rendo conto, sta diventando parecchio lungo, ma non è il caso di essere
troppo sintetici esponendo i risultati di anni di ricerche).

Noi oggi possiamo dire che sostanzialmente aveva ragione, tranne per il fatto che dopo la seconda guerra mondiale questo genere di ricerche è diventato tutt’altro che popolare.

Io mi scuso di dover citare a memoria un testo che, per motivi che non hanno bisogno di essere raccontati qui, non è più in mio possesso. Negli anni ’70, le Edizioni di Ar pubblicarono Religiosità indoeuropea di Hans F. K. Gunther con un’ampia e interessantissima introduzione di Adriano Romualdi, una delle intelligenze più lucide del nostro ambiente, che un destino crudele ci ha tolto davvero troppo presto (2).

Nella sua introduzione, Romualdi accennava al problema che angustiava Spengler e faceva notare a ogni modo che in particolare fra le élite giapponesi si riscontra con una certa frequenza un tipo fisico che si discosta dal classico mongolo, più longilineo, dalla pelle più chiara, con gli occhi talvolta grigio-azzurri, il tipo manciù-coreano che fa pensare a una lontana impronta europide.

Non è tutto, perché nell’isola di Hokkaido, la più settentrionale delle quattro grandi isole che formano (insieme a un gran numero di isole minori di tutte le dimensioni) l’arcipelago giapponese, vivono gli Ainu, una popolazione caucasica che potremmo definire paleo-europide. Non è tutto. Jomon è un termine che indica la “facie” preistorica nipponica e, secondo alcuni autori, “Jomon” potrebbe essere stata una popolazione, probabilmente affine agli Ainu che avrebbe popolato le isole del Sol Levante prima che vi si insediassero genti mongoliche.

Da dove potesse provenire questa popolazione a cui va forse fatta risalire l’impronta “europea” dei Giapponesi, non è per nulla chiaro, anche perché il clima instauratosi a livello planetario dopo il 1945 non ha certo favorito questo tipo di ricerche.   

Per essere chiari, ci troviamo di fronte a un muro di silenzio per penetrare oltre il quale occorre cogliere con molta attenzione i pochi spiragli che ci si offrono, una vera e propria censura come quella che ha avvolto la scoperta delle tavolette di Tartaria. Per esempio nessun media  italiano ha riportato la notizia, per fortuna comparsa sulle pagine on line dello svizzero “Ticino libero” nel 2008, del ritrovamento in Asia centrale, nel deserto del Takla Makan che oggi fa parte della regione cinese del Sinkiang o Xinjiang, di alcune mummie dalle sorprendenti fattezze europidi.

Vi riporto uno stralcio dell’articolo apparso su “Ticino Libero”:

“Capelli e barba rossicci con spruzzi di grigio, un naso lungo e un’altezza considerevole, quasi 2 metri. per la sepoltura era stato vestito con una lunga tunica di colore rosso e calzature in pelle, decorate. Questa è la mummia, di aspetto visibilmente europeo e ben conservata, di un uomo che era morto (e forse vissuto) oltre 3000 anni fa nel deserto del Taklamakan, nello Xinjiang, una regione impervia nell’ovest della cina. le analisi del DNA hanno rivelato un’appartenenza alla razza celtica. nella lingua che parlano gli Uiguri del Xinjiang, Taklamakan significa “il luogo dove si entra e dal quale non si esce”.

Gli archeologi lo hanno chiamato “L’uomo di Cherchen” e lo hanno trasportato in un museo della capitale della provincia dell’Urumgi.

La mummia era stata rinvenuta con le mummie di tre donne e di un bambino piccolo; fanno parte di circa 400 mummie di razza celtica rinvenute nel deserto del Taklamakan e il loro stato di conservazione è migliore di quello delle mummie rinvenute nei siti archeologici egiziani.

 Una delle donne della tomba di Cherchen ha capelli castano chiaro, il viso e le mani dipinti con simboli e porta un vestito rosso riccamente ornato. la mummia del bambino è avvolta in una stoffa di colore bruno e sugli occhi ha due pietre blu” (3).

Un’ulteriore ricerca in internet (dove si trova sorprendentemente poco sull’argomento) mi ha permesso di accertare che la scoperta della mummia dell’uomo di Cherchen è stata fatta da Victor Mair, sinologo dell’università della Pennsylvania che, mentre accompagnava un gruppo di turisti in un museo di Urumci, capoluogo dello Xinjiang, avrebbe notato per caso le fattezze europidi della mummia esposta in una teca male illuminata. Da qui sarebbe poi risalito ad altre mummie sorprendentemente “europee” e “celtiche” provenienti sempre dalla zona di Cherchen. Altro fatto importante, perché illustra bene le condizioni in cui i ricercatori sono costretti a lavorare, le analisi del DNA che hanno permesso di accertare le caratteristiche “celtiche” di questa antica popolazione vissuta attorno all’XI secolo avanti Cristo, sono state condotte su campioni “rubati”, prelevati di nascosto, all’insaputa delle autorità cinesi che non l’avrebbero di certo permesso, e il motivo emerge chiaro da un altro passo dell’articolo di “Ticino Libero”:

“lo storico Ji Xianlin spiega [che] vi è in Cina un piccolo gruppo di separatisti etnici che han
no approfittato dell’occasione per fomentare disordini e pretendere una discendenza con questo antico popolo celtico” (4).

Siamo, come è facile capire, in presenza di uno dei tanti orrori tuttora presenti del moloc comunista di cui, specialmente ora che non c’è più la Guerra Fredda, nell’Occidente “libero” si parla poco o nulla.

Questa regione dell’Asia centrale, il Sinkiang attualmente più nota con il nome cinesizzato di Xinjiang, è abitata dagli Uighur, una popolazione di etnia turca e di religione mussulmana, oggi sottomessa ed oppressa dalla Cina “popolare”. Come i Tibetani, forse peggio dei Tibetani, gli Uighur sono oggetto di una feroce repressione di cui ben poco si parla in Occidente, intesa a cancellarli come popolo, come cultura, come comunità religiosa, e la loro storia, come quella del vicino Tibet, ha il torto di costituire l’ennesima riprova dell’assoluta incompatibilità fra comunismo e rispetto dei diritti umani, con in più l’aggravante che il fatto che si tratti di mussulmani non ha favorito l’interesse del mondo occidentale nei loro confronti.

Negli anni fra le due guerre mondiali, il Sinkiang ed in particolare la regione del Lop Nor furono oggetto delle ricerche dell’esploratore Sven Hedin. Queste ricerche erano finanziate da un’associazione tedesca, la Società Ahnenerbe, “Eredità degli antenati”, che era un’emanazione delle autorità del Terzo Reich e, almeno nelle intenzioni dei leader nazionalsocialisti, avevano lo scopo di localizzare la patria primordiale della razza ariana.

Dopo l’avvento della dittatura comunista in Cina, la regione del Lop Nor è diventata tristemente famosa perché i comunisti cinesi ne hanno fatto un grande poligono per i loro esperimenti nucleari.

Io non me la sentirei affatto di escludere che i cinesi, dimostrando in questo una cecità fanatica tipica dell’ideologia comunista, abbiano in tal modo voluto “punire” il Lop Nor che le esplorazioni di Sven Hedin avrebbero in qualche modo trasformato in una “regione fascista”.

L’identificazione proposta da “Ticino Libero” delle mummie di Cherchen come “celti” non è molto credibile, è assai più verosimile che si tratti di tocari, ma questo non risolve l’enigma, semplicemente lo sposta. I Tocari erano una popolazione europide vissuta nel Turkestan orientale (che corrisponde grosso modo all’attuale Xinjiang) almeno fino al XIII secolo. Della lingua tocaria, si conoscono due varianti: tocario A o turfanese, che era parlato nella zona di Turfan, e tocario B o kucheano, parlato nell’oasi di Kucha, ma la cosa singolare è che si tratta di una lingua indoeuropea di tipo centum. I linguaggi indoeuropei sono suddivisi in due grosse diramazioni chiamate a seconda della forma del numerale “cento”, centum (latino) e satem (sanscrito); ossia – potremmo dire – linguaggi indoeuropei occidentali ed orientali; il gruppo centum comprende i linguaggi latini, celtici, germanici, il greco e il tocario, il gruppo satem le lingue slave, indiane e iraniche. Si è trattato forse di una migrazione isolata, ma non si può del tutto escludere l’affascinante ipotesi che i Tocari fossero quanto restava in epoca storica dell’Urvolk indoeuropeo.

Costoro sono oggi del tutto estinti? Non hanno lasciato alcuna traccia di sé? Forse non è proprio così.

L’ultima falange macedone, un articolo apparso alcuni anni fa (purtroppo anonimo) su Digilander ci racconta degli Hunza e dei Kalash, tribù di un popolo montanaro che vive ancora oggi nelle valli interne del Pakistan e dell’Afghanistan:

“Le persone che vedo sono notevolmente diverse dai pakistani di pelle scura dei bassopiani. Rosei nelle guance e bianchi di pelle, molti dei 50.000 Hunza hanno occhi blu, verdi o grigi, e capelli che variano dal giallo granturco al nero corvino. Alcuni ragazzi hanno anche capelli rossi e efelidi. Ma ancora più addentro le montagne, mi dicono, c’è un altra tribù, i Kalash, tra i quali la somiglianza con i presunti antenati europei è ancora più sorprendente”.

Poco più sotto si parla di una ricerca sul DNA di queste popolazioni condotta da un medico pachistano, il dottor Qasim Mehdi:

“Mehdi aggiunge che il DNA dei Kalash presenta inoltre un parentela genetica con gli italiani e i tedeschi” (5).

Quale è l’origine di questa gente? Dei Kalash che non hanno solo caratteristiche fisiche europidi ma sono anche ostinatamente pagani in un mondo islamizzato, si era occupato anche Duccio Canestrini in un articolo apparso su “Airone” nell’ormai lontano giugno 1989, Tra i Kalash, gli ultimi pagani dell’Afghanistan, in cui ci ha spiegato:< /span>

“Gli antropologi culturali, infine, sottolineano la somiglianza di alcune caratteristiche della cultura kalash (come la figura dello sciamano, l’uso del tamburo nelle feste e la stessa vinificazione) con elementi tribali del Turkestan orientale, oggi politicamente cinese” (6).

Di conseguenza, è del tutto naturale metterli in relazione con le mummie di Cherchen e con i Tocari, di cui sarebbero i discendenti.

Sempre l’articolo di Canestrini ci parla della precaria condizione dei Kalash, pagani perseguitati che lottano per tenere in vita le loro tradizioni minacciate in un mondo impestato dall’islam:

“Tra gente che relega, vela e reprime le proprie donne, resistono i loro costumi sessuali, più rilassati e più gioiosi, che si manifestano soprattutto durante le feste. In un mondo clamorosamente devoto ad Allah, resiste il loro “profondo” politeismo, animato da divinità maschili e femminili, da fate con tre seni, da splendidi protettori delle vette, da numi solari e da cavalli soprannaturali.

Minacciate da una intollerante tradizione iconoclasta, resistono le loro statue funerarie, i gandau, benché decimate. Infine, tra le moschee che avanzano in un dedalo di vallette, resiste la sacra jestak-han: al contempo tempio, macello e municipio. Si tratta della sede di Jestak, una Dea Giunone che non disdegna offerte di capretti durante il Chaumos, la cerimonia kalash che si celebra in occasione del solstizio di inverno (…).

Purtroppo, la storia dei kalash coincide con l’inizio dei loro guai. A battezzarli kafiri (in arabo, “infedeli”) furono proprio i seguaci di Maometto che, nella loro gigantesca campagna di islamizzazione partita nel VII secolo dopo Cristo, giunsero ad accerchiare anche la patria dei kalash, chiamata Tsyam. Quegli “infedeli” si dimostrarono, però, degli irriducibili. Uguale insuccesso toccò l’anno Mille, al fondatore del ramo turco dei Ghaznavidi, Mahmud, il sultano conquistatore dell’India.

E neppure i diecimila cavalieri dell’esercito di Tamerlano, il celebre discendente di Gengis Khan, ebbero ragione, quattro secoli dopo, delle roccheforti dei ribelli. I quali, tuttavia, di fronte all’incalzare di nuovi invasori, si videro costretti ad abbandonare il Tsyam (che oggi sarebbe nell’Afghanistan) per ripiegare sempre più a settentrione, verso le aspre vallate montane del Pakistan nord-occidentale, dove a tutt’oggi risiedono. Il colpo di grazia ai kafiri afghani lo inferse, nel 1896, l’emiro [di] Kabul Abdur Rahman che, con l’avallo del governo di Sua Maestà britannica perpetrò una vera strage. Ai pochi sopravvissuti lasciò la scelta: convertirsi all’Islam oppure morire.

Persino il nome del Kafiristan venne cancellato dalle carte geografiche. Rahman lo cambiò in Nuristan, cioè “Il paese della luce” , la luce (nur, in arabo) della verità coranica. L’assedio musulmano delle ultime valli kafire in Pakistan (Bumburet, Rumbur e Birir) non è mai cessato” (7).

Noi in Europa facciamo molto male a disinteressarci della tragedia di questi nostri fratelli, fratelli due volte, perché europidi e perché pagani che resistono alla peste abramitica.

Le steppe eurasiatiche tra Russia e Siberia sono costellate da caratteristici grandi tumuli funerari, i kurgan. A quanto sembra anche i Tocari sarebbero da collegare alla cultura dei kurgan non solo, ma nelle sepolture in essi contenute è ben visibile la sostituzione del tipo fisico-antropologico europide con quello mongolico, pur mantenendosi la facies culturale pressoché invariata.

Secondo l’ipotesi dell’antropologa di origine lituana Marija Gimbutas, la cultura dei kurgan sarebbe la cultura madre delle civiltà indoeuropee.

Ecco cosa riferisce al riguardo la voce meno esoterica che possiate immaginare, Wikipedia:

“Secondo l’ipotesi kurgan, il focolare primitivo degli Indoeuropei sarebbe da identificare con il complesso di culture kurgan a nord del Mar Nero. In una fase antica (dopo il 4500 a.C.) si sarebbero staccati il ramo anatolico (forse la Cultura di Cernavod?) e il ramo Tocario, probabilmente la cultura di Afanasevo. Successivamente tutti gli altri rami (…).

Sebbene i kurgan siano un fenomeno essenzialmente culturale, si osserva che, nelle steppe occidentali (ma nelle fasi antiche fino anche in Mongolia e sui monti Sayan-Altai), i cadaveri intumulati
manifestano caratteristiche europoidi. In particolare, data l’alta statura, la forma del cranio ed altre caratteristiche che si ritrovano frequentemente nei kurgan, si può certamente asserire che almeno nelle prime fasi le culture kurgan furono diffuse da una popolazione europoide di tipo cromagnoide.

Successivamente nelle regioni orientali si assiste all’apparire delle caratteristiche mongoloidi (probabilmente già nella cultura di Karasuk), come si può ben vedere nei kurgan di Pazirik, un fenomeno questo che sembra accompagnarsi alla sostituzione delle lingue iraniche in Asia centrale e in Siberia da parte delle lingue turco-mongole” (8).

 Forse è qui, a cavallo fra le steppe russe meridionali e quelle asiatiche, che si deve cercare l’Urheimat indoeuropea. Sembrerebbe indicarlo anche un recente ritrovamento di cui in Italia non si è parlato per nulla.

il 4 ottobre 2010, il sito britannico NDTV News ha pubblicato un articolo (non tradotto in italiano) che ci parla di un’importante scoperta di un team russo-britannico nella zona di confine fra il Kazakistan e la Siberia meridionale: le tracce di un antichissimo insediamento indoeuropeo.

Alla lettera, il titolo dell’articolo è 4000-years-old Aryan City discovered in Russia (9).

Forse parlare di città è esagerato, poiché si trattava di un insediamento dove sarebbero vissute dalle 1000 alle 2000 persone. In realtà, ci viene detto, la scoperta risalirebbe a una ventina di anni fa, ma non era stato possibile compiere alcun tipo di indagini e la localizzazione del sito era stata mantenuta segreta, perché la zona era di interesse militare, poi, con la scomparsa dell’Unione Sovietica e della conflittualità con l’Ovest, da questo punto di vista c’è stata una progressiva liberalizzazione. Questo insediamento, che si trova al confine fra la Russia meridionale e il Kazakistan, sarebbe il primo a essere esplorato di una ventina di altri simili che si trovano nella stessa zona. I manufatti rinvenuti lo collocherebbero in modo abbastanza certo nell’Età del Bronzo.

Gli archeologi che hanno studiato il sito sono il russo Gennady Zdanovich e l’inglese Bettany Hughes del King’s College di Londra che lavora anche come divulgatrice scientifica per la BBC.

Sono stati rinvenuti un carro, set da trucco e numerosi pezzi di ceramica, molti dei quali contrassegnati con delle svastiche che nell’antichità  simboleggiavano l’energia solare e vitale, oltre a sepolture nelle quali cavalieri sono stati inumati assieme ai loro animali.

Zdanovich e la Hughes non hanno dubbi sul fatto che questi insediamenti si trovino proprio nella patria ancestrale degli Indoeuropei, che coloro che li hanno abitati quattro millenni or sono non solo avevano caratteristiche fisiche europidi, ma parlavano la lingua proto-indoeuropea da cui poi si sono differenziati i vari rami del centum del satem.

Siamo sulle tracce di una pagina di storia perduta, un antico popolamento europide da cui forse sono derivate le civiltà dell’Asia. Nella quarta parte di questo scritto vedremo se è possibile supporre qualcosa di analogo anche per le civiltà dell’America precolombiana. Nel caso potessimo dare una risposta affermativa a questo quesito, allora non potrebbero esserci dubbi: altro che “luce da oriente”, “la luce” della civiltà risulterebbe costantemente legata a genti di stirpe europea.  

NOTE

1. Oswald Spengler: Albori della storia mondiale (Urfragen), Edizioni di AR, 1997.

2. Hans F. K. Gunther: Religiosità indoeuropea (Frommigheit nordischer Artung), Edizioni di Ar, 2011.

3. “Ticino Libero”, 28 dicembre 2008.

4. Ibid.

5. Digilander: L’ultima falange macedone, http://digilander.libero.it/kisp/focus/selezioneita.htm .

6. Duccio Canestrini: Tra i Kalash, gli ultimi pagani dell’Afghanistan, “Airone” n. 98, giugno 1989.

7. Ibid.

8. Wikipedia: voce “Kurgan”.

9. 4000-years-old Aryan City discovered in Russia, NDTV News 4 ottobre 2010.

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