13 Aprile 2024
Archeostoria Religione Saggio

Ex oriente lux, ma sarà poi vero? (quarta parte)

Di Fabio Calabrese

Nella prima parte di questo scritto che mi si è letteralmente sviluppato sotto le mani raggiungendo una discreta corposità, abbiamo esaminato l’aspetto forse più comune della leggenda, della favola “ex oriente lux”, ossia la presunzione che “la civiltà” si sarebbe poco per volta irradiata dal Medio Oriente, dove sarebbe nata nella Mezzaluna Fertile tra Egitto e Mesopotamia fino a raggiungere il cuore di un’Europa a lungo irrimediabilmente riluttante e barbara e ne abbiamo, credo, vista tutta l’inconsistenza.

Nella seconda parte ci siamo spinti a un confronto fra la civiltà antica dell’Europa e quelle dell’Asia ulteriore, in particolare la civiltà indiana, e abbiamo visto che vi sono delle affinità spiegabili non con una derivazione di elementi della cultura europea da quella indiana (o magari viceversa), ma facendo riferimento al comune fondo indoeuropeo anteriore alla divisione dei popoli Ari nei vari rami del nostro albero genealogico.

Con la terza e con questa quarta parte siamo ancor più sfacciatamente eretici, considerando l’ipotesi che un antico popolamento europide sia a fondamento delle grandi civiltà asiatiche e dell’America precolombiana. Notiamo che la questione non è puramente storica, ma ha un preciso significato politico nel momento in cui esiste una cultura storica “ortodossa” che sembra avere il preciso scopo di indurci ad avere una percezione della nostra identità etnico-storica come qualcosa di non importante, di non rilevante, facilmente sacrificabile sull’altare di un mondo cosmopolita, globalizzato, imbastardito dove tutte le società e le culture tenderebbero a diventare multietniche secondo il sogno perverso di cristiani, democratici e marxisti assortiti.

Nella terza parte di questo scritto ci eravamo soffermati sul fatto che Oswald Spengler nel suo postumo Urfragen si era posto il dubbio se non vi fosse stato un elemento europide alla base delle grandi civiltà dell’Asia orientale (1).  

Può sembrare sorprendente che Spengler non si ponesse, oltre che per le civiltà asiatiche un dubbio analogo per quelle dell’America precolombiana, ma forse la spiegazione è più a portata di mano di quel che sembra: sebbene la storiografia ufficiale non abbia mai voluto riconoscerlo, è noto da sempre che un qualche elemento europide deve essere alla base delle civiltà dell’America precolombiana.

Ai tempi della conquista erano diffuse sia in Messico sia in Perù leggende su genti bianche e barbute che in epoca antica sarebbero venute a civilizzare i nativi e i cui leader sarebbero poi stati divinizzati: Viracocha presso gli Incas, Quetzalcoatl presso gli Aztechi, Gucumatz presso i Maya. L’arrivo degli invasori, che vennero ovunque accolti a braccia aperte, fu scambiato per “il ritorno degli dei”, e fu questo, assieme ai cavalli e alle armi da fuoco, a permettere a un pugno di avventurieri di sopraffare civiltà popolose di milioni di uomini.

 All’epoca di Pizarro l’aristocrazia incaica conservava ancora un’impronta europide, in particolare le coyas, le donne dell’harem dell’inca erano di pelle più chiara degli spagnoli.

 Inoltre, a differenza della maggior parte dei nativi che sono di corporatura minuta, gli abitanti della parte meridionale del continente sudamericano erano, se non “bianchi”, di complessione robusta e statura alta, con mani e piedi piuttosto grandi, tanto che questa regione, la Patagonia, conserva il nome che deriva dal soprannome che gli spagnoli diedero loro, patagones, cioè “piedoni”.

Quale potrebbe essere l’origine di una presenza europide, caucasica, “bianca” nelle Americhe verosimilmente molto più antica di Colombo e anche dei Vichinghi che certamente in età medievale hanno preceduto il navigatore genovese?

Secondo la versione ufficiale della storia, il popolamento precolombiano delle Americhe sarebbe avvenuto dall’Asia attraverso il ponte di terra che, a causa dell’abbassamento del livello dei mari, sarebbe emerso dur
ante l’età glaciale là dove oggi c’è lo stretta di Bering. Attraverso questo ponte, la Beringia, si sarebbero riversate nel Nuovo Mondo quattro distinte ondate di popolazione.

I più antichi, poi spinti man mano sempre più a sud dall’arrivo di altre popolazioni, sarebbero stati i cosiddetti paleo-amerindi giunti in America forse 20.000 anni fa (ma la data è tutt’altro che certa). Di essi in epoca storica rimanevano due popolazioni-relitto: i Pericu della Bassa California e i Fuegini della Terra del Fuoco.

Circa 12.000 anni fa il ponte di terra della Beringia fu attraversato dagli antenati degli Amerindi veri e propri, che avrebbero dato origine alla maggior parte delle popolazioni precolombiane.

8.000 anni fa circa, ci fu una terza migrazione, che diede origine ai Na-Dene, un gruppo che comprende i Navajo e diverse popolazioni della parte più settentrionale del continente, quali gli Athabaska e i Tlingit, stanziati tra Alaska e Canada. Nel loro insieme, come ha rivelato l’analisi del DNA, i Na-Dene presentano maggiore affinità genetica con le popolazioni della Siberia centrale che con gli Amerindi.

Infine, in epoca ormai storica, certamente non attraverso il ponte di terra della Beringia che non esisteva più, ma passando il braccio di mare dello stretto di Bering, gli Inuit o Esquimesi.

Solo che a questo punto i conti non tornano. Le tracce più antiche della presenza umana nel continente americano sembrerebbero risalire a circa 40.000 anni fa, un tempo doppio rispetto a quello del supposto arrivo dei primi paleo-amerindi e quasi triplo rispetto all’ondata degli amerindi veri e propri che sarebbe stata responsabile della maggior parte del popolamento precolombiano del Nuovo Mondo. C’è spazio per una storia che in gran parte non è stata scritta.

E’ perlomeno probabile che vi sia stato un popolamento del Nuovo Mondo diverso da quello arrivato dall’Asia orientale nelle quattro ondate sopra descritte, e i dati che lo suggeriscono sono emersi dall’archeologia, dallo studio dei manufatti litici.

Studiando gli attrezzi litici dell’età della pietra del continente americano, si incontra in primo luogo la cultura Clovis, così chiamata dal sito del Nuovo Messico dove per la prima volta questi manufatti furono rinvenuti nel 1929. Questi ultimi consistono in punte di lancia e di freccia di lavorazione raffinata (al punto che noi oggi, abituati agli utensili di metallo, ci stupiamo di cosa hanno saputo fare gli uomini preistorici con la pietra, con quanta abilità, precisione e senso estetico siano riusciti a lavorarla); la cultura Clovis si sviluppò attorno a 12.000 anni fa, e scomparve all’avvento della mini-età glaciale nota come Dryas superiore, finché 9.000 anni fa compare la cultura Folsom, derivata da essa, che è considerata quella che ha portato la lavorazione della pietra scheggiata al più alto livello di perfezione in assoluto, tra gli strumenti litici del Vecchio e del Nuovo Mondo.

Ebbene, a questo punto arriva la sorpresa, perché nel 1999 due archeologi dello Smithsonian Institute, Dennis Stanford e Bruce Bradley, si sono accorti che l’industria litica Clovis non presenta nessuna somiglianza con quella della Siberia da cui provengono gli antenati degli Amerindi, ed ha invece una somiglianza spiccata con un’industria litica europea, quella solutreana. Non basta. Sebbene il sito che ha dato il nome a questa cultura, Clovis, appunto, si trovi nel Nuovo Messico, la maggior parte dei siti in cui compaiono questi manufatti si trova nell’est degli attuali Stati Uniti, concentrata soprattutto attorno alla Chesapeake Bay, la grande baia che lambisce tre stati: Virginia, Delaware e Maryland, oltre al Distretto di Columbia: una disposizione che suggerisce una provenienza dal mare ed un irradiamento da est verso ovest.

Nell’età glaciale, argomentano Stanford e Bradley, il livello degli oceani era significativamente più basso di oggi a causa della grande quantità di acqua imprigionata sotto forma di ghiaccio sulle masse continentali, inoltre un’ininterrotta “linea costiera” di ghiacci si estendeva dalla sponda europea a quella americana dell’Atlantico inglobando l’Islanda e la Groenlandia.

Per dei cacciatori solutreani che si spostassero lungo di essa a bordo di canoe dando la caccia a foche ed altri animali marini, ipotizzano i due archeologi, raggiungere il Nuovo Mondo sarebbe stato tutt’altro che impossibile.

Questa antica presenza europide può aver lasciato delle tracce riscontrabili in epoca storica? Anche in questo caso, sembra proprio che si possa dare una risposta affermativa.

La più nota fra le tribù di “amerindi” bianchi dell’America settentrionale è stata probabilmente quella dei Mandan, oggi estinti come molti altri popoli americani nativi. Riguardo a costoro, si trova in internet un articolo, Il mistero degli indiani Mandan di Giuseppe Pirazzo e Francesco Vitale, di cui riporto un piccolo stralcio:

“A partire dal XVII secolo, vari esploratori vennero in contatto, nella regione dell’America Settentrionale corrispondente all’attuale stato del North Dakota, con una tribù di Indiani, i Mandan, aventi caratteristiche somatiche tipicamente europee (capelli biondi o rossi, occhi azzurri e pelle chiara)(…).

Questa tribù di Indiani non mancò di attirare la curiosità di tutti gli esploratori. Innanzi tutto avevano la pelle chiara; molti avevano gli occhi azzurri o grigi e alcuni avevano i capelli castani o rossi; i vecchi avevano i capelli bianchi, caratteristica insolita tra gli Indiani” (2).

Ma, ci spiegano Pirazzo e Vitale, le caratteristiche fisiche non erano le sole a distinguere i Mandan dagli altri amerindi: il loro stile di vita era diverso da quello dei nativi: vivevano in villaggi fortificati e praticavano l’agricoltura.

Purtroppo, verso la fine del XIX secolo i Mandan furono sterminati da un’epidemia di vaiolo, ma non erano la sola tribù di “indiani bianchi” delle Americhe.

Nello stesso articolo sui Mandan, Pirazzo e Vitale ricordano che anche:

“Gli Aracani, Indios della Bolivia, hanno caratteristiche somatiche molto vicine a quelle, indoeuropee, dei “bianchi”. Abitano nella città di Tiahuanaco, ma sono presenti, in minor numero, nelle zone bagnate dal Rio Guaporé, fiume che, presso il confine con il Brasile si unisce al Rio Beni, formando il Rio Madeira” (3).

Notiamo che si parla proprio di una popolazione che abita la zona dove si trova uno dei complessi archeologici in assoluto più antichi e misteriosi dell’America meridionale, Tiahuanaco, la “Stonehenge del Sud America” come è stata definita.

 Riguardo a questa presenza “bianca”, europide, caucasica nelle Americhe molti prima di Colombo e anche dei Vichinghi, cosa dicono i dati archeologici e paleoantropologici?

Su Wikipedia (voce “Nativi americani”), troviamo un’allusione alquanto sibillina riguardo a un argomento che avrebbe meritato ben altro approfondimento:

“Questa ipotesi [dell’origine siberiana dei primi abitatori delle Americhe] è stata contestata per il ritrovamento di scheletri con il cranio dai tratti caucasoidi e da molte altre ricerche archeologiche, linguistiche e di biologia molecolare” (4).

“Caucasoide” nel linguaggio dell’antropologia significa (affine a) caucasico, “bianco”, europide.

Fra tutti questi ritrovamenti imbarazzanti che contrastano con la versione ufficiale della storia dell’America precolombiana, quello forse balzato a maggiore notorietà (o meno sommerso dall’oblio) è stato probabilmente quello dell’uomo di Kennewick, un nativo americano vissuto circa 9.000 anni fa, i cui resti furono ritrovati nel 1998, appunto a Kennewick, località dello stato di Washington sulle rive del fiume Columbia, e si tratta di uno degli scheletri meglio conservati di antichi nativi americani di cui disponiamo.

Dalle analisi del cranio e dalla ricostruzione dei lineamenti facciali che sono state effettuate, è risultato non solo che l’uomo di Kennewick aveva lineamenti prettamente caucasici, ma è uscita anche una curiosa e certamente casuale somiglianza con un noto attore, Patrick Stewart, interprete di pellicole fantascientifiche come X-Men e Star Trek, The Next Generation dove ha interpretato il ruolo del comandante Jean Luc Picard.

Per quanto riguarda l’Asia abbiamo trovato quanto meno le tracce di un antico popolamento europide nel centro del grande continente, i cui elementi oggi più riconoscibili sarebbero le mummie di Cherchen, le iscrizioni nelle due varianti della lingua tocaria e le popolazioni relitto dei Kalash e degli Hunza, geneticamente affini a Italiani e Tedeschi, e i Kalash in particolare, ancora ostinatamente attaccati al loro paganesimo nativo, un’isola che cerca disperatamente di evitare la totale sommersione da parte della marea islamica. Sorprendentemente, abbiamo visto che le Americhe ci offrono prove ancora più evidenti, non soltanto di un’antichissima presenza europide, ma del fatto che essa sembra aver avuto un ruolo determinante nella nascita delle civiltà precolombiane, come testimoniano la leggenda azteca di Quetzalcoatl e quella incaica di Viracocha.

Possiamo andare ancora oltre e arrivare a generalizzare affermando che dovunque riscontriamo culture superiori, lì dobbiamo pensare alla presenza originaria di un elemento europeo, europide, caucasoide, “bianco” comunque lo si voglia definire?

Si tratta di un’ipotesi ardita, oltre che “politicamente scorretta” in una misura che più di così non potrebbe essere, tuttavia ci sono degli elementi a suo sostegno. Ad esempio, Silvano Lorenzoni ha preso in considerazione il fenomeno del megalitismo, delle misteriose costruzioni megalitiche diffuse in varie parti del mondo, nelle isole del Pacifico oltre che in Europa e nelle Americhe, ed ecco cosa ci dice in Involuzione, il selvaggio come decaduto:

“In tutto il Sud del Mondo si trovano tracce di civiltà arcaiche che niente ebbero a che vedere con i suoi attuali abitanti e neppure con i loro ipotizzabili antenati, fino a che ci si mantenga all’interno di periodi storici. Si tratta di costruzioni, espressioni artistiche impresse in pietra, artefatti di origine misteriosa (…).

Quanto alle costruzioni megalitiche nel Sud del Mondo, non solo non hanno niente a che vedere con gli abitanti delle zone dove adesso rimangono le loro rovine, ma questi spesso se ne tengono lontani perché potrebbero essere sedi di influenze magiche pericolose” (5).

Altro che “ex oriente lux”, “ex Europa lux” potrebbe essere la nostra  conclusione, a condizione di avere chiaro che “Europa” non deve essere intesa letteralmente come un territorio, quanto piuttosto un tipo antropologico, il tipo umano europide, “bianco”, quello stesso che oggi è minacciato nella sua stessa culla ancestrale da una senescenza artificialmente indotta, dall’immigrazione, dal meticciato.

Noi a volte stentiamo a renderci conto del fatto che quel che si è verificato nel nostro continente con la disfatta del 1945 non è stata “solo” la perdita dell’indipendenza politica, ma anche un immenso danno culturale, con il soffocamento di tutte le idee e la censura di tutti i fatti contrari al dogma democratico dell’uguaglianza degli uomini.

La realtà delle cose, tuttavia, ha la sgradevole tendenza a non conformarsi a ciò che gli uomini pensano o vorrebbero che fosse vero. Quando il tribunale dell’inquisizione costrinse Galileo ad abiurare l’astronomia copernicana, non per questo la Terra cessò il suo moto di rivoluzione, né il Sole si mise a girare intorno ad essa.

In modo del tutto analogo, i nemici dell’Europa oggi non possono impedire che nuove prove saltino continuamente fuori a smentire la visione delle cose che vogliono forzatamente imporci, che si tratti delle tavolette di Tartaria, dell’ascia dell’uomo del Similaun, delle mummie di Cherchen, dello scheletro dell’uomo di Kennewick. Come allora, come ai tempi di Galileo, le armi per combattere la verità sono la censura, la repressione, l’oblio delle prove. Per questo, la lotta per la conoscenza è nello stesso tempo la lotta per la libertà.

NOTE

1. Oswald Spengler: Albori della storia mondiale (Urfragen), Edizioni di AR, 1997.

2. Giuseppe Pirazzo e Francesco Vitale: Il mistero degli indiani Mandan, on line, www.farwest.it .

3. Ibid.

4. Wikipedia, voce: “Nativi americani”.

5. Silvano Lorenzoni: Involuzione, il selvaggio come decaduto, Edizioni Ghenos, Ferrara 2006.

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