9 Aprile 2024
Breviario Ribelle Società

Essere è difendersi – Roberto Pecchioli

Un commerciante veneto nel 2013 spara a uno dei ladri che hanno invaso la sua casa in piena notte. Lo ferisce e commette un reato: nella concitazione del momento, forse impaurito dalle conseguenze della legittima difesa di sé, della famiglia, dell’abitazione e dei suoi averi acquisiti con il lavoro, carica il malvivente albanese in macchina e lo abbandona a un chilometro da casa, dove viene poi soccorso da un passante. La mannaia della legge si abbatte su di lui con tutta la durezza del mondo al contrario: è condannato per tentato omicidio a quasi cinque anni di carcere. Dopo un’ interminabile odissea giudiziaria è arrestato e la sua famiglia perde il sostentamento.

 Nel novembre 2021 la moglie chiede la grazia, rifiutata dal presidente Mattarella dopo ventidue mesi . Al rapinatore , resosi irreperibile, è stata irrogata una pena inferiore alla sua – tre anni e otto mesi – e non ha scontato un giorno. Ha incassato un risarcimento in denaro dall’uomo di cui aveva invaso la casa (cornuto e mazziato…) non si è presentato al processo per falsa testimonianza sull’ identità dei complici e l’ha fatta franca in base alla recente riforma penale Cartabia. Molti gravi reati – tra i quali il furto e la falsa testimonianza – non sono più perseguibili d’ufficio, ma solo a querela di parte.

 Al lettore il giudizio sui fatti; non commentiamo la decisione di respingere la grazia. Nel reame repubblicano esprimere giudizi su atti o parole del presidente espone a conseguenze. Di certo serve una rivolta morale, non solo una profonda modifica delle leggi penali, figlie di un tempo folle e invertito, a partire dal diritto naturale all’autodifesa. Per lo scrittore e poeta spagnolo Ramiro De Maeztu “essere è difendersi”. Ovvero, la salvaguardia della vita e la sua tutela è il primo e il più ovvio dei diritti umani, che non può essere negato, limitato o delegato, neppure allo Stato. Essere è difendersi anche per le comunità e le nazioni. Difficile se l’entrata nel territorio di torme di giovani maschi provenienti dall’Africa non solo non viene contrastata, ma è proibito chiamarla con il suo nome, invasione. Abbattute le difese etiche, psicologiche e verbali, il gioco è fatto.

Nel mondo capovolto che ci è toccato in sorte, essere non è più difendersi e tra i diritti non figurano più la vita, la sicurezza, la difesa di sé, della famiglia, delle proprie cose. Non pochi ne sono addirittura soddisfatti: sono stati denaturati, sottoposti a un bombardamento culturale che ha estirpato orgoglio, senso di appartenenza, identità, il dovere – un punto d’onore, da sempre – di difendere ciò che è nostro. Nel caso della criminalità, ci viene detto da governi di ogni orientamento che il fenomeno non è grave, che la nostra è un’errata percezione di insicurezza alimentata da paure irrazionali diffuse ad arte. Lo dicessero alle donne aggredite, ai controllori dei mezzi pubblici intimiditi, agli anziani scippati della pensione, a chi teme a uscire di casa in quartieri non più suoi, passati alla criminalità o alla sostituzione etnica, altro concetto negato, come se i nostri occhi vedessero lucciole per lanterne.

La conseguenza è che bande multietniche spadroneggiano, mentre chi, aggredito in casa o nel proprio legittimo commercio, osa difendersi è messo sotto processo, rovinato, addirittura denunciato da delinquenti per ottenere risarcimenti, come se fosse il malcapitato ad aver invaso la proprietà e la famiglia altrui. Nella costituzione americana c’è un principio che condividiamo, quello del Secondo Emendamento: “essendo necessaria alla sicurezza di uno Stato libero una ben organizzata milizia, il diritto dei cittadini di detenere e portare armi non potrà essere infranto” . Risentiva del momento fondante della nazione, certo, ma riconosceva che non si è cittadini fino in fondo se non si partecipa direttamente alle istituzioni, una delle quali è la “ milizia”, ovvero la difesa in armi di sé e dello Stato.

Proteggere se stessi, i propri cari, il bene materiale più caro, la casa, è la premessa per costruire una comunità. La perdita di vigore morale fa dire alle maestrine della penna rossa che così si alimenta il Far West, stucchevole espressione priva di senso. Chi diffonde violenza, il cittadino che – faticosamente e dopo aver superato ostacoli burocratici di ogni genere – detiene legalmente un’arma , o le bande che minacciano, rapinano, uccidono , armate illegalmente? Chi viola il domicilio e terrorizza persone pacifiche – bambini compresi – i delinquenti di professione o chi si difende ?

Eppure, per una certa cultura chi si attrezza con un’arma per necessità difensiva in assenza del potere “legittimo” è un assassino potenziale, un carnefice strutturale in quanto tutela ciò che ritiene suo: vita, figli, famiglia, abitazione, lavoro. Questo pensa il pensiero “ buonista”, pronto a trovare attenuanti, esimenti, torti ancestrali subiti, colpe collettive nelle attività di chi delinque. L’esistenza dello Stato presuppone l’esclusiva nell’uso della forza , il monopolio della violenza legittima. Presuppone anche che il potere sia in grado di proteggere vita e interessi dei membri della società, stando risolutamente dalla parte delle persone pacifiche, laboriose, quella che una volta si chiamava gente per bene.

Uno Stato che non controlla il territorio e permette che le armi siano in mano dei mascalzoni non può perseguire chi è costretto a difendersi da sé. Se permette che bande di ladri o rapinatori possano addirittura pretendere risarcimenti per i danni riportati, il Far West è la legge. La legittima difesa è contemplata in ogni codice giuridico, un diritto naturale riconosciuto da ogni religione. Giusto sanzionarne gli eccessi; devo cercare di comprendere se la mia reazione è proporzionale all’offesa, ma come faccio a saperlo, dinanzi a chi entra in casa mia o nel negozio dove mi guadagno da vivere per derubarmi o rapinarmi?

Nel caso specifico, era inevitabile colpire l’ omissione di soccorso, ma qual era lo stato d’animo dell’aggredito? Anche su questo tema, vi è un’evidente discrepanza tra il senso comune e la legge. Il punto è dirimente: le democrazie sono orgogliose, a ragione, della “rule of law”, la forza impersonale e cogente della norma scritta. Le leggi, però, devono essere “giuste”, non solo promulgate secondo le procedure. Devono difendere il debole, non il prepotente o il delinquente, e non possono essere lasciate all’interpretazione di una casta di professionisti del diritto. Fu Adam Smith, venerato maestro del liberalismo, a teorizzare che le norme devono essere chiare, comprensibili alla persona comune.

La legittima difesa – in quanto diritto umano – non può essere vietata o limitata, se non da una sproporzione evidente tra offesa e difesa. A sua volta, il monopolio della forza legittima dello Stato non può diventare una modalità in più per depotenziare il senso di responsabilità di ciascuno verso se stesso e la comunità. Dinanzi all’ingiustizia e alla violenza , io, nei limiti del possibile, devo intervenire. E’ un dovere morale inderogabile. Se necessario, se riguarda la mia famiglia, il mio lavoro, la sopravvivenza della mia comunità, a rischio della vita. Questo sapevano – più o meno istintivamente – tutte le generazioni passate. Questo principio viene estirpato ogni giorno cambiando il nostro modo di essere, alimentando assurdi sensi di colpa, diffondendo un concetto di legalità sempre più lontano da quello di giustizia. La cultura dominante considera un male, un difetto da rieducare, ogni manifestazione di resistenza morale e di autodifesa, bollate come violenza o adesione a modelli del “buio” passato. I malintenzionati lo sanno e agiscono di conseguenza: non hanno sensi di colpa, non si curano della “nuova” cultura” se non per cogliere le opportunità che offre loro, sapendo di pagare un prezzo assai inferiore al male commesso. Il giusto, l’onesto, vive di scrupoli e di remore morali. La competizione è impari, se la regola della legge non pareggia il conto ponendosi al suo  fianco.

Temiamo che il fastidio per la volontà di difendersi sia un limite della democrazia rappresentativa, che finisce sempre per delegare azioni e responsabilità, generando indifferenza. Chi, se non il padre e la madre, è responsabile dell’educazione dei figli, della trasmissione dei valori sociali ed etici, chi, se non lo screditato ex capo famiglia, ha il dovere – e il diritto – di proteggere la sua gente e il frutto del suo lavoro?

Se la dimensione pubblica , la legge e la casta di chi la interpreta nel chiuso di un ufficio, al riparo dei pericoli, pieno di supponenza e talvolta di ideologia, di fatto sta dalla parte dei mascalzoni, la scelta è obbligata. O si accetta la situazione, diventando fiduciose, indifese  vittime potenziali ( talora applaudendo i carnefici) o si accetta la sfida e si impone alla politica di modificare i codici nella parte che – oltre il giusto garantismo – favorisce il disordine, il sopruso, la violenza.  Altrimenti, diventa necessario appellarsi a un altro diritto naturale conculcato, il diritto di resistenza che comprende l’autodifesa.

Chi si fa pecora, il lupo se la mangia. Quando però è il lupo a ottenere ragione, significa che è accaduto qualcosa di grave. Il monopolio della forza “legittima” vale sino a quando difende la vittima. Diventa principio astratto se non sa o non vuole agire; menzogna quando i suoi effetti colpiscono chi già subisce ingiustizia, rapina, intimidazione. In una comunità unita attorno a principi condivisi , il problema non si porrebbe: nessuno – tanto meno gli interpreti della legge – avrebbe dubbi sulla legittima difesa e nessun rapinatore avrebbe l’improntitudine – sostenuta dall’interpretazione di alcune norme – di pretendere l’indennizzo dalla vittima.  Non si può restare neutrali; non ci si può nascondere o lasciar fare. La fortezza morale, il coraggio, restano virtù, specie quando è in ballo chi amiamo e ciò che è legittimamente nostro. Nessuno ce ne può espropriare nascosto dietro le pieghe di codicilli e fumisterie. Né ci si stupisca se il libro del generale Vannacci diventa un successo editoriale. La rivolta del senso comune contro l’inversione del mondo.

Aveva ragione Antonio Gramsci nel lontano 1917. “Odio gli indifferenti. Credo che vivere voglia dire essere partigiani. Chi vive veramente non può non essere cittadino e partigiano. L’indifferenza è abulia, è parassitismo, è vigliaccheria, non è vita. (…) Ciò che succede, il male che si abbatte su tutti, avviene perché la massa degli uomini abdica alla sua volontà, lascia promulgare le leggi che solo la rivolta potrà abrogare, lascia salire al potere uomini che poi solo un ammutinamento potrà rovesciare. Tra l’assenteismo e l’indifferenza poche mani, non sorvegliate da alcun controllo, tessono la tela della vita collettiva, e la massa ignora, perché non se ne preoccupa; e allora sembra sia la fatalità a travolgere tutto e tutti, sembra che la storia non sia altro che un enorme fenomeno naturale, un’eruzione, un terremoto del quale rimangono vittime tutti, chi ha voluto e chi non ha voluto, chi sapeva e chi non sapeva, chi era stato attivo e chi indifferente. Alcuni piagnucolano pietosamente, altri bestemmiano oscenamente, ma nessuno o pochi si domandano: se avessi fatto anch’io il mio dovere, se avessi cercato di far valere la mia volontà, sarebbe successo ciò che è successo?”

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