11 Aprile 2024
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Dissacrazione e riconsacrazione del Cosmo – Riccardo Scarpa

Il millenovecento dell’êra volgare fu il secolo delle crisi e, tra queste, di crisi della sacralità. Molti intellettuali, allora, si fecero un vanto d’essere dei dissacratori. All’inizio del ventunesimo secolo non si può dire che la dissacrazione del mondo sia terminata; anzi, gli insorgenti fondamentalismi religiosi, coi loro strascichi terroristi, in fondo sono più dissacranti delle rispettive fedi di tanti altri pensieri e comportamenti, in quanto le riducono ad ideologie secolari e strumentali. L’eclisse del sacro, uscito pei tipi de’ i libri del Borghese in questo 2017 (€18,00), con una prefazione di Giuseppe Del Ninno ed una importante postfazione di Giovanni Sessa, è un dialogo su questa crisi fra Thomas Molnar ed Alain de Benoist, un cattolico conservatore ed un poligrafo il quale, a conti fatti, propone da anni la riconsacrazione del mondo col ritorno ad un politeismo che ripopoli il cielo e la terra col divino scacciatovi dai monoteismi. La difesa del sacro “cristiano” da parte di Thomas Molnar appare debole nell’impostazione e ricca di contraddizioni. Dopo aver presentato la sua conversione ad opera di madre Casey, un anziana religiosa di un collegio del Sacro Cuore a San Francisco, nel 1954, in pratica con una semplice mozione degli affetti, subito mostra una straordinaria incomprensione della sacralità non cristiana nel descrivere un suo soggiorno a Benares, illustrata come città santa dell’induismo, definita, per la miseria che vi vide e le scarse misure igieniche del vivere comune, col naso arricciato di un europeo benestante: «cloaca dell’esistenza». Una società considerata espressione di: «una religione che nega l’essere, che lo considera una cicatrice aperta nel nulla». Basterebbe un sociologo da quattro soldi per spiegare che le miserie e le indolenze degli orientali furono dovute ad una storia sociale ed economica più che spirituale e dell’anima, e che il colonialismo dei cristiani d’occidente ci mise del suo; ma qui ci preme quella svista, o quell’ignoranza, non in grado di comprendere proprio il nucleo della spiritualità vedica e vedantica, che è nell’intuizione dell’essere ben oltre la manifestazione fenomenica ed impermanente dell’esistenza. È proprio l’esistenza, che non è l’essenza delle cose ma la sua ingannevole parvenza materiale, ad essere: «una cicatrice aperta sul nulla». Del resto, questa è la prima di una serie di scivoloni che costellano il saggio di Thomas Molnar e le risposte alle domande a lui poste da Alain de Benoist. Egli ha ragione nel dire che il mito dei pagani si ripropone in un tempo sacro distinto ed altro dal tempo storico, ma da qui a dire che i precristiani non avessero una concezione della storia è dirla grossa.

Molti semplici ex alunni d’un buon ginnasio e liceo classico, con memoria di qualche versione da un brano di storiografia greca e latina, sanno come allora si distinguesse bene fra mito e storia, e quanto gli antichi avessero una concezione ciclica della storia, anche senza aver letto Il mito dell’eterno ritorno di Mircea Eliade (Roma, Borla editore, 1999). Che Thomas Molnar equivochi sul sacro pagano, che non gli appartiene, ancora passi; ma quando afferma che il cristianesimo, fondato sull’incarnazione del Λόγος in Gesù Cristo, abbia consacrato la storia e, perciò, sconsacrato l’eternità, mentre il mondo pagano avrebbe fatto dell’eternità il luogo sacro del mito e relegato la storia a cronaca profana, c’è da chiedersi se conosca le ragioni della condanna di Ario da parte di Atanasio, che gettò il fondamento ontologico dell’ortodossia cristiana consacrata nel simbolo, il credo di Nicea – Costantinopoli. In buona sostanza, Ario, teologo berbero del iv secolo, sostenne che siccome il Padre ha generato il Figlio lo ha creato, poiché prima verrebbe il Padre e poi, nella creazione, il Figlio. Questo, però, presuppone che vi sia un prima ed un dopo, cioè un tempo storico; ma il prologo dell’evangelo di Giovanni pone il Λόγος fuori dalla creazione, cioè dallo spazio tempo, e quindi in eterno, una dimensione senza spazio tempo, senza un prima ed un dopo, nel quale Dio si pone in eterno nelle tre ipostasi, nelle tre sussistenze fuori dal mondo fenomenico: Padre, Figlio e Spirito Santo. Come s’esprime il credo, il Figlio è: «generato e non creato». Il cristianesimo è incomprensibile proprio senza quella differenza fra eternità e storia, ed i suoi principî sono nell’eternità e non nella storia. Infondo, però, passare sotto silenzio questo serve a Thomas Molnar per rifiutare la definizione data da Friedrich Nietzsche, mai citato ma sempre presente nella sua polemica come il convitato di pietra di Don Giovanni, del cristianesimo come platonismo popolarizzato; un ponte non desiderato con la tradizione sacrale antica. La sua idea, poi, della concezione lineare e progressiva della storia, derivante dall’incarnazione in essa del Cristo è, poi, comune con quella che ne ebbe, da noi in Italia, nel secolo xix, Cesare Balbo; ma in Balbo essa coincide, più coerentemente, con la Provvidenza, come in Alessandro Manzoni, e fonda l’adesione d’entrambi, con Niccolò Tommaseo, Antonio Rosmini ed altri, al liberalismo ed, in prospettiva, alla democrazia. Tutte cose nelle quali, invece, Thomas Molnar, contraddittoriamente, vede il diavolo in agguato; agguato nel quale sarebbero caduti Paolo vi ed il Concilio Vaticano ii. Contraddittoriamente, perché o la storia è consacrata dal Cristo, ed allora và accettata come Provvidenza; o è diabolica ed allora và rigettata come regno del male. Però, in questo secondo caso, Molnar aderirebbe ad una gnosi dualista, che invece egli condanna; senza distinguerla dalla gnosi unitaria, quella benedetta dalla chiesa cattolica ed ortodossa quando definiscono il cristianesimo: «vera gnosi». Le incoerenze di Thomas Molnar sono dovute, probabilmente, solo ad una cosa: convinto che non vi sia salvezza fuori da Santa Romana Chiesa, non solo non ha approfondito le altre manifestazioni del Sacro e le giudica con una certa superficialità, ma anche del Cristianesimo non conosce i padri, l’ortodossia, ma soltanto la chiesa latina, con le sue polemiche conciliari del millenovecento e nella plurisecolare disputa antiprotestante. Rifiuta, però, la conseguenza di tutto questo, cioè l’Occidente liberale. Più coerente, almeno con sé medesimo, Alain de Benoist. Egli aderisce al distinguo della tradizione fra sacro e divino: la parola dio, dal radicale indoeuropeo dyu, indica una manifestazione celeste, un aspetto della sacralità come la luce di quel cielo; di tal che lungi, dall’essere il mondo oggetto degli dèi, sono gli dèi emanazione di quella luce e soggetti al cosmo ed alle sue leggi, Senofone di Colofone pone la Deità al di sopra degli dèi; in Aristotele essa è il motore eterno del mondo e non il suo creatore o riordinatore. Queste cose sono compito di un demiurgo diverso dal principio, dall’Uno di Plotino che emana l’irradiazione.

Con ciò de Benoist non solo e non tanto è capace di rendere ragione dei pluralismi politeisti, ma anche, a bel vedere, della natura profonda del cristianesimo. Esso, infatti, è intuizione trinitaria dell’Uno come eterne sussistenze fuori dal mondo fenomenico, che emanano questo mondo attraverso il principio eterno d’una pura vibrazione cosciente, il Λόγος riordinatore del cosmo e lo spirito vivificante dall’interno dell’atomo sino alle consapevolezze minerali vegetali umane e sovraumane. In sostanza, tale colloquio sull’eclisse del sacro, mostra l’incomprensione di Thomas Molnar per forme di sacralità diverse non dalla cristiana, ma dalla sua idea di quella cristiana, a confronto con un Alain de Benoist che intuisce il sacro nella sua universalità e comprende perfettamente le diverse forme di esso, anche se poi, si potrebbe dire per gusti personali, elegge una sua concezione politeista.

Riccardo Scarpa

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