9 Aprile 2024
Economia Marino Pensioni Politica

Demagogia rossa sulle pensioni

Di Enrico Marino

Il 25 aprile del 2012 Mario Monti visitò a Roma il Museo storico della Liberazione in via Tasso, parlò dei sacrifici necessari per realizzare “un’Italia migliore, più dinamica, più giusta” e affermò che c’era bisogno “di rigenerare un’esperienza di liberazione, meno drammatica certo, ma di liberazione da alcuni modi di pensare e vivere a cui ci eravamo abituati e che impedivano al Paese di proiettarsi nel futuro […] Non esistono scorciatoie o facili vie d’uscita per liberarci da questa fase di crisi che è il frutto amaro di un lungo periodo in cui il sistema politico ci ha illusi di poter vivere al di sopra delle nostre possibilità”.

In sostanza, l’Italia è vissuta di debiti (né più né meno di altri però: il Giappone ad esempio ha un debito pubblico che, in rapporto al Pil, è quasi il doppio del nostro eppure sta molto meglio di noi), ma quello che ci ha rovinati sono gli interessi sul debito. E’ per pagare quegli interessi che i Professori ci hanno spillato lacrime e sangue, peraltro senza che il debito sia diminuito, anzi il rapporto debito-Pil ha continuato ad aumentare.

Ma il tasso d’interesse, è alto in quanto l’Unione Europea ha deciso che esso debba essere determinato dai Mercati e non dagli Stati, nella convinzione che proprio i mercati ci condurranno verso il migliore dei mondi possibili. Proprio come stiamo giusto constatando.

Dunque per accontentare i Mercati, Monti prima e Letta poi ci hanno “liberati” di numerose certezze pensionistiche, dell’articolo 18 e di un tenore di vita discreto, regalandoci una crescente pressione fiscale e una disoccupazione che aumenta anch’essa per via della torchiatura con cui paghiamo gli interessi sul debito. Quel 25 aprile Monti mise le certezze e il dignitoso benessere che abbiamo perduti (e che probabilmente perderemo ulteriormente) sullo stesso piano del fascismo. Parlò infatti in tutti e due i casi di “liberazione”. E infatti tanto la liberazione del 25 aprile 1945 quanto la sua liberazione ci hanno elargito l’una una fasulla e arbitraria democrazia e l’altra la dittatura del mercato.

Ora con l’avvento di Renzi e di una fasulla retorica solidarista e livellatrice le pensioni continuano a essere oggetto di interventi arbitrari col coinvolgimento, di quelle superiori ai 2000 euro mensili, in un’improbabile operazione redistributiva di ricchezza e sacrifici.

Gli albori delle “pensioni” si ebbero sotto il governo Giolitti del novembre 1903 – marzo 1905. In quel periodo furono varate norme a tutela del lavoro (in particolare infantile e femminile) e sulla vecchiaia, sull’invalidità e sugli infortuni. In verità, il sistema italiano della previdenza sociale sorse nel 1898 con la costituzione della Cassa nazionale di previdenza per l’invalidità e la vecchiaia degli operai (CNAS).

Si trattava però di una assicurazione volontaria, finanziata dai contributi pagati dai dipendenti, ed integrata dall’intervento statale e da versamenti volontari dei datori di lavoro. Non essendo obbligatoria, nei primi anni riscosse un consenso molto limitato, per cui gli enti governativi furono costretti a introdurre l’obbligatorietà prima per i dipendenti pubblici, nel 1904, poi per i ferrovieri, nel 1910. Fu poi estesa a tutte le categorie lavorative nel 1919, quando nacque la “Cassa Nazionale per le Assicurazioni Sociali”, ovvero la CNAS, sotto il governo Orlando, che assicurava pensioni di vecchiaia e di invalidità. Poi nel periodo fascista il sistema di previdenza fu migliorato e potenziato. Nel 1924 fu costituito l’antenato del TFR (Trattamento di fine rapporto), cioè un’indennità da concedere, in questo caso, solamente al lavoratore licenziato.

Nel 1933 la CNAS assunse la denominazione di Istituto Nazionale Fascista della Previdenza Sociale, costituito in ente di diritto pubblico dotato di personalità giuridica e a gestione autonoma. Nel 1935 l’intera normativa pensionistica venne unificata in un unico decreto legislativo, che resterà un punto di riferimento fino ai giorni nostri. Una novità introdotta da Mussolini fu l’istituzione, nell’aprile 1939, della pensione di reversibilità, cioè la parte della pensione spettante ad uno dei due coniugi alla morte dell’altro. Altri interventi del legislatore ampliarono in modo significativo i compiti dell’Istituto, cui fu attribuita la gestione dei primi interventi a sostegno del reddito (assicurazione contro la disoccupazione, assegni familiari, integrazio
ni salariali per i lavoratori sospesi o ad orario ridotto). Sempre nel 1939 i limiti di età per andare in pensione vennero fissati a 60 anni per gli uomini e 55 per le donne.

Nel 1942 l’indennità in caso di licenziamento, introdotta nel 1924, venne trasformata in indennità di anzianità da riconoscere al lavoratore in proporzione al salario e agli anni di servizio.

Da questo sommario quadro emerge comunque l’impostazione fascista della pensione intesa come accumulazione di ricchezza, attraverso il versamento dei contributi, a garanzia e tutela del lavoratore, per limitarne lo stato di necessità (in quanto soggetto privo di risorse economiche autonome) nei confronti del datore di lavoro e dello Stato stesso.

In quest’ottica la previdenza ha una natura essenzialmente privatistica perché costituita col versamento e l’accumulazione, negli anni di lavoro, di contributi personali. Ne consegue che la pensione rappresenta una forma di salario differito, cioè l’accumulazione di risorse a sostentamento del lavoratore che abbia smesso di lavorare e di percepire un salario. Un’accumulazione che il lavoratore realizza con denaro proprio e che sostanzia perciò, a fine rapporto, quel pieno diritto di proprietà sulla propria pensione che eticamente, socialmente e giuridicamente legittima il lavoratore, lo esime dall’obbligo di dipendere in perpetuo dal datore di lavoro e lo sottrae all’ingerenza del potere.

A fondamento dell’ipotesi di un contributo di solidarietà a carico delle pensioni c’è, invece, la concezione renziana che il sistema previdenziale abbia la stessa funzione che gli assegna l’ideologia livellatrice comunista.

Per un comunista, infatti, previdenza e assistenza hanno la medesima natura pubblicistica perché entrambe sono manifestazione della funzione pubblica statalista e, pertanto, sono assimilabili e interscambiabili in funzione redistributiva della ricchezza.

E’ la stessa mentalità che ha portato allo snaturamento e alla devastazione dell’INPS la cui dissennata gestione ha utilizzato in funzione assistenziale, cioè per fronteggiare bisogni che dovrebbero essere invece soddisfatti facendo ricorso alla fiscalità generale, i fondi rivenienti dal versamento dei contributi dei lavoratori (e neppure di tutti).

Per il comunismo previdenza e assistenza sono identificabili perciò la pensione non è un diritto di proprietà del lavoratore, ma una variabile del sistema di redistribuzione della ricchezza che lo Stato, in nome della giustizia sociale, sottrae arbitrariamente a un pensionato, confiscandogli con ciò una porzione di proprietà, per assegnarla a qualcun altro (che non se l’è creata).

E’ anche per questo che il lavoratore nello Stato comunista non è mai un individuo libero, nella sua dignità e indipendenza personale, ma un eterno succube, un assistito che sopravvive grazie alla carità pubblica di un Ente paternalistico e dirigista. Non bastassero i problemi che creano la UE, la BCE, la finanza e la globalizzazione, dobbiamo seriamente pensare a difenderci anche dalle insidie sempre presenti nelle concezioni distorte del socialismo soft e giovanilistico della nuova icona dei progressisti di casa nostra.

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