19 Luglio 2024
Filosofia romana

Commento a Cicerone – Diego Fusaro

L’opera filosofica e il pensiero.

L’anti-epicureo Cicerone fu filosofo che compose molti libri, scritti in gran parte nell’arco di due anni, tra il 46 e il 44 a.C., quando la vittoria di Cesare lo costrinse a tenersi lontano dalla vita politica e la morte della figlia Tullia lo spinse a cercare nella filosofia una medicina dell’animo. Cicerone era stato uno dei protagonisti delle convulse lotte politiche della prima metà del primo secolo a.C.; nel momento in cui venne costretto a un ozio forzato, egli scrisse di filosofia, ma anche allora per lui la politica rimase la dimensione fondamentale della vita. Infatti, una delle ragioni della sua condanna dell’epicureismo è anche l’apoliticità di questa scuola. I contenuti degli scritti filosofici di Cicerone non sono radicalmente nuovi rispetto a quelli elaborati dalla tradizione filosofica greca; egli, infatti, condivide con buona parte degli uomini colti del suo tempo l’idea che le alternative filosofiche fondamentali siano già date. Il problema non è dunque quello di trovare nuove filosofie o nuove basi teoriche, in base alle quali organizzare la propria vita, la tradizione filosofica ha già provvisto a costruire queste basi. Si tratta soltanto di saggiarle e renderle operanti, oltre che preliminarmente accessibili ad un pubblico di lingua latina. Di qui l’importante lavoro linguistico compiuto da Cicerone, al quale la tradizione filosofica occidentale deve l’introduzione di termini come moralis, qualitas, notio e così via. Lo strumento letterario di cui Cicerone si avvale nella sua opera di diffusione della filosofia greca non è la poesia, ma il dialogo. Esso gli consente di esporre argomentazioni opposte, pro e contro una determinata tesi. Così avviene per i problemi gnoseologici negli Accademici, che ci sono giunti incompleti, per i problemi fisico/teologici in Sulla natura degli dei, Sulla Divinazione, Sul fato, e, per quelli etici, nelle Dispute tusculane e Sui termini estremi dei beni e dei mali. Il modello è dato dalla pratica giudiziaria, nella quale le parti contendenti si affrontano davanti ai giudici.

Il pubblico a cui Cicerone si rivolge è il giudice che deve pronunciare il verdetto, dopo aver ascoltato le argomentazioni pro e contro presentate dai protagonisti del dialogo. Si tratta della tecnica di discussione tipica dell’Accademia scettica, da Arcesilao a Carneade, che anche Cicerone fa propria, in quanto gli appare più consona ad un atteggiamento libero. Le altre scuole filosofiche, soprattutto la stoica e l’epicurea, chiedono ai loro adepti un asservimento totale nei confronti del patrimonio dottrinale della scuola; la filosofia dell’Accademia, invece, lascia liberi, secondo Cicerone, di formulare il giudizio dopo aver ascoltato le parti contendenti. Solo al confronto tra tesi opposte si può sperare di ricavare qualcosa che sia almeno vicino al vero, ossia il probabile, ciò che può essere saggiato e approvato. Sullo sfondo di queste tesi si staglia la figura del romano di ceto elevato, che non può asservirsi ai dettati di una scuola né praticare la filosofia come un’attività professionale in competizione con dei rivali. All’autorità della scuola, Cicerone oppone il giudizio libero, corroborato dalla tradizione romana e dai valori impliciti in essa: i filosofi greci in contrasto tra loro trovano così i veri arbitri in Roma, in filosofi liberi dai vincoli di scuola. Diversa appare l’impostazione degli scritti ciceroniani Sulla repubblica e Sulle leggi, pervenuteci incompiuti, e della sua ultima opera Sui doveri, ove, anzichè presentare e discutere tesi contrapposte, si espongono dottrine positive sulla preferibilità della costituzione mista, sulle leggi, sulle varie occupazioni confacenti alle funzioni e al rango occupato da ciascuno nella società. Ma in queste opere, che pure attingono al patrimonio concettuale dei filosofi, soprattutto di Platone, domina Roma con le sue istituzioni e i suoi valori. In questo caso non c’è più spazio per tesi contrapposte; occorre invece far emergere l’immagine totalmente positiva dei costumi antichi e della concordia tra i ceti, cardini della grandezza di Roma oltre che modello e programma politico anche per il presente. Nelle pagine di Cicerone antichi personaggi romani, come Catone o Scipione, diventano eroi filosofici : non è necessario essere filosofi di professioni per non temere la morte. A proposito dell’attività politica del popolo romano nel suo complesso, essa è rappresentata nella Repubblica come una”sapientia”che si è realizzata in leggi e istituzioni, più che in parole, come era avvenuto in Grecia. Lo scritto Sui doveri, poi, si presenta come una sorta di lunga lettera indirizzata al figlio Marco, con esplicito intento pedagogico. Qui Cicerone, ispirandosi in parte a Panezio, si appropria di una forma rielaborata e addolcita di stoicismo, spogliata dai paradossi tipici di questa scuola. Egli sostiene che sui problemi dei comportamenti da assumere nella vita quotidiana non è possibile rinviare il giudizio o abbracciare posizioni scettiche, tanto meno contrapporsi ai valori diffusi; la soluzione più adeguata gli appare consistere in un giusto contemperamento di virtù e utilità. Esaminiamo ora più nel dettaglio gli scritti filosofici dell’Arpinate. Innanzitutto, va detto che gran parte dell’opera di Cicerone è pervasa da un difficile tentativo di ricerca di un complesso equilibrio tra istanze di ammodernamento e necessità di conservazione dei valori tradizionali. Dietro la vicenda intellettuale dell’Arpinate si profila una società attraversata da spinte contrastanti, spesso laceranti: l’afflusso di ricchezze dai paesi conquistati ha da tempo reso anacronisticamente improponibile la rigida moralità delle origini; ma il veloce distacco dalle virtù e dai valori che avevano fatto la grandezza di Roma mette ora in forse la stessa sopravvivenza dello stato repubblicano. D’altronde lo scopo stesso delle sue opere filosofiche è dare una solida base ideale, etica, politica a una classe dominante (gli optimates) il cui bisogno di un ordine non si traduca in ottuse chiusure, cui il rispetto per la tradizione nazionale (mos maiorum) non impedisca l’assorbimento della cultura greca; una classe che l’assolvimento dei doveri verso lo Stato non renda insensibile ai piaceri di un otium nutrito di arti e letteratura, né, in generale, di quello stile di vita garbatamente raffinato che riassume il termine di humanitas.

Quella di Cicerone, chiaramente, rimane un’ottica di parte, legata al progetto di egemonia di un blocco sociale (sostanzialmente i ceti possidenti) : egli è fermamente contrario a qualsiasi progetto di redistribuzione delle terre pubbliche e di sgravio dei debiti, Cicerone scorge la via d’uscita dalla crisi che minaccia la repubblica nella concordia dei ceti abbienti, senatori e cavalieri (concordia ordinum). La sua, in fin dei conti, è e rimane una natura moderata in campo politico. In un secondo tempo, però, Cicerone espone una nuova versione della propria teoria sulla concordia dei ceti abbienti. In quanto semplice intesa tra il ceto senatorio ed equestre, la concordia ordinum si era rivelata fallimentare: Cicerone ne dilata ora il concetto in quello di consensus omnium bonorum, cioè la concordia attiva di tutte le persone agiate e possidenti, amanti dell’ordine sociale e politico, pronte all’adempimento dei propri doveri nei confronti della patria e della famiglia. Il dovere dei boni è quello di non rifugiarsi egoisticamente nel perseguimento dei propri interessi privati a discapito di quelli pubblici: essi devono fornire un sostegno attivo agli uomini politici che rappresentano la loro causa.

Il progetto di concordia dei ceti abbienti, nelle due diverse formulazioni che Cicerone ne diede, significò in ogni caso un tentativo almeno embrionale (è ovvio che i boni preferirono in ogni caso tutelare i propri interessi) di superare in nome del superiore interesse della collettività, la lotta tra i gruppi e le fazioni all’epoca dominanti la scena politica romana. Tuttavia il pensiero politico ciceroniano comprende anche altre questioni: da tempo si dibatteva in Grecia se l’oratore dovesse accontentarsi della conoscenza di un certo numero di regole retoriche o gli fosse invece necessaria una vasta cultura nel campo del diritto, della filosofia e della storia.

In gioventù Cicerone aveva iniziato, senza portarlo a termine, un trattatello di retorica, il De inventione (inventio indica il reperimento dei materiali da parte dell’oratore). Un interesse particolare riveste il proemio, dove il giovane avvocato si pronuncia in favore di una sintesi di eloquenza e sapientia (cioè cultura filosofica), quest’ultima ritenuta necessaria alla formazione della coscienza morale dell’oratore: l’eloquenza priva di sapientia ha portato più volte gli stati in rovina. La soluzione ciceroniana è pensata esplicitamente per la società romana: molti anni dopo egli ritorna sulle stesse tematiche nel De oratore, una delle sue opere”più curate”. Composto nel 55, durante un periodo di ritiro dalla vita politica, mentre Roma era travagliata dalle bande di Clodio e di Milone, è ambientato nel 91, al tempo dell’adolescenza di Cicerone; sotto forma di dialogo (sulle orme di Platone) vi prendono parte alcuni fra i più insigni oratori dell’epoca, fra i quali spiccano Marco Antonio (143 – 87 a.C.), nonno del triumviro che fece uccidere l’Arpinate, e Lucio Licinio Crasso, portavoce del pensiero di Cicerone stesso. Nel I libro Crasso sostiene, per l’oratore, di una vasta formazione culturale. Antonio gli contrappone l’ideale di un oratore più istintivo e autodidatta, la cui arte si fondi sulla fiducia nelle proprie doti naturali, sulla pratica del foro e sulla dimestichezza con l’esempio degli oratori precedenti. Nel II libro si passa alla trattazione di questioni più analitiche, ed Antonio espone i problemi concernenti la inventio (la raccolta di materiale), la dispositio (l’organizzazione del materiale) e la memoria (l’insieme delle tecniche per memorizzare i concetti). Compare anche un personaggio spiritoso e caustico, Cesare Strabone, al quale è assegnata una lunga e piacevole digressione sulle arguzie e i motti di spirito. Nel III libro Crasso discute le questioni relative alla elocutio e alla pronuntiatio, cioè in genere all’actio (recitazione) dell’oratore, non senza ribadire la necessità di una vasta cultura generale e della formazione filosofica. La scelta del 91 per l’ambientazione del dialogo ha un preciso significato: è l’anno stesso della morte di Crasso e precede di poco la guerra sociale e i lunghi conflitti civili tra Mario (l’homo novus) e Silla, nel corso dei quali soccomberanno crudelmente alcuni altri degli interlocutori principali, fra cui lo stesso Antonio. La crisi dello stato è un’ossessione incombente su tutti i partecipanti al dialogo e stride volutamente con l’ambiente sereno e raffinato in cui essi si riuniscono per tenere le loro conservazioni, la villa tuscolana di Crasso. La consapevolezza della terribile fine di tutti i partecipanti al dialogo conferisce una nota tragica ai proemi che precedono i singoli libri. Cercando di conservare la verosimiglianza della caratterizzazione dei propri personaggi, Cicerone si è sforzato di ricreare l’atmosfera degli ultimi giorni di pace dell’antica repubblica. Il modello a cui si ispira è sostanzialmente quello del dialogo platonico: con gesto aristocratico, alle strade e alle piazze di Atene viene tuttavia sostituito il giardino della villa di campagna di un nobile romano. A sintetizzare la tesi principale di tutta l’opera potrebbe valere un’espressione di Sulpicio, uno dei partecipanti al dialogo:”non l’eloquenza è nata dalla teoria retorica, ma la teoria retorica dall’eloquenza”. Si richiede quindi una vasta preparazione culturale (soprattutto filosofica – morale) all’oratore: bisogna che egli sia versatile, abile a sostenere il pro e il contra su qualsiasi argomento, riuscendo sempre a convincere e a trascinare il proprio uditorio; ma questo di per sè non basta : il tutto deve essere accompagnato dalla virtus, la quale deve mantenere l’intero sistema oratorio ancorato all’apparato dei valori tradizionali, in cui la”gente perbene”si riconosce. Crasso insiste perché probitas (integrità) e prudentia (saggezza) siano saldamente radicate nell’animo di chi dovrà apprendere l’arte della parola: consegnarla a chi mancasse di queste virtù sarebbe come mettere delle armi nelle mani di forsennati. La formazione dell’oratore viene quindi a coincidere con quella dell’uomo politico della classe dirigente. Egli dovrà servirsi della sua abilità oratoria non per blandire il popolo copn proposte demagogiche, ma per piegarlo alla volontà dei boni. Nel 46 Cicerone riprese le tematiche del De oratore in un trattato più esile, l’Orator, aggiungendovi una sezione sui caratteri della prosa ritmica. Disegnando il ritratto dell’oratore ideale (come Platone aveva tratteggiato le figure del sofista e del politico), l’Arpinate sottolinea i tre fini ai quali la sua arte deve indirizzarsi: probare (argomentare la propria tesi), delectare (produrre un effetto piacevole sull’uditorio), flectere (muovere le emozioni tramite il pathos). Ai tre fini corrispondono i tre registri stilistici che l’oratore dovrà sapere alternare: umile, medio, e elevato o”patetico”. Nel 44, poi, Cicerone compone i Topica, ispirati all’opera omonima di Aristotele, i quali trattano dei topoi, i luoghi comuni ai quali può far ricorso l’oratore alla ricerca degli argomenti da sviluppare nel discorso. Ma possono farvi ricorso anche i filosofi, gli storici e i giuristi. Il modello del dialogo platonico ritorna poi, con maggiore evidenza, nel De re publica, al quale Cicerone si dedicò assiduamente fra il 54 e il 51. Non cercò, tuttavia, di costruire a tavolino uno stato ideale, come Platone aveva fatto nella sua “Repubblica”: con gesto che gli diventava sempre più consueto, l’Arpinate si proiettò nel passato, per identificare la migliore forma di stato nella costituzione romana del tempo degli Scipioni. Il dialogo si svolge nel 129, nella villa suburbana di Scipione Emiliano, che con l’amico e collaboratore Lelio è uno dei principali interlocutori. La ricostruzione della trama è purtroppo resa fortemente ipotetica, soprattutto per alcune sezioni, dalle condizioni estremamente frammentarie in cui il dialogo ci è stato conservato. Nel I libro Scipione parte dalla dottrina aristotelica delle 3 forme fondamentali di governo (monarchia, aristocrazia, democrazia) e della loro necessaria degenerazione nelle forme estreme, rispettivamente della tirannide, della oligarchia e della olocrazia (governo della “feccia” del popolo). Scipione mostra come lo stato romano dei maiores (gli antenati) si salvasse da quella necessaria degenerazione per il fatto di aver saputo contemperare le tre forme fondamentali: l’elemento monarchico si rispecchia nell’istituzione del consolato, l’elemento aristocratico nell’istituzione del senato, l’elemento democratico nell’istituzione dei comizi. Il libro II si occupa della costituzione romana, mentre il III tratta della iustitia, ed è in larga parte dedicato a un tentativo di confutazione dell’acutissima critica che l’accademico Carneade aveva svolto dell’imperialismo romano : la critica si incentrava soprattutto sul concetto di “guerra giusta”, ricorrendo al quale i Romani, col pretesto di soccorrere i loro alleati, (cioè sudditi) in difficoltà, avevano progressivamente esteso il proprio dominio ed ampliato la propria sfera d’influenza. Il IV libro si occupa dell’educazione dei cittadini e dei princìpi che devono regolare i loro rapporti. Nei libri IV e V Cicerone introduceva la figura del rector et gubernator rei publicae (rettore e governatore dello stato) o princeps. Nel VI libro il dialogo si conclude con la rievocazione, da parte di Scipione l’Emiliano, del sogno in cui tempo addietro gli era apparso l’avo, Scipione Africano, per mostrargli, dall’alto del cielo, la piccolezza e l’insignificanza di tutte le cose umane, anche della gloria terrena, e rivelargli tuttavia la beatitudine che attende nell’aldilà le anime dei grandi uomini di stato: questa parte, che costituisce la sezione finale dell’opera, va generalmente sotto il nome di Somnium Scipionis. La
teoria del regime misto cui si appella Scipione risaliva agli stessi Platone (vedi le Leggi) e Aristotele. Quando si parla del princeps bisogna stare attenti a non farsi trarre in inganno: il singolare si riferisce al “tipo” dell’uomo politico eminente, non alla sua unicità (come invece sarà invece per Macchiavelli); in altre parole, l’Arpinate sembra pensare ad una cerchia ristretta di personaggi eminenti che si ponga alla guida del senato e dei boni e si raffigura probabilmente il ruolo di princeps sul modello di quello che nella repubblica romana aveva ricoperto proprio Scipione Emiliano. Il princeps dovrà armare il proprio animo contro tutte le passioni egoistiche, principalmente contro il desiderio di potere e di ricchezza: è questo il senso del disprezzo verso tutte le cose umane che il Somnium Scipionis addita ai reggitori dello stato. Cicerone disegna così l’immagine di un dominatore – asceta, rappresentante in terra della volontà divina, rinsaldato nella dedizione al servizio verso lo stato dalla sua despicentia verso le passioni umane. L’ideale ciceroniano era tuttavia difficilmente realizzabile: probabilmente proprio la convinzione della necessità di un governo di maggiore autorevolezza, e d’altra parte la consapevolezza dei pericoli che comportava l’accentramento di enormi poteri nelle mani di pochi capi, spinsero Cicerone a tentare un avvicinamento a Pompeo e ai triumviri, nella speranza di mantenere l’operato sotto il controllo del senato.

Ispirandosi ancora al modello di Platone che alla Repubblica aveva fatto seguire le Leggi, l’Arpinate completò il dialogo sullo stato col De legibus, iniziato nel 52 e probabilmente non pubblicato durante la sua vita. L’azione stavolta non è posta in un’epoca passata, ma nel presente, e interlocutori sono lo stesso Cicerone, il fratello Quinto, e il grande amico Attico. L’ambientazione è nella villa di Cicerone ad Arpino e nei boschi delle campagne circostanti, raffigurati secondo una modulazione del motivo del locus amoenus che ha il suo modello soprattutto nel Fedro di Platone. Quinto è tratteggiato come un ottimate estremista, Cicerone come un conservatore moderato, Attico come un epicureo che quasi si vergogna delle sue scelte filosofiche. Nel libro I Cicerone espone la tesi stoica secondo la quale la legge non è sorta per convenzione, ma si basa sulla ragione innata in tutti gli uomini ed è perciò data da Dio. Nel libro II l’esposizione delle leggi che dovrebbero essere in vigore nel migliore degli stati si basa non su una legislazione utopica (alla Platone) ma sulla tradizione legislativa romana, che ha i suoi punti di riferimento nel diritto pontificio e sacrale. Nel libro III Cicerone presenta il testo delle leggi riguardanti i magistrati e le loro competenze. In gioventù l’Arpinate aveva seguito le lezioni dei filosofi più diversi, e ad interessarsi di filosofia continuò per tutta la vita: a scriverne, tuttavia, iniziò solo nel 46, con l’operetta sui Paradossi degli Stoici, dedicata a Marco Bruto e incentrata soprattutto sull’esposizione delle tesi stoiche maggiormente in contrasto con l’opinione comune. Ma è nel 45 che i lavori filosofici si infittiscono in maniera incredibile in coincidenza con eventi dolorosissimi nella vita di Cicerone, quali la morte della figlia Tullia. L’Hortensius, perduto, era un’esortazione alla filosofia, sul modello del Protrettico di Aristotele. Gli Academica, che trattavano i problemi gnoseologici, ebbero una duplice redazione: la prima, i cosiddetti Academica priora, in due libri; la seconda, gli Academica posteriora, in quattro libri.

Il De finibus bonorum et malorum (I limiti del bene e del male) è da alcuni considerato il capolavoro filosofico di Cicerone: tratta questioni etiche, e cioè il problema del sommo bene e del sommo male, che è affrontato in 5 libri, comprendenti 3 dialoghi. Nel primo è esposta la teoria degli epicurei, cui segue la confutazione ciceroniana; nel secondo si mette a confronto la teoria stoica con le teorie accademica e peripatetica; nel terzo è esposta la teoria eclettica di A. Ascalona, maestro di Cicerone e di Varrone, la più vicina al pensiero dell’autore. Ancora di questioni etiche tratta un’altra fra le maggiori opere filosofiche ciceroniane e certo la più appassionata, le Tusculanae disputationes, dedicate anch’esse a Bruto e ambientate nella villa di Cicerone a Tuscolo. L’opera, in 5 libri, che segna il massimo avvicinamento dell’Arpinate alle tesi propugnate dagli stoici, è condotta in forma di dialogo tra Cicerone e un anonimo interlocutore. Nei singoli libri sono trattati, rispettivamente i temi della morte, del dolore, della tristezza, dei turbamenti dell’animo e della virtù come garanzia della felicità : siamo dunque di fronte ad una grande summa dell’etica antica. Nelle Tusculanae l’Arpinate cerca una risposta ai suoi personali interrogativi, una soluzione ai suoi dubbi: di qui la profonda partecipazione emotiva dell’autore agli argomenti trattati.

Di argomenti religiosi e teologici trattano tre dialoghi, il De natura deorum, in 3 libri, anch’esso dedicato a Bruto; il De divinatione, in 2 libri, e il De fato giuntoci incompleto. Le due ultime opere sono presentate esplicitamente dall’autore come integrative e complementari rispetto alla prima. Nelle opere filosofiche Cicerone viene ripesando tutto il corpus di metodi e teorie cresciuto entro le scuole ellenistiche. L’impegno ciceroniano nell’attività filosofica è soprattutto moralistico, e non dimentica i doveri del cittadino al servizio dello stato. Interessante in questi dialoghi è il ricercare sempre la conseguenza pratica, la ricaduta in termini di azione e partecipazione politica a cui possono portare le teorie filosofiche : si tratta di ricucire le membra lacerate del pensiero ellenistico per trarne fuori una struttura ideologica efficacemente operativa nei confronti della società romana.

In sede di teoria della conoscenza Cicerone aderì, nei suoi anni maturi, al probabilismo degli Accademici, una sorta di scetticismo pragmatico, che senza negare l’esistenza di una verità oltre i fenomeni, si preoccupa principalmente di garantire la possibilità di una conoscenza probabile, utile a orientare l’azione e ad essa funzionalizzata. Nel libro II degli Academica Lucullo rimprovera a Cicerone di distruggere la stessa possibilità della conoscenza rifiutandosi di ammettere l’esistenza di criteri sicuri delle nostre percezioni: se tutto è opinabile, allora non vi sarà più né certezza né verità. L’Arpinate replica che anche un dubbio generalizzato non comporta la negazione della verità; nemmeno pensa, come gli scettici che esistano più verità. In un celebre passo delle Tusculanae Cicerone definisce il metodo che egli segue nel trattare dei problemi di maggiore importanza: astenendosi egli stesso dal formulare un’opinione precisa, si sforza di esporre le diverse opinioni possibili, e di metterle a confronto per vedere se alcune siano più coerenti e probabili di altre. L’eclettismo filosofico di Cicerone obbedisce alle esigenze di un metodo rigoroso, che si sforza di stabilire fra le diverse dottrine un dialogo dal quale sia bandito ogni spirito polemico. La stessa ideologia della humanitas, alla cui elaborazione l’Arpinate diede un contributo notevolissimo, invitava a un atteggiamento intellettuale di aperta tolleranza: dai suoi stessi dialoghi traspare questa grande apertura e si può notare come i vari interlocutori non polemizzino mai tra loro con toni aspri e cerchino sempre di rispettare il loro turno per prendere la parola: siamo insomma di fronte ad una cerchia ristretta di uomini perbene che vedono nelle teorie diverse dalle loro un arricchimento culturale.

Ma c’è un caso in cui il contraddittorio e la confutazione, pur senza scadere nella zuffa, si fanno talora più violenti e indignati: l’eclettismo ciceroniano, come già anticipato, mostra una chiusura radicale verso l’epicureismo, alla cui esposizione e confutazione sono dedicati i primi due libri del dialogo De finibus bonorum et malorum. I motivi dell’avversione ciceroniana verso l’epicureismo sono soprattutto due, tra loro strettamente connessi : in primo luogo la filosofia epicurea porta al disinteresse per la vita politica (“vivi di nascosto” era il loro motto), mentre dovere dei boni è l’attiva partecipazione alla vita pubblica; inoltre l’epicureismo esclude la funzione provvidenziale della divinità (per quanto non ne neghi l’esistenza) e indebolisce così i legami con la religione tradizionale, che per Cicerone rimane la base fondamentale dell’etica. Va poi detto che l’Arpinate vedeva negativamente la ricerca del piacere (voluptas) propugnata dagli epicurei, i quali non esitavano a collocarla tra le somme virtù : ora è evidente che se ogni cittadino vivesse “di nascosto” alla ricerca del piacere personale lo stato si sfascerebbe; inoltre mettere la voluptas tra le virtù è come mettere una prostituta tra signore per bene, dice Cicerone. Tutte queste argomentazioni spiegano in parte il senso dei dialoghi di argomento religioso e teologico. Nel De natura deorum viene esposta e confutata la tesi epicurea dell’indifferenza degli dei rispetto alle vicende umane. Successivamente viene presa in esame la tesi stoica del panteismo provvidenziale, mentre in uno dei libri successivi (il III) l’Arpinate si schiera a favore dello scetticismo accademico.

Più interessante risulta il De divinatione, anche perché legato a vicende più contemporanee a Cicerone, che si dimostra incerto se denunciare la falsità della religione tradizionale o proporre il suo mantenimento al fine di conservare il dominio sui ceti inferiori. Tornando al De finibus bonorum et malorum, Cicerone, dopo aver confutato la tesi epicurea, esamina quella stoica : riconosce che lo stoicismo fornisce le basi morali più solide all’impegno dei cittadini verso la collettività, ma tuttavia si sente lontano per cultura e gusti : il loro rigore etico gli appare anacronistico e impraticabile nella società romana. Cicerone, invece, apprezza le tesi scettiche: la verità è per lui irraggiungibile, e l’uomo si può solo avvicinare ad essa applicando la virtus; l’eclettismo ciceroniano non a caso si basa su ideali scettici: dato che la verità è irraggiungibile, tanto vale esaminare tutte le diverse filosofie ed estrapolare da ognuna di esse il meglio.

Un posto particolare tra le opere filosofiche occupano anche il Cato maior de senectute e il Laelius de amicitia. Nel Cato maior de senectute Cicerone trasfigura l’amarezza per una vecchiaia la quale, oltre al decadimento fisico e all’imminenza della morte, sembra soprattutto temere la perdita della possibilità di intervento politico. Tuttavia Cicerone, immedesimandosi nell’austera figura di Catone il Censore, tratteggia una vecchiaia nella quale si armonizzano in maniera perfetta il gusto per l’otium e la tenacia dell’impegno politico, due opposte esigenze che l’Arpinate ha cercato invano di conciliare lungo tutto l’arco della sua vita. Diversa, più combattiva, è l’atmosfera che si respira nel Laelius de amicitia, il quale, all’indomani dell’uccisione di Cesare, accompagna il rientro di Cicerone sulla scena politica. Il dialogo è immaginato svolgersi nel 129, lo stesso anno del De re publica : pochi giorni dopo la scomparsa di Scipione nel corso delle agitazioni graccane. Rievocando la figura dell’amico scomparso, Lelio ha modo di intrattenere i propri interlocutori sul valore e sulla natura dell’amicizia stessa. Amicitia per i Romani era soprattutto la creazione di legami personali a scopo di sostegno politico. Nascendo dal tentativo di superare la tradizionale logica clientelare e di fazione propria dello stato aristocratico, il dialogo muove tuttavia alla ricerca dei fondamenti etici della società nel rapporto che lega fra loro le volontà degli amici. La novità dell’impostazione ciceroniana consiste soprattutto nello sforzo di allargare la base sociale delle amicizie al di là della cerchia ristretta della nobilitas: a fondamento dell’amicizia sono posti valori come virtus e probitas riconosciuti a vasti strati della popolazione. L’amicizia propagandata da Lelio non è solo un’amicizia politica: si avverte in tutta l’opera un disperato bisogno di rapporti sinceri, quali Cicerone, preso nel vortice delle convenienze imposte dalla vita pubblica, potè forse trovare solo in Attico.

La stesura del De officiis venne iniziata probabilmente nell’autunno del 44: si tratta stavolta di un trattato, non di un dialogo, dedicato al figlio Marco, allora studente di filosofia ad Atene. L’opera è il prodotto di un’elaborazione rapidissima, per lo più contemporanea alla composizione di alcune delle Filippiche: mentre sta combattendo colui che ai suoi occhi sta portando la patria alla rovina definitiva, Cicerone cerca nella filosofia i fondamenti di un progetto di vasto respiro, indirizzato alla formulazione di una morale della vita quotidiana che permetta all’aristocrazia di riacquistare il pieno controllo della società. La base filosofica viene offerta dallo stoicismo moderato di Panezio. Nel De officiis Cicerone afferma di rivolgersi in primo luogo ai giovani: ciò conferma la funzione pedagogica che egli in generale attribuisce al suo lavoro di divulgazione filosofica. I 3 libri di cui il De officiis è composto trattano rispettivamente dell’honestum, dell’utile e del conflitto tra di loro. Lo stoicismo di Panezio si differenziava dallo stoicismo comune soprattutto per un giudizio assai più positivo sugli istinti da parte di Panezio: le virtù fondamentali venivano reinterpretate in modo da essere viste come organico sviluppo di questi istinti fondamentali. La virtù fondamentale per Panezio era la socialità, cui si affiancava la beneficenza: se alla prima spetta di “dare a ciascuno il suo”, la seconda ha il compito di collaborare positivamente al benessere della comunità e di mettere a disposizione dei concittadini la persona e gli averi del singolo. La beneficenza teorizzata da Panezio corrispondeva benissimo allo stile di vita degli aristocratici romani, che, attraverso gli officia e l’elargizione nei confronti dei concittadini, sapevano procurarsi un seguito politico capace di innalzarsi alle più alte cariche dello stato; tuttavia per Cicerone la beneficenza può causare seri problemi: può essere strumento di corruzione, infatti, il donare denaro oppure l’effettuare benefici ingiusti o ancora abbassare le tasse. Perciò l’Arpinate sottolinea con forza che la beneficenza non deve essere posta al servizio delle ambizioni personali. Alla tipica virtù cardinale della fortezza Panezio aveva sostituito la grandezza d’animo; ebbene, Cicerone riprende questa concezione, ma, paradossalmente, a fondamento della magnitudo animi il De officiis pone un disprezzo quasi ascetico per tutti i beni terreni, come gli onori, la ricchezza, il potere.

Diego Fusaro

(fonte: www.filosofico.net, con l’autorizzazione dell’autore)

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