11 Maggio 2024
Appunti di Storia Controstoria

Bologna novembre 1920: ignoti sparatori nella sala consiliare, guardie rosse che tirano bombe dai balconi, una strage che segna la fine del socialismo in città (seconda parte) – Giacinto Reale

Per le strade di Bologna, domenica, devono trovarsi solo fascisti e bolscevichi. sarà la prova: la grande prova in nome d’Italia!

(manifesto fascista)

 

L’esito delle elezioni amministrative provoca, come è normale l’esultanza dei socialisti, ed accresce per loro la convinzione di essere ormai alla vigilia della presa del potere, non necessariamente “con le buone”.

Ecco perché indicono per domenica 21 novembre, in piazza Vittorio Emanuele (ora piazza Maggiore), una grande manifestazione, con la partecipazione anche di delegazioni provenienti dai paesi della Provincia.

Hanno fatto, però, i conti senza l’oste, che, nel caso, sarebbe il nuovo venuto sulla scena politica cittadina, il movimento dei Fasci.

E che si tratti di un “oste” piuttosto pericoloso e determinato, lo dimostra il manifesto affisso alle cantonate:

 Cittadini,

i massimalisti rossi, sbaragliati e vinti per le piazze e le strade della città, chiamano a raccolta le masse del contado, per tentare una rivincita, per tentare di issare il loro cencio rosso sul palazzo comunale! Noi non tollereremo mai questo insulto! Insulto per ogni cittadino italiano e per la Patria nostra, che di Lenin e di bolscevismo non ne vuol sapere. Domenica, le donne e tutti coloro che amano la pace e la tranquillità, restino in casa, e, se vogliono meritare dalla Patria, espongano dalle loro finestre il tricolore italiano. PER LE STRADE DI BOLOGNA, DOMENICA, DEVONO TROVARSI SOLO FASCISTI E BOLSCEVICHI. SARÀ LA PROVA: LA GRANDE PROVA IN NOME D’ITALIA! (1)

In verità, il manifesto non avrà molta fortuna, perché il Questore lo farà sequestrare in tipografia, e scarsa diffusione e visibilità avranno le poche copie mano-dattiloscritte alla bell’e meglio dai volenterosi seguaci di Arpinati.

La mattina, comunque, circa 400 fascisti improvvisano un corteo per le vie del centro, dove il loro numero cresce fin quasi al migliaio, per l’innesto di gente comune che comincia a prendere coraggio, e poi si radunano nei locali di via Marsala. L’impegno, che hanno ottenuto dal Prefetto “mediatore”, e cioè che nessuna bandiera rossa verrà esposta sul Palazzo Comunale e che verranno rispettate le persone dei Consiglieri di minoranza, li convince a restare tranquilli, ma vigili.

È anche per questo che Arpinati rinuncia al progetto iniziale di presentarsi, con un gruppo dei suoi, nella sala consiliare, a tutela dei rappresentanti della minoranza, capitanati da Angelo Manaresi e Giulio Giordani:

Fummo incaricati, Giordani e io, di comunicare la deliberazione (di rinuncia alla tutela fascista in Consiglio ndr) ad Arpinati; andammo insieme, nella notte del 20, alla sede del Fascio, che era allora in un oscuro e piccolo locale invia Marsala, fucina di eroismi e di storia, e trovammo il risoluto capo delle camicie nere bolognesi ben deciso a mobilitare per l’indomani, tutte le squadre, che del resto, già pronte in armi, stavano ormai giorno e notte alla sede del Fascio.

Riuscimmo ad ottenere che almeno non tentassero i fascisti di entrare nell’aula: volevamo che non si potesse dai nostri nemici speculare sula possibile provocazione. Arpinati sembrava poco persuaso: promise tuttavia di seguire il nostro consiglio, ma ci disse nello stesso tempo che sarebbe rimasto poco lontano. (2)

Ancora una volta, insomma, i consiglieri di parte nazionale cercano di assicurare la “neutralità” della sede istituzionale, senza presenze estranee ed esposizione di bandiere di Partito.

Richiesta sempre avanzata, anche, in ripetute occasioni, dalla parte moderata della città. Già nel luglio del 1914, per esempio, dopo l’insediamento della neo-eletta Amministrazione socialista, lo sventolio del drappo rosso dal balcone del palazzo era costato, anche in ragione delle generalizzate proteste di gran parte della città, la rimozione e la “messa a disposizione” del Prefetto.

Egualmente, palazzo D’Accursio è stato sempre obiettivo privilegiato delle “incursioni” nazionaliste. Durante la guerra, esso è stato visto come il covo degli “Austriaci di dentro”, e, il 19 maggio del 1918, dopo l’inaugurazione della bandiera dell’Associazione Bolognese Mutilati e Invalidi di Guerra, è lo stesso Mussolini, oratore designato al Teatro Comunale, ad infiammare gli animi:

All’uscita dal Teatro, non ci sentimmo in grado di mantenere gli impegni assunti con l’Autorità questurinesca di Bologna, che vietava qualsiasi manifestazione all’esterno, e ciò perché la presenza di Mussolini e la giornata simbolica potevano apparire una palese provocazione (!) al bestiame sovversivo di Bologna.

(…..)

Via Zamboni, via Rizzoli, piazza Nettuno, e.…una solenne fischiata. Si reclamò a gran voce l’esposizione del gonfalone al balcone di palazzo D’Accursio, ma tale aspirazione non fu soddisfatta. Si tentò di forzare il cordone di poliziotti all’ingresso di palazzo, ma la “questureria” preoccupata com’era della salute dei signori amministratori del Comune, tenne duro e ci respinse violentemente.

La polizia menò colpi all’impazzata, ma noi reagimmo a dovere, e mettemmo in opera le stampelle ed i bastoni. (3)

Non ci vogliono particolari doti di preveggenza per capire che, nel mutato clima del 1920, le cose potrebbero andare ben diversamente.

E, infatti e ciò nonostante, la promessa non viene mantenuta: i socialisti hanno stipato il palazzo D’Accursio di guardie municipali, vigili del fuoco, agenti daziari, dipendenti comunali di provata fede sovversiva (ennesimo caso del frequente “impiego improprio” dei Corpi armati del Comune, al servizio di Partito Socialista e Camera del Lavoro) e Guardie Rosse provenienti da fuori città. Si sentono perciò sicuri, in grado di dare una lezione ai nemici fascisti, anche per la grande quantità di armi (e perfino bombe a mano) di cui dispongono.

È così che, verso le 14,30 sulla torre degli Asinelli viene issata, in violazione degli impegni, una bandiera rossa.

In un attimo, gli squadristi escono di corsa dalla loro sede, travolgono gli esili cordoni di truppa che li separano dalla piazza, e irrompono da due parti. Sono circa trecento, divisi in tre gruppi, al comando rispettivamente di Giovanni Battista Berardi, Enea Venturi e Oreste Roppa: il primo (poi sarà Podestà della città), che è particolarmente agile, si arrampica velocemente sulla torre e toglie la bandiera, mentre gli altri cominciano a premere sulla folla ammassata.

Quando ancora la situazione è incerta, dal balcone di palazzo D’Accursio si affaccia il Sindaco Enio Gnudi, con altri dirigenti socialisti che sventolano a loro volta bandiere rosse e liberano piccioni che hanno appese alle code altre bandierine dello stesso colore, violando così, ancora, gli accordi presi nei giorni precedenti.

E’ in quel momento che i circa trecento fascisti sfondano definitivamente, prima in piccolo numero, e poi in massa, i cordoni di truppa e penetrano nella piazza, dove vengono accolti da colpi di pistola.

La sparatoria si fa subito più intensa. Gli squadristi rispondono al fuoco nemico che arriva anche dalle finestre del palazzo comunale, e perfino i Carabinieri perdono il controllo, così che cominciano a tirare a loro volta, e, se pur la loro mira è diretta in alto, senza bersagli precisi, comunque contribuiscono ad aumentare la confusione del momento.

Le Guardie Rosse, affacciate ai balconi, vedono che molti, tra la folla che corre, si indirizzano verso il cortile interno del palazzo, pensano all’attacco fascista (mentre, invece, si tratta solo di gente che cerca rifugio) e cominciano a lanciare sulla piazza le bombe a mano di cui sono dotate in larga misura, tanto che una ventina, inesplose, saranno trovate, dopo i fatti, ancora all’interno dello stabile.

E’ una strage: alla fine si conteranno dieci morti innocenti ed una sessantina di feriti, frutto di quella che Claudio Treves chiamerà una “tragedia da panico”. La testimonianza di Giorgio Pini, che c’era, rende bene d’idea:

I Carabinieri, di fronte a questa specie di caos in cui le parti opposte si erano ormai, in un certo senso, fuse, si misero ginocchi a terra, allo sbocco di via Indipendenza, e cominciarono fa sparare verso la piazza. Ma sparavano in aria, evidentemente.

Però, chi era presente non sapeva se sparavano in aria o in basso, e quindi tutti corsero dietro i portici e le colonne.

Fu una scena strana, di cui non ci si rende conto perché, va bene, ci sono molte vie che sboccano in piazza Maggiore, ma in un battibaleno, in un ciak, la piazza era completamente vuota. Era già freddo, c’era un clima autunnale, quasi invernale; allora usavano le “capparelle”, ma anche pastrani, cappelli, ombrelli, furono abbandonati, per fuggire più sciolti e senza impacci, sulla piazza. La quale pareva che fosse piena di cadaveri, stesi un po’ dappertutto. Cosa assurda, impossibile. Quella scena veramente aveva qualcosa di apocalittico. (4)

 

Ma non è ancora finita: al rumore delle deflagrazioni, gli attivisti socialisti radunati all’interno dell’edificio irrompono nella sala del Consiglio, ad aumentare la confusione che già vi regna, perché nessuno si rende ben conto della situazione.

A consiglieri socialisti che amaramente gridano: “È scappato il nostro esercito!”, si contrappongono altri, dello stesso Partito, che inveiscono contro i rappresentanti della minoranza: “Siete voi che ammazzate il popolo in piazza. Vi faremo fare la stessa fine!”

È a quel punto che, secondo il preciso ricordo dell’avvocato Angelo Manaresi, miracolosamente scampato alla mira, si fa avanti un “pistolero”, che apre il fuoco.

Restano feriti due Consiglieri, Cesare Colliva e Bruno Biagi, mentre viene colpito a morte il loro collega Giulio Giordani, che è figura conosciutissima e stimata in città, al punto che è stato lui l’oratore delle manifestazioni patriottiche contro la mancata celebrazione della vittoria, dopo il 4 novembre dell’anno prima.

Proveniente da una modesta famiglia, è stato Ufficiale dei Bersaglieri in guerra, ha subito l’amputazione di una gamba per le ferite ricevute nei combattimenti della Trincea delle Frasche, ed è stato decorato di medaglia d’argento.

Avvocato, radicale ma vicino ai nazionalisti, è stato eletto nella lista appoggiata dai fascisti, e tutto lascia intendere che in Aula sarà un avversario temibile per l’Amministrazione socialista.

Ma le cose vanno diversamente: quel 21 novembre, all’indirizzo dei rappresentanti della minoranza vengono esplosi diciannove colpi, senza che nessuno risponda al fuoco: infatti, Colliva e Aldo Oviglio, eletti nella stessa lista di Giordani, che pure sono armati di rivoltella (e la cosa era in quei tempi travagliati meno inconsueta di quanto possa sembrare oggi), depongono le loro armi sul banco, rifiutando l’eccidio fraterno.

Nonostante i tanti testimoni presenti, le indagini immediate, i processi successivi, le ricostruzioni fatte durante il Regime e quelle dopo la fine del fascismo, non è stato mai individuato con certezza il nome di chi esplose i colpi mortali. Una cappa di omertà e complicità proteggerà tutti, e autorizzerà, nel tempo, le piste più fantasiose, tra le quali non potrà mancare quella dei provocatori fascisti infiltrati nell’edificio.

La tesi più attendibile parla di uno sparatore di bassa statura con una giacca marrone, che “Il Resto del Carlino” del 20 gennaio del ’22 identificherà in Angelo Galli, addetto al servizio d’ordine interno, ma le prove non saranno sufficienti per portare all’incriminazione, anche se si farà sempre più strada la tesi di un agguato premeditato e non di una sparatoria improvvisata.

Contrariamente a quello che sarebbe stato logico aspettarsi, “L’Assalto”, in edicola dieci giorni dopo, non dà una ricostruzione dettagliata dei fatti, ma si limita ad uno scarno ed essenziale comunicato in terza pagina:

Le verità sono queste:

1.che i bolscevichi, dopo aver sparati i primi colpi di rivoltella scapparono come tanti conigli;

2.che nella confusione i rivoluzionari di merda uccisero i propri compagni di vigliaccheria;

3.che nella sala del Consiglio fu assassinato dalla maggioranza massimalista l’inerme consigliere di minoranza avvocato Giulio Giordani;

4.che i capi socialisti, predicatori della rivoluzione, si sono squagliati tutti indistintamente;

5.che i fascisti rimasero e sono padroni delle vie e delle piazze di Bologna. (5)

 

Il comunicato autorizza il sospetto che gli stessi fascisti non si rendano ben conto delle conseguenze che, sul piano nazionale l’episodio è destinato ad avere. Pensano, piuttosto, solo ad una svolta nella situazione locale, dopo due anni di sofferenza.

Lo stesso è per i socialisti. Mal abituati da un biennio di tolleranza verso le loro diffuse prepotenze, convinti di riuscire a far passare una versione artefatta dell’accaduto, nella quale lo sparatore della Sala Consiliare potrebbe essere un provocatore fascista e il lancio delle bombe dai balconi una legittima difesa contro un attacco, vanno avanti per la loro strada.

La sera stessa dell’eccidio in piazza, a Castel San Pietro, nota roccaforte sovversiva, si tiene regolarmente la già fissata cena di ringraziamento per il successo elettorale, nel corso della quale, Graziadei e Bombacci, provenienti da Bologna, commentano i fatti tra un bicchiere di lambrusco e un piatto di tagliatelle, senza immaginare le nubi che stanno per addensarsi sulle loro teste.

 

FOTO 3: Giulio Giordani

FOTO 4: lapide commemorativa

 

 

NOTE

  1. In: Brunella Dalla Casa, Leandro Arpinati, un fascista anomalo, cit., pag. 55
  2. Angelo Manaresi, Giulio Giordani e l’eccidio di palazzo D’Accursio, Roma 1928, pag. 12
  3. Dino Zanetti, L’anima nella bufera, Bologna 1936, pag. 291
  4. In: Sergio Zavoli, Nascita di una dittatura, Torino 1973, pag. 77
  5. “L’Assalto” nr 2 del 1° dicembre 1920, trafiletto dal titolo “L’insediamento del Consiglio comunale e la battaglia di domenica”, in terza pagina

 

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