11 Aprile 2024
Esoterismo

Arturo Reghini e la ricerca ermetica di Francesco Maria Santinelli – Nicola Bizzi

La produzione letteraria di Arturo Reghini è vastissima, per certi aspetti veramente impressionante. Soltanto alcune delle sue opere, le più note, sono state oggetto negli ultimi anni di nuove edizioni e rese disponibili nelle principali librerie, ma la stragrande maggioranza dei suoi scritti, in particolare brevi saggi e lunghi articoli apparsi su varie riviste fra gli inizi del ‘900 e gli anni ’40, per quanto alcuni di essi siano stati inclusi in raccolte antologiche o in limitate ed elitarie ristampe anastatiche delle storiche riviste Ur e Ignis, non sono mai stati resi disponibili al grande pubblico in un’adeguata veste editoriale. Proprio da una simile considerazione è partita l’idea di realizzare, nell’ambito della collana di studi misterici ed iniziatici Telestérion delle Edizioni Aurora Boreale, casa editrice che ho l’onore e l’onere di dirigere, una serie di riedizioni – corredate da saggi critici, illustrazioni e documenti in appendice – delle opere di Arturo Reghini meno note o conosciute.

Reghini non ha scritto solo di Massoneria o di simbologia pitagorica, come sono erroneamente portati a credere molti di coloro che non hanno mai letto le sue opere, anche se questi temi occupano comunque una parte considerevole della sua produzione. Dotato di una straordinaria erudizione veramente fuori dal comune e animato da una inesauribile sete di conoscenza e da un irrefrenabile amore per la ricerca, il Nostro ha saputo realmente mettere a buon frutto i doni dell’Iniziazione. Una autentica Iniziazione, infatti, come ci insegnano grandi saggi del passato come Elio Aristide, Porfirio e Plutarco di Cheronea, oltre a rappresentare a tutti gli effetti – e non solo in chiave meramente simbolica – una morte ed una rinascita a nuova vita, permette a colui che la riceve di vedere sé stesso e le cose del mondo con occhi diversi; permette di amplificare determinate sensazioni ed intuizioni, permette di ricevere costanti input e nuovi stimoli e, soprattutto, di viaggiare con la mente verso vette e conquiste inaspettate. Permette a colui che la riceve di acquisire nuove capacità di sintesi e di analisi, permette di eviscerare il reale senso delle cose e della realtà e di arrivare a collegamenti e a ragionamenti che, se applicati con costanza alla ricerca storica e a quella esoterica, danno inevitabilmente preziosi frutti. E questi frutti li possiamo cogliere, vedere e percepire nelle straordinarie opere, anche in quelle a torto considerate “minori” di Arturo Reghini. Egli ha saputo con passione scrivere di numerosi temi ed argomenti, sia di carattere storico che esoterico, sondando ed approfondendo vari filoni della Tradizione Iniziatica. Si è infatti occupato di Simbolismo, di Numerologia, di Cabala, degli insegnamenti di grandi e indiscussi Maestri del passato come Dante Alighieri. Si è occupato di Tradizione Misterica, di Cosmogonia, di Mitologia, di Filosofia, di Religione, ma anche di Ermetismo e di Alchimia. Ed è proprio fra gli scritti alchemici di Arturo Reghini che si colloca un interessante saggio che ho recentemente dato alle stampe: Un’ode alchemica di Fra Marcantonio Crasellame Chinese.

Uscito nel 1925 sul n° 8-9 di Agosto-Settembre della rivista Ignis, e firmato con lo pseudonimo di Maximus (Reghini utilizzava notoriamente vari pseudonimi – anche se non sempre – per firmare i suoi scritti), è uno studio interpretativo di uno dei più noti testi alchemici del XVII° secolo. Un testo che, come ha evidenziato Massimo Marra[1], è stato, fra quelli italiani in materia, probabilmente il più largamente citato e tradotto negli ultimi quattro secoli.

Illustrazione da un codice alchemico di Claudio de Dominico Celentano di Valle Nove, 1606

La Lux Obnubilata suapte natura refulgens. Vera de Lapide Philosophico Theorica, metro italico descripta, et ab auctore innominato Commenti gratia ampliata, questo è il suo titolo completo, vide la luce nel 1666 a Venezia, per i tipi di Alessandro Zatta.

Si tratta di un’ode a soggetto alchemico in lingua Italiana, composta da tre “canzoni”, preceduta da una prefazione in Latino e seguita da un proemio e poi da un commento.

Come rileva Reghini nel suo studio, «prefazione, proemio e commento, tutti in Latino, sono opera di un ignoto commentatore» e dal sottotitolo premesso alla “Canzone Prima” risulta che autore delle tre “canzoni” costituenti l’Ode Alchemica sia un poeta alchimista che si nasconde, «secondo il costume dei Filosofi», sotto lo pseudonimo – in questo caso, più propriamente, uno ieronimo e al contempo un anagramma – di Fra Marcantonio Crassellame Chinese.

«Il commento – continua Reghini – procede strofa per strofa, riportando volta a volta il testo italiano e, nella prefazione, il commentatore narra di avere consumato dodici anni di assidue fatiche per delucidare l’Enigma della Sfinge prima di cominciare a tentare di conseguirne l’effetto; chiede al lettore di non cercare di conoscere chi egli sia, e racconta che, venutogli nelle mani il manoscritto dell’ode italiana di anonimo autore, si è accinto a commentarla. Egli protesta di non sapere chi sia questo poeta, che è lecito conoscere appena per mezzo dell’anagramma, e dice bastargli sapere che questo autore ha camminato sulla via retta, che gli è ovvia la verità della natura, e che, quantunque si confessi insciente di tutta l’opera, la sua non è che una finta ignoranza».

L’opera venne a lungo attribuita a Otto Tachenius (o Tackenius), un medico, farmacista e alchimista tedesco del XVII° secolo che, laureatosi a Padova nel 1644, esercitò a lungo la Medicina a Venezia, dove pubblicò nel 1666 (lo stesso anno della pubblicazione della Lux Obnubilata) il suo primo trattato, lo Hippocrates Chymicus. Altre sue importanti opere degne di menzione furono l’Epistula de famoso liquore Alcahest e la Antiquissima Hippocraticae Medicinae Clavis. Ma l’ottimo stile italiano della Lux obnubilata ha fatto già da tempo ritenere errata tale attribuzione (il Tachenius, Tedesco, che sempre scrisse in Latino, era inverosimile che avesse avuto una tale conoscenza e padronanza della lingua Italiana da scrivere degli ottimi versi quali quelli dell’ode). Una attribuzione che al tempo di Reghini era però ancora sostenuta da più fonti, in primis un catalogo francese della Biblioteca Nazionale di Parigi, che il Nostro cita nel suo studio. Inoltre, rileva sempre Reghini, «il nome del vero autore dell’Ode dovrebbe per anagramma trasformarsi in quello di Fra Marcantonio Crassellame Chinese, il che non accade con Otto Tachenius».

Come evidenzia sempre Arturo Reghini, il libro pubblicato dal tipografo Alessandro Zatta a Venezia nel 1666 deve essere stato sin da subito particolarmente apprezzato in ambiente alchimistico, poiché venti anni dopo ne apparve una traduzione in Francese, intitolata La Lumière sortant par soi même des Tenebres, ou veritable theorie de la Pierre des Philosophes, ècrite en vers italiens, avec un commentaire; le tout traduit en François par D.L. (Paris, D’Houry, 1687). Ed una seconda edizione di tale versione apparve a pochi anni di distanza, nel 1692. In seguito essa venne inclusa tra gli scritti alchemici costituenti la Bibliothèque des Philosophes Chimiques, perlomeno nell’edizione del 1741. Una versione tedesca, infine, ne fu data alle stampe nel 1772. Ma, osserva sempre il grande Iniziato fiorentino, ad eccezione dell’edizione originale veneziana del 1666, in queste successive edizioni l’Ode non è stata stampata nella sua versione originale. Apparve invece riprodotta nel suo testo originale, anche se mutila della prefazione, del proemio e del commento, nelle numerose edizioni di una ben nota ed importante opera massonica settecentesca: l’Etoile Flamboyante ou la Société des Francs-Maçons, considerée sous tous les aspects, del Barone Henri Théodor Tschoudy, la cui prima edizione uscì nel 1766, ad un secolo esatto di distanza, quindi, dalla pubblicazione veneziana dell’Ode. Un’opera straordinaria che dovrebbe ancora oggi trovare posto sugli scaffali della biblioteca di ogni autentico Libero Muratore, sulla quale e sul suo autore vale qui la pena spendere alcune parole.

Nato a Metz nel 1724, il Barone di Tschoudy si trasferì giovanissimo in Italia e nel 1751, a soli ventisette anni, venne nominato Maestro Venerabile di una Loggia di Napoli dall’allora Gran Maestro della Libera Muratoria partenopea, il celebre Principe alchimista e scienziato Raimondo De Sangro; una Loggia che, secondo gli intendimenti di entrambi, si proponeva di dare una lettura dei rituali massonici in chiave ermetico-filosofica[2]. Ma purtroppo, nello stesso anno, lo Tschoudy fu allontanato da Napoli in seguito a pressioni di Papa Benedetto XIV°, il quale, evidentemente preoccupato per la straordinaria diffusione della Massoneria, aveva rinnovato la scomunica contro i Liberi Muratori pronunciata da Clemente XII° nel 1738, costringendo anche il Principe Raimondo a fare una pubblica ritrattazione delle sue idee, «onde stornare dai Massoni napoletani le ire di Carlo III°»[3].

Se possiamo facilmente comprendere la posizione anti-massonica di Benedetto XIV°, dobbiamo però rilevare che questo suo accanimento nei confronti della Libera Muratoria napoletana in particolare suonasse quantomeno sospetto, essendo probabilmente indice di quanto le gerarchie pontificie di allora conoscessero, e di conseguenza temessero, l’operato ed il progetto massonico di Raimondo De Sangro e del Barone di Tschoudy.

È attestato che nel 1760 il Barone si era stabilito in Russia, a San Pietroburgo, con il favore della Zarina Caterina, rivestendo la carica di Oratore in un’importante Loggia della città. Da lì fece poi ritorno in Francia, dove divenne uno degli ideologi del futuro Rito Scozzese, creando al contempo un proprio sistema massonico-cavalleresco nel quale figurava anche un grado Rosa-Croce. Nel 1766 fondò l’Ordre de l’Etoile Flamboyante, un sistema massonico di stretta osservanza ermetica, nel quale sviluppò gli insegnamenti del Principe Raimondo De Sangro.

Raimondo di Sangro, Principe di Sansevero, in un ritratto di scuola
napoletana del XVIII° secolo (collezione privata)

L’Ordre de l’Etoile Flamboyante dello Tschoudy, conosciuto anche come Ordine dei Filosofi Incogniti, si fondava su tre gradi: apprendista, Compagno e Professo (o Filosofo Incognito), sul modello della Societé des Philosophes Inconnus fondata un secolo prima da Michael Sendivogius (Michał Sędziwój), un alchimista, filosofo e diplomatico polacco di orientamento rosacrociano al servizio di Rodolfo II° e di Sigismondo III° e in rapporti con John Dee e Edward Kelley.

Come osserva Reghini nel suo testo, e come ha ribadito in tempi recenti Elena Frasca Odorizzi, il grado e il titolo di Filosofo Incognito creato dal Sendivorgius e ripreso dal Barone di Tschoudy non ha assolutamente niente a che vedere con il Martinismo, anche se alcuni anni più tardi sarà ripreso, a suo modo, anche da Louis Claude De Saint Martin.

Le vicende del Barone di Tschoudy si intrecciano quindi con alcuni dei personaggi più significativi e dei momenti più salienti della storia della Massoneria del XVIII° secolo, compresa la questione dell’influenza da essa ricevuta da parte dell’Ermetismo e del Rosicrucianesimo.

Reghini ci fa notare che nella Etoile Flamboyante sono riportati gli “Statuti dei Filosofi Incogniti”, e, dopo di essi, segue un lungo ed interessante scritto: Catechismo e istruzione per il grado di adepto o apprendista Filosofo sublime e incognito, un catechismo composto attingendo, spesso di peso, dagli scritti del Sendivogio, come è stato già riconosciuto dal Wirth. E, verso la fine di tale catechismo, si trova una emblematica domanda, seguita da una altrettanto emblematica risposta:

D. – Non potreste metterci sotto gli occhi d’un sol tratto, e riunire in un sol punto, i principi, le forme, le verità, ed i caratteri essenziali della scienza dei Filosofi, come pure del procedimento metodico dell’opera?

R. – A quanto mi chiedete può soddisfare sotto tutti i rispetti un passo lirico, composto da un antico filosofo, che univa alla solidità della scienza il gradevole talento di scherzare delle Muse: nessuna scienza essendo di fatti estranea ai figli della Scienza; quest’ode, benché in lingua italiana, la più adatta a dipingere delle idee sublimi, trova qui il suo posto».

Dopo queste parole, – osserva sempre Reghini – viene riportata l’Ode Alchemica nel suo testo italiano, riprodotta però con parecchi errori, senza la ripartizione in tre canzoni, senza le brevi premesse in prosa italiana che precedono ogni canzone nel testo originale, senza indicazione della fonte e senza riportare né far menzione di “Fra Marcantonio Crassellame Chinese” quale autore dell’opera stessa.

Reghini, come abbiamo visto, aveva perfettamente intuito che l’Ode Alchemica non potesse essere attribuita a Otto Tachenius, ma ancora – nel 1925, quando egli scriveva il suo breve saggio – non vi era, fra gli studiosi, una piena certezza sulla reale identità del suo autore. Oggi, come ha osservato Massimo Marra[4], quasi tutti gli studiosi sono d’accordo nell’attribuire Ode e commentario a due autori diversi, in relazione allo stile assai differente che caratterizzerebbe la prosa latina del commentario rispetto a quella poetica ed italiana della canzone. E quest’ultima, ormai definitivamente tramontata l’attribuzione al Tachenius, viene unanimemente attribuita al Marchese Francesco Maria Santinelli, un nobile ed iniziato pesarese, poeta e cultore di Alchimia molto vicino alla Regina Cristina di Svezia. Quasi tutti gli studiosi, ad eccezione di Anna Maria Partini, autrice di recenti studi che hanno gettato nuova luce non solo sugli scritti alchemici di Santinelli, ma anche sulla sua vasta produzione poetica a sfondo ermetico. La Partini è arrivata infatti a ipotizzare, contrariamente ad altri ricercatori, che anche il commento della Lux Obnubilata possa essere frutto della mano del nobile pesarese. Ma, al di là di queste pur interessanti osservazioni, pochi oggi ricordano che il merito di aver identificato per primo l’autentica paternità dell’Ode spetta al grande e compianto Fratello ferrarese Pericle Maruzzi (1887-1966), il più grande storico che la Massoneria italiana abbia annoverato tra le sue fila, autore di numerose di opere (alcune delle quali inspiegabilmente ancora inedite) che ancora oggi rappresentano pietre miliari ed una risorsa fondamentale e insostituibile per le nuove generazioni di studiosi. Altri se ne sono successivamente, ma senza alcun fondamento, attribuiti il merito. Ma in un suo articolo intitolato Dell’autore di un’ode alchemica italiana tramutata in catechismo muratorio francese, uscito nel 1956 sul numero 3 della rivista Lumen Vitae e che riportiamo integralmente in appendice al presente volume, Maruzzi stabilì ed espose con estrema chiarezza e con solide basi documentarie la verità.

Scrive Maruzzi: «Sino al Dicembre del 1909 le ricerche per identificare il poeta alchimista non erano approdate a risultati concreti. Privatamente il Wirth mi aveva indicato un nome, ma era ormai troppo tardi quando in alcune biblioteche del nostro paese fu trovato che ad un tale con quel nome era attribuito un volume di piccolo formato, anonimo, intitolato La critica della morte, uscito a Venezia nel 1697. Le ricerche mie e del Fr. Carlo P. – che allora si occupava di Alchimia ed al quale devo le notizie che egli trovò all’Archivio di Stato di Venezia – condussero all’identificazione, ma per molte ragioni e circostanze, che è inutile riferire, solo oggi dopo tanto tempo ed avendo ritrovato gli appunti di allora, ne discorro». (…) «Seguendo una consuetudine diffusa, l’autore del poemetto si celò dietro uno pseudonimo, e l’ha composto anagrammando nome cognome e titolo. Infatti Fra Marc Antonio Crassellame Chinese è l’anagramma perfetto di: Marchese Francesco Maria Santinello, sostituendo una o all’ultima i».

Sigillo del Vitriol dal Viridarium Chymicum di Daniel Stolcius Von Stolcenberg (Francoforte, 1624) con l’acronimo esplicitato: «Visita Interiora Terrae, Rectificando Invenies Occultum Lapidem»

Ma chi era Francesco Maria Santinelli, Marchese di San Sebastiano e Conte della Metola?

Nato a Pesaro il 20 Aprile 1627 da una nobile famiglia marchionale, fu il terzo dei cinque figli del Marchese Alessandro Santinelli e di Donna Margherita Santacroce. È ricordato per essere stato un grande poeta, un letterato, un commediografo e librettista, un poliedrico autore di componimenti poetici, odi, can-zoni, romanzi e drammi musicali, ma fu soprattutto un grande Iniziato, cultore di Alchimia, Ermetismo e discipline misteriche ed esoteriche.

Compì i suoi studi tra Pesaro e Roma, ma alcuni suoi biografi ritengono che abbia perfezionato la sua formazione anche a Bologna e a Padova. Sicuramente la sua famiglia, dalla quale molto probabilmente ricevette una formazione sia umanistica che esoterico-iniziatica, non era priva delle risorse necessarie per garantire al giovane Francesco Maria un’adeguata istruzione.

È nel 1647, a soli vent’anni, che Santinelli pubblica, per i tipi dell’editore pesarese Gotti, la sua prima opera, un dramma intitolato Le Donne Guerriere, ispirato al mito delle Amazzoni e dedicato al Cardinale Rocci. Un’opera conservata e consultabile, anche in versione digitalizzata, presso la Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze.

Ma apparve chiaro fin da subito che Santinelli non si sarebbe limitato ad una semplice carriera di poeta e di letterato. Giovanissimo, insieme al fratello Lodovico, anch’egli poeta e cultore di Ermetismo, essendo ormai inattiva la pesarese Accademia degli Eterocliti, si operò per costituirne una nuova, l’Accade-mia dei Disinvolti, il cui protettore fu nientemeno che il potente Cardinale Cybo. In corrispondenza con numerosi eruditi, iniziati e letterati di varie città italiane, entrò presto a far parte di diverse altre simili realtà, fra cui l’Accademia degli Scomposti di Fano, quella dei Fantastici di Roma e quella degli Ambigui di Sant’Angelo in Vado.

Chi ben conosce la storia esoterica italiana del XVI°, XVII° e XVIII° secolo dovrebbe sapere quale fu la reale funzione della maggior parte delle numerose accademie culturali, scientifiche e letterarie che fiorirono e si svilupparono in tante città della Penisola. Un’accademia è, per definizione, un’istituzione destinata agli studi più raffinati e all’approfondimento e all’avanzamento delle conoscenze di più alto livello, sia nel settore della ricerca scientifica (Astronomia, Medicina, Scienze Naturali) che nel campo della Filosofia, della Letteratura o delle Arti. L’aura di prestigio associato all’origine del nome di questa tipologia di istituzione, soprattutto a partire dal XV° secolo, spinse molti istituti, in genere costituiti da privati e dietro intervento diretto di importanti personaggi o mecenati, a fregiarsi di tale appellativo. Il termine accademia, infatti, deriva notoriamente dal Greco ed è riconducibile alla celebre Scuola filosofica di Platone, fondata ad Atene nel 387 a.C. e situata in un luogo appena fuori le mura della città, su un terreno donato dall’eroe di guerra Academo. Ma pochi oggi ricordano che fu proprio grazie alle accademie che, sul finire del IV° secolo d.C., la maggior parte delle istituzioni religiose e misteriche dell’antichità, perseguitate dal Cristianesimo ormai dominante a Roma e in tutto l’Impero, trovò sicuro rifugio e continuità, entrando in una fase di forzata clandestinità che ne permise la perpetuazione. A partire dalle istituzioni ecclesiali e sacerdotali Eleusine, che si rifugiarono, dal 380 d.C., dopo la chiusura del Santuario Madre di Eleusi, all’interno delle sicure mura dell’Accademia Platonica di Atene, rifondata potremmo dire appositamente per tale fine dal filosofo Plutarco di Atene, che era nipote ed erede dell’ultimo Pritan degli Hierofanti dell’Eleusinità, Nestorio il Grande.

Allo stesso modo e all’interno di simili istituzioni, come ho documentato nel mio saggio Da Eleusi a Firenze: la trasmissione di una conoscenza segreta, sopravvissero e si perpetuarono le istituzioni dell’Ordine Pitagorico, i collegi sacerdotali isiaci e del culto di Serapide ed altre importanti realtà iniziatiche del Mediterraneo pre-cristiano.

La nascita delle accademie “moderne”, a partire da quella voluta a Firenze da Cosimo de’ Medici e Marsilio Ficino (ma potremmo elencarne molte altre) è strettamente collegata allo sviluppo dell’Umanesimo e alla riscoperta dell’antica Filosofia, in particolare quella platonica, oltre che delle più grandi espressioni della civiltà classica. Infatti, le università, per quanto già ampiamente diffuse in molte città italiane, salvo rare eccezioni erano rimaste strettamente legate alla dottrina della Chiesa e improntate sulla limitante e viziata Scolastica aristotelica. È per questo che gli Umanisti dettero vita a istituzioni alternative dove coltivare il proprio modello di cultura, appunto le accademie. E fin qui abbiamo visto la “giustificazione” alla nascita delle moderne accademie che possiamo trovare su qualsiasi enciclopedia. Ma occorre non dimenticare che, nella maggioranza dei casi, una simile giustificazione o visione interpretativa del fenomeno, per quanto apparentemente possa risultare senz’altro valida e fondata, è in realtà alquanto limitante. Come l’Umanesimo di per sé fu essenzialmente il prodotto di antiche tradizioni misteriche e iniziatiche pre-cristiane sopravvissute come un fiume carsico attraverso i secoli del Medio Evo e riaffacciatesi con vigore sulla scena fin dagli inizi del ‘400, anche molte delle accademie che si svilupparono in Italia dal XV° secolo in avanti, né più né meno di come era avvenuto un millennio prima con le accademie neo-platoniche in Grecia, in Egitto, in Siria e in altre province dell’Impero Romano, furono rifugio e facciata “profana” di quelle stesse tenaci tradizioni iniziatiche. Tanto che, spesso, dietro la “facciata” dello studio della Filosofia, della produzione letteraria o musicale e della ricerca scientifica, all’interno di tali istituzioni, a livelli superiori non immediatamente accessibili ai profani, avevano luogo segreti insegnamenti iniziatici e vere e proprie pratiche iniziatorie e rituali di filoni della Tradizione Misterica Eleusina (sia nella sua espressione “Madre” che in quelle “Figlia”, come la Orfica e la Samotracense), di quella Pitagorica o di quella Ermetica. E questo fenomeno si intensificò maggiormente nella seconda metà del XVI° e nel XVII° secolo, per via della Controriforma e della recrudescenza dell’Inquisizione. Era ormai tramontata la stagione aurea del Rinascimento e la Chiesa aveva ripreso a stringere la propria morsa contro le eresie e contro i propri nemici, sia interni che esterni. Le numerose cerchie di iniziati, soprattutto quelle operanti nei territori nominalmente soggetti allo Stato Pontificio, dovevano muoversi a quel tempo con sempre maggiore circospezione e il ricorso a determinate istituzioni culturali, alcune delle quali godevano della formale protezione di Vescovi e di alti prelati, si rese quantomai necessario.

La più autentica storia del fenomeno italiano delle accademie deve ancora essere compiutamente scritta, ma le considerazioni sin qui esposte possono esserci decisamente d’aiuto per comprendere l’ambiente in cui muoveva i suoi passi Francesco Maria Santinelli.

Già fattosi ormai un nome come poeta brillante e provetto spadaccino, «abile nell’adoperare la penna e la spada», come lo definì il Conte Valerio Zani, Principe dell’Accademia de’ Signori Gelati di Bologna, Santinelli ricevette una svolta inaspettata nella sua vita nel 1655, con l’arrivo nello Stato Pontificio di Maria Cristina di Svezia, la Sovrana che aveva abdicato l’anno precedente, dopo una sua clamorosa conversione al Cattolicesimo.

Sébastien Bourdon: Ritratto della Regina Cristina di Svezia a cavallo, 1653 (Madrid, Museo Nacional del Prado)

Figlia del Re Gustavo II° Adolfo di Svezia e della Regina Maria Eleonora del Brandeburgo, era ascesa al trono all’età di sei anni, dopo la prematura scomparsa del genitore. Figlia di uno dei massimi difensori del Protestantesimo durante la Guerra dei Trent’Anni e educata dal potente Alto Cancelliere di Svezia Axel Oxenstierna, suscitò grande scandalo quando nel 1654 si convertì al Cattolicesimo, decidendo di abdicare in favore del cugino Carlo Gustavo, che divenne Re Carlo X°. Temendo le reazioni e le vendette dei protestanti, lasciò subito la Svezia per trascorrere il resto della sua esistenza in vari Paesi d’Europa e stabilendosi poi definitivamente a Roma dove si occupò di opere caritatevoli, di arte, musica e teatro, ma soprattutto di ricerca esoterica ed iniziatica, raccogliendo un incredibile numero di libri antichi, codici segreti e manoscritti e circondandosi di alcune delle più grandi ed eminenti personalità del mondo iniziatico del tempo, fra cui il medico e alchimista danese Ole Borch, il padre gesuita e grande esoterista ed erudito Athanasius Kircher, il grande astronomo e matematico Giovanni Domenico Cassini (con il quale Cristina progetta un osservatorio astronomico per il suo giardino), l’agostiniano Michelangelo Ricci, il Marchese Massimiliano Savelli Palombara, gli alchimisti Francesco Borri e Antonio Bandiera e, come vedremo, lo stesso Francesco Maria Santinelli, nel contesto di un movimento culturale che, dopo la sua morte, portò alla fondazione, nel 1690, dell’Accademia dell’Arcadia.

Personalità complessa ed anticonformista, educata in modo virile più come un Principe che come una Principessa, Cristina di Svezia era dotata di una viva intelligenza e di una solida cultura umanistica e filosofica a cui si dedicò particolarmente dopo la pace di Westfalia che nel 1648 pose fine alla lunga guerra dei Trent’Anni. Durante gli anni del suo regno si prodigò per far divenire Stoccolma una vera e propria “Atene del Nord”, mentre lei stessa veniva appellata dal suo popolo, per via del suo amore per la cultura e per la sapienza, come la “Minerva del Nord”.

Dopo la sua abdicazione, Cristina si fermò prima nei Paesi Bassi, poi, diretta in Italia, passò per Forlì, Cesena, Rimini, Cattolica, Ravenna, Pesaro, Fano, Senigallia, Ancona, Macerata, Tolentino, Camerino, Ferrara, Bologna, Terni, Spoleto, Foligno, Viterbo, Gallese, Caprarola, Bracciano, per giungere infine Ro-ma. Tutte soste che ho motivo di pensare non siano state “casuali”, bensì finalizzate a incontri ben precisi con tutta una serie di personaggi non certo digiuni di cultura iniziatica.

Giunta in una Roma ormai libera dal dominio di Donna Olimpia Maidalchini Pamphilj, Cristina fu accolta con grandi onori e feste dal nuovo Pontefice Alessandro VII° Chigi, appena asceso al soglio di Pietro dopo la morte di Innocenzo X° Pamphilj, e da tutta la nobiltà romana, tanto che in suo onore fu addirittura restaurata da Gian Lorenzo Bernini la Porta del Popolo, sulla quale ancora oggi si legge la scritta che inneggia al «suo felice e fausto ingresso» in città. Continuò poi per un paio d’anni a viaggiare per l’Europa, al centro di relazioni e intrighi diplomatici finalizzati soprattutto a recuperare, dai regali parenti svedesi, i benefici promessi.

Tornata a Roma, dopo un periodo passato nella Villa Farnesina alla Lungara, oggi sede dell’Accademia dei Lincei, scelse di insediarsi nel prospiciente Palazzo Riario alla Lungara (oggi Palazzo Corsini), affittato dai Riario nel 1659, ma divenuto la sua residenza definitiva solo dal 1663, il cui grande parco (oggi Orto Botanico di Roma) saliva fino in cima al Gianicolo. Non dimentichiamo che Cristina aveva una rendita annuale di duecentoquarantamila talleri, una somma decisamente considerevole che le permetteva non solo una vita sfarzosa, ma anche il mantenimento di una vera e propria personale corte. Cristina, infatti, nonostante l’abdicazione e lo spontaneo “esilio”, non aveva mai rinunciato al titolo di Regina, e come tale continuò con disinvoltura a comportarsi, istituendo a Roma la sua piccola corte e un suo cenacolo di studiosi, letterati e intellettuali, facendo di Palazzo Riario la base di intrighi, viaggi diplomatici, feste e avventure galanti, ma anche di vaste relazioni intellettuali, culminate nel 1674 con l’istituzione dell’Accademia Reale (che sarà in nuce l’Arcadia), a cui si aggiunse l’Accademia di Fisica, di Storia Naturale e di Matematica.

La Porta Alchemica di Roma in una incisione del XIX° secolo

Proprio a Palazzo Riario, nel 1665 la Regina convoca ripetutamente Ole Borch per apprendere dalla sua viva voce i segreti dell’Alchimia. Quell’Ole Borch che darà alla luce, nel 1668, il trattato De Ortu et Progressu Chemiae, con il quale faceva risalire le origini dell’Arte Alchemica alla mitica figura di Ermete Trismegisto, e quindi ad una antica ipotetica “sapienza egizia”. Una tesi questa, già sostenuta quattro anni prima nell’Oedipus Chimicus di Johann Joachi Becher e poi ripresa da John Dee e da quasi tutti i successivi autori di testi alchemici.

Occorre ricordare, a tale proposito, che nel 1653 Cristina aveva fondato l’Ordine Ermetico dell’Amaranto, e che tra le sue letture figuravano testi come il De Mysteriis Aegyptiorum, Chaldaeorum, Assyriorum di Giamblico.

Nel 1666, ancora, Cristina prese contatto con il chimico ed ermetista paracelsiano Johann Rudolph Glauber, che individuava i tre principî della Chimica nel sale, nello zolfo e nel mercurio, e considerava il fuoco (ovvero il Sole) e il sale due vere e proprie Divinità.

L’attivo interesse di Cristina di Svezia per l’Ermetismo e per l’Alchimia risulta essere dunque costante, e tale interesse, ascrivibile ad una vera e propria “missione”, ebbe certamente modo di manifestarsi liberamente e concretamente nel corso del suo soggiorno romano, quando, ormai libera dalle preoccupazioni politiche che l’avevano spinta a girovagare il lungo e in largo per l’Europa, ella poteva dedicarsi anima e corpo alle sue ricerche iniziatiche. La sua collezione di opere vantava migliaia di titoli, tra i quali le opere di Paracelso, la produzione di Johan Theurneisser e di Andrea Libavius, una collezione personale di testi e manoscritti appartenuta all’imperatore Rodolfo II° di Boemia, intere parti del Picatrix e il Liber Razielis Archangeli, una versione latina del Sefer Raziel Ha-Malakh, un grimorio medioevale di Cabala pratica e Magia Angelica.

Justus Van Egmont: Ritratto della Regina Cristina di Svezia come la Dea Diana, 1655 (Roma, Palazzo Corsini)

Come ha rilevato Luciano Albanese in un suo articolo[5], risultò fondamentale, fin dal 1655, la presenza nell’entourage di Cristina di Massimiliano Savelli Palombara, Marchese di Pietraforte, uno dei più grandi alchimisti e iniziati di quel tempo, celebre per la realizzazione della Porta Magica di Roma. Tutto lascia pensare, osserva Albanese, che la Regina abbia affidato al Palombara fin dal suo primo soggiorno romano compiti di tipo operativo, che troveranno la più appariscente espressione simbolica proprio nella Porta Magica, o Porta Alchemica, la cui realizzazione risale verosimilmente al 1680. La costruzione della Porta Magica o Porta Alchemica risale verosimilmente al 1680. Considerata l’unica testimonianza di architettura alchemico-magica del mondo occidentale ancora (almeno “ufficialmente”) esistente, essa oggi si trova all’interno del giardino di Piazza Vittorio, di fronte ai cosiddetti “Trofei di Mario”, in direzione Nord-Est, lungo l’antico perimetro di Villa Palombara. Vi venne collocata intorno al 1888, unica sopravvissuta alla inaudita demolizione della villa operata nel 1873 in seguito ai lavori di costruzione del nuovo quartiere Esquilino. Fatta giustizia ormai delle leggende intorno alla sua genesi (la più nota di queste è che la porta commemorasse un esperimento alchemico grazie al quale un misterioso pellegrino ospite della villa stessa aveva realmente prodotto dell’oro), essa, insieme alle due iscrizioni e complesse simbologie, risulterebbe essere interamente opera del Marchese Savelli Palombara, che, sentendosi vicino alla morte (avvenuta nello stesso anno), volle edificarla come suo visibile testamento spirituale. Quello che resta da accertare, semmai, è il ruolo che, direttamente o indirettamente, può aver avuto Cristina di Svezia nel suo concepimento e nella sua costruzione. La soluzione del problema, tuttavia, potrebbe essere facilitata tenendo presente che Cristina, dati i suoi stretti rapporti personali con il Marchese, che continuarono anche dopo la morte di questi in favore della sua famiglia (espressamene affidata alla generosità della Regina nel testamento del Palombara), non poteva non essere a conoscenza della sua intenzione di lasciare un segno tangibile del comune interesse per la Scienza Alchemica.

È dunque in un ambito iniziatico e intellettuale in cui si muovevano in quegli anni figure come Borri, Borchi, Cassini, Kircher e lo stesso Savelli Palombara, che Francesco Maria Santinelli mosse in quegli anni i suoi passi, ritagliandosi – fra alterne e anche sfortunate vicende – un ruolo non certo secondario.

Osservavo poc’anzi che le varie soste effettuate della Regina in diverse località italiane prima del suo arrivo a Roma dovettero rispondere ad esigenze ben precise, anche di carattere iniziatico, sulle quali la storia non ha ancora fatto piena luce. Ed è, infatti, nel corso di una di esse, che Cristina, soggiornando a Pesaro, entra in contatto con la famiglia Santinelli, prendendo parte ad una serie di grandi feste che quest’ultima aveva preparato in suo onore. Feste al termine delle quali i due fratelli Santinelli, Francesco Maria e Lodovico, decisero poi di seguire la Regina diretta verso l’Urbe Eterna, ricevendo da ella particolari titoli, onorificenze e mansioni.

Come osservava Pericle Maruzzi nel suo illuminante articolo che riportiamo in appendice al presente volume, a Roma Francesco Maria, oltre a rivestire un ruolo di primo piano nel cenacolo iniziatico di Cristina di Svezia, fu presto noto e apprezzato anche come uomo e come scrittore, e nell’Urbe ebbe inizio un nuovo corso della sua vita, dal momento che incontrò, nello stesso anno del suo arrivo, Anna Maria Caterina Aldobrandini, figlia di Pietro, Duce di Carpineto e Generale dell’esercito pontificio a Ferrara, e di Carlotta di Paolo Savelli Principe di Albano (poi risposatasi, in seguito alla morte del marito avvenuta nel 1630, con il Principe di Cariati Scipione Spinelli.

Tra Francesco Maria e Anna Maria Caterina vi era poca differenza di età e fra i due scoccò la scintilla di un amore travolgente che avrebbe portato a un legame forte e duraturo, anche se foriero di avventure e di straordinarie peripezie. La donna era da poco rimasta vedova dell’ultimo Duca di Acquasparta Francesco Maria Cesi, singolare figura di erudito e di iniziato, che Jean Marie Ragon ci ha indicato come Gran Maestro dell’Ordine Pitagorico. Questi era morto in circostanze definite da molti “sospette” e sul Santinelli cadde l’ombra di averlo fatto avvelenare. In realtà, Santinelli era sicuramente estraneo alla morte del Duca, avvenuta peraltro quando ancora non aveva incontrato la bella Anna Maria Caterina, e il Duca di Acquasparta doveva aver avuto ben altri e più temibili nemici da cui guardarsi le spalle.

Come ci narra lo storico e genealogista Pompeo Litta, «il parentado Aldobrandini si turbò all’udire, che Caterina aveva deliberato di sposare l’amante, tanta era la disparità di condizione tra una Principessa romana e un cavaliere di provincia con cognome oscuro, e tante suppliche furono presentate ad Alessandro VII°, che finalmente fu rinchiusa nel monastero di S. Silvestro, colla speranza che la meditazione potesse indurla a vincere l’amorosa passione». Monastero da cui Francesco Maria tentò a più riprese di farla evadere, tuttavia senza riuscirci. I due riuscirono comunque a sposarsi, anche se per procura, nel 1658, ma erano destinati a restare ancora alcuni anni divisi. Tradotta a Castel S. Angelo, Caterina venne poi affidata alla custodia di sua madre, la Principessa di Cariati, che non esitò a farla rinchiudere in un convento a Napoli.

Nonostante le sue pene d’amore, Francesco Maria Santinelli riuscì nel 1666 a far pubblicare a Venezia la sua opera più importante, la Lux Obnubilata, e lo fece con lo pseudonimo di Fra Marcantonio Crassellame Chinese, dedicandola a Federico III°, Re di Danimarca e Norvegia, altra singolare figura di iniziato, nonché mecenate di ermetisti e alchimisti.

L’anno successivo, il 12 Febbraio 1667, con la complicità di un nobile suo amico, il Santinelli riesce finalmente a far fuggire l’amata dal convento napoletano. I due innamorati così si ricongiunsero e, rinnovate le loro nozze a Castiglione della Pescaia, in Maremma, dove giunsero via mare, si rifugiarono a Mantova, sotto la protezione della Duchessa Isabella Gonzaga, stabilendosi poi a Venezia, dove vissero tranquilli sotto la protezione dei sovrani austriaci. Dalla loro felice unione nacquero una figlia, Anna Caterina Leonora, tenuta a battesimo dall’Imperatrice Leonora (avvenimento celebrato in versi dal genitore), e un figlio, Paolo Emilio.

Federico Gualdi ritratto nel frontespizio della Critica della Morte, 1690

L’Imperatore Leopoldo I° d’Asburgo tenne sempre Santinelli in grandissima considerazione, sicuramente non (o quantomeno non solo) per i suoi meriti poetici e letterari, bensì – ed è più plausibile – per le sue profonde conoscenze iniziatiche. Una considerazione ancora maggiore di quella che aveva riservato al Marchese pesarese Cristina di Svezia. Una questione, questa del profondo legame che si instaurò fra il Santinelli e la sua amata e la coppia imperiale asburgica, che è ben lungi dall’essere stata adeguatamente approfondita ed indagata dagli storici, che invano hanno sperato di trovarne la chiave negli archivi viennesi. Fatto sta che Leopoldo I° conferì al Santinelli la carica onoraria di Cameriere della Chiave d’Oro (Ciambellano di Corte), nonché il titolo di Consigliere Aulico Imperiale, quest’ultimo comportante anche un cospicuo vitalizio.

A Venezia Santinelli strinse rapporti anche con un altro grande iniziato suo contemporaneo, l’alchimista, occultista ed ermetista Federico Gualdi, alla cui enigmatica figura venne accostato in un testo del 1690 recante la firma del «Signor di Comiers, Prevosto di Ternan», Critica della Morte[6], in cui, per sua la mirabile «scienza sovrumana», gli venne attribuita la paternità del trattato alchemico Androgenes Hermeticus. Del Gualdi, personaggio dall’oscuro passato, si ignorano l’esatta data ed il luogo di nascita (sappiamo con certezza solo che soggiornò nella città dei Dogi dal 1670 al 1678) e su di lui correva la voce che vivesse da qualche secolo, avendo acquisito una sorta di immortalità, anticipando di alcuni decenni i temi e i motivi della vicenda dell’altrettanto enigmatico Conte di Saint Germain. E, in effetti, ad alimentare questa leggenda ha contribuito notevolmente il fatto che nessuna traccia storica certa riguardante la data della morte di Federico Gualdi è stata effettivamente rinvenuta fino ad oggi. Sappiamo solo che, andatosene improvvisamente via da Venezia, di lui si sono totalmente perse le tracce. Per di più, nelle Nouvelles Extraordinaires de Divers Endroits (una pubblicazione conosciuta anche come Gazette de Hollande) del 3 Aprile 1687, apparve il frammento di una lettera datata 7 Marzo dello stesso anno e proveniente da Venezia, che svelava ai lettori l’esistenza di un tale Löuis Galdo, dell’età di quattrocento anni, che portava sempre con sé un suo ritratto realizzato da Tiziano, morto centotrenta anni prima. Il misterioso personaggio era sparito da tre mesi da Venezia, ed era opinione comune che possedesse il segreto della Medicina Uni-versale.

Ma torniamo a concentrarci sulla figura di Francesco Maria Santinelli. Sappiamo che il Marchese, dopo tante vicissitudini e dopo il suo non breve soggiorno alla corte austriaca, fece ritorno a Roma nel 1667, dove si stabilì definitivamente e dove morì trent’anni dopo, il 22 Novembre del 1697.

Definito da Pierfrancesco Giannangeli «l’alchimista che rischiarò le tenebre»[7], Santinelli è stato a lungo dimenticato, fino a che la sua figura è stata riscoperta e riportata all’attenzione del pubblico e degli studiosi nella seconda metà del ‘900, grazie a una parziale ripubblicazione delle sue opere e a tutta una serie di saggi a lui dedicati, fra i quali occorre ricordare quelli di Anna Maria Partini.

 

La copertina della nuova edizione del saggio di Arturo Reghini Un’ode alchemica di Fra Marcantonio Crasellame Chinese

[1] Massimo Marra: L’ode alchemica del Crassellame: nota introduttiva di Massimo Marra. Su www.levity.com.

[2] Elena Frasca Odorizzi: Il Catechismo Ermetico-Massonico della Stella Fiammeggiante del Barone di Tschudy. Articolo su www.riflessioni.it.

[3] Ibidem.

[4] Massimo Marra: Art. citato.

[5] Luciano Albanese: Cristina di Svezia e la Porta alchemico-ermetica di Piazza Vittorio in Roma. Articolo su http://www.memphismisraim.it.

[6] La Critica della Morte, ovvero l’apologia della vita esposta in lingua Francese dal Signor di Comiers Prevosto di Ternan. Trasportata in Italiano a prode universale & aggiontoci un Racconto con alcune Lettere curiose per gli amatori della Scienza Ermetica (ed. Sebastiano Casizzi, Venezia 1690).

[7] Pierfrancesco Giannangeli: Santinelli, l’alchimista che rischiarò le tenebre. Articolo su Il Resto del Carlino, 7 Settembre 2016.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *