11 Aprile 2024
Julius Evola Libreria

A proposito di Julius Evola e l’utopia della Tradizione – Giuseppe Del Ninno

Ci sono autori e libri dopo aver letto i quali, la nostra vita non è più la stessa. Evola è sicuramente uno di questi autori, con la sua opera omnia. E’ per questo motivo che, in deroga alle mie abitudini, nel presentare questo saggio di Giovanni Sessa, permetterò alcuni brevi cenni autobiografici. Come molti della mia generazione, incontrai questo Maestro del pensiero novecentesco fra le pagine di “Orientamenti”, un opuscolo che mi fu illustrato dall’amico Mario Trubiano, che me lo forniva come propedeutico allo studio di Evola. Proprio così mi disse: allo studio, non alla semplice lettura. Eravamo all’inizio degli anni 70 e a quel titolo, sempre su indicazione dell’amico, avrei fatto seguire “Gli uomini e le rovine”, per poi cimentarmi con “Rivolta contro il mondo moderno”. Da quel momento, il mio sguardo sulla storia, sulla religione, sulla politica e, in generale, sul mondo, non fu più lo stesso. La successiva lettura – e lo studio… – di autori della Tradizione, come Guénon innanzitutto, e poi Otto, Schuon, Coomaraswamy, Schneider e così via non fece che integrare i miei convincimenti, allontanandomi, fra l’altro, dal cattolicesimo nel quale ero cresciuto per consuetudine familiare (e al quale poi mi sarei ravvicinato, disegnando un mio autonomo percorso esistenziale).

Dall’insegnamento evoliano avevo tratto in particolare tre indicazioni “operative”: l’esortazione ad andare oltre le apparenze, sia della natura – tanto nella dimensione microcosmica che in quella macrocosmica – sia della storia; che fossimo all’interno dell’Età del Ferro, dunque in una fase d’inarrestabile decadenza; e infine che solo attingendo alle risorse interiori, da ricollegare al mondo della Tradizione, avremmo assolto la nostra missione di “uomini fra le rovine”. Tutta la vasta e diversificata produzione evoliana, a un certo punto, mi è sembrato convergesse, in parallelo con la sua esistenza, verso gli esiti dell’apolitìa, quando non sulla “via della mano sinistra”, finalizzata ad accelerare la fine dell’età oscura e, chissà, l’eterno ritorno di quella aurea. In questa chiave, mi apparivano se non ancillari, quanto meno propedeutiche all’insegnamento con cui si concludeva la vita stessa di Evola, le sue sortite nel campo dell’arte (il dadaismo), della filosofia, delle dottrine orientali, dell’alchimia, della teurgia e della stessa abbondante pubblicistica. Insomma, tutta la sua esperienza – anche quella metapolitica a sostegno critico del fascismo, prima, a supporto e guida in particolare dei giovani “reduci”, dopo la guerra perduta – mirava alla realizzazione spirituale, in un cammino graduale parallelo a quello biografico. Ebbene, il libro di Giovanni Sessa ha modificato non poco queste mie convinzioni. La sua interpretazione dell’opera evoliana, con particolare riguardo all’accezione del termine “tradizione” ed alla valutazione del suo “periodo filosofico”, inducono a vedere con occhi diversi tutto il percorso esistenziale e sapienziale di Julius Evola.

Fin dalla prefazione di Massimo Donà, che coglie bene quest’ultimo aspetto del lavoro di Sessa, appare chiaro come la filosofia evoliana non si riduca al mero aspetto speculativo e astratto, non sia avulsa dalla realtà. Di più: Sessa riesce a cogliere l’insegnamento del suo Autore aldilà di quel che Evola stesso può aver sostenuto consapevolmente. E questo, mi sento di aggiungere, è il compito ultimo di ogni esegeta, di ogni critico, in qualunque campo. Così la filosofia, per Sessa, ci mette davanti a tutte le questioni radicali, ci azzanna, starei per dire, col morso del serpente, dal quale non si guarisce. In una simile ottica, è evidente come la stessa nozione di Tradizione non possa esaurirsi nel riferimento al passato storico e contingente, ma vada assunta come punto di partenza, per ciascuno, nell’adempimento della missione di ri-cominciare nel luogo dove “tutto è possibile”; e questo lavorio non può non comportare una sostanziale trasformazione della coscienza; e questo luogo altro non è che l’utopia, non già nell’accezione moderna di modello astratto, collettivo e irraggiungibile, bensì di meta di un percorso “possibile, sempre transitabile, in quanto inerente la prospettiva individuale”. Sessa da un lato sottolinea l’originalità della ricerca evoliana, dall’altro la inquadra nella temperie culturale dell’epoca, per poi ricavarne indicazioni per quella che può essere oggi quella missione. E qui torniamo alla ragione ultima dell’approccio interdisciplinare di Evola, come sopra riassunto, dalle avanguardie artistiche alla metafisica dell’alpinismo e a un certo anarchismo, passando per lo studio e la pratica delle discipline esoteriche.

Lo scenario in cui s’inquadra l’azione evoliana fra il primo dopoguerra e lo scoppio del secondo conflitto mondiale è quello della crisi, intesa come “sconfinamento generalizzato”; esperienza che stiamo vivendo oggi anche in forma di progressivo disconoscimento delle frontiere nel mondo globalizzato, laddove confine è sinonimo d’identità, di stabilità, di protezione, di confronto fra diversità. In un simile contesto, che prefigura l’avvento della “società liquida” (e, per inciso, in questa direzione un’autentica visione profetica si trova in “Maschera e volto dello spiritualismo contemporaneo”), Evola filosofo si pone, secondo Sessa, sia pure in termini critici, a partire da Parmenide e fino all’idealismo, nell’alveo perlopiù carsico della cultura occidentale; una cultura che assume come base conoscitiva il dualismo “vero/non vero”, quest’ultimo elemento però nel senso non già di negazione, bensì di alterità positiva. In proposito, sono illuminanti le pagine che Sessa dedica all’interpretazione di Dioniso nella visione evoliana: ne accenneremo in seguito.

In contrapposizione alla concezione meccanicistica dell’attualismo gentiliano, Evola virò in direzione dell’”idealismo magico” come filosofia della libertà, nel significato più alto e vertiginoso del termine; e se la sua parabola esistenziale sembra concludersi – in particolare dopo la catastrofe del bombardamento su Vienna, nel corso del quale egli rimase paralizzato – con una sconfitta sul terreno dell’azione politica e specialmente dell’azione contro le forze sottostanti alla storia, la “filosofia della libertà” è una sorta di manifesto operativo, volto alla nascita dell’Uomo nuovo. Su questa linea, appare chiaro che il messaggio di Evola non può essere circoscritto alla politica, ma, assumendo i connotati di una mutazione antropologica, è indirizzato al modello aristocratico dell’uomo differenziato: la democrazia, il populismo, il consenso sono categorie estranee al pensiero evoliano e dalla mancata comprensione di tale estraneità deriva, fra l’altro, il cosiddetto “mito incapacitante”, che ha frenato iniziative meramente politiche di pur appassionati frequentatori delle pagine evoliane, interessati principalmente alle vie della politica. Se di fallimento di può allora parlare riguardo al lavoro culturale di Evola, durante l’era dei fascismi trionfanti, esso può e deve essere individuato non solo e non tanto nell’insufficiente influenza esercitata sui detentori del potere, ma soprattutto nella mancata nascita di quell’Uomo nuovo, di quella mutazione antropologica e culturale che pure aveva costituito uno degli obiettivi di fondo di quei regimi.

Altro malinteso ricorrente fra i critici di Evola attiene al suo preteso riferirsi al passato: ma, spiega bene Sessa, in quell’Autore l’Origine non è il passato, bensì il “sempre possibile”; un’insegna, questa, sotto la quale sembrano finire in secondo piano i ricollegamenti iniziatici indispensabili, secondo l’ortodossia tradizionalista, alla realizzazione spirituale (e qui va ricercato uno dei motivi del disaccordo con Réné Guénon). Questa posizione evoliana, fra l’altro, spiega il suo antimodernismo, se il “moderno” non può che ignorare o contrastare la “nuova origine”; un antimodernismo che lo accomuna, ad esempio, a Heidegger, ma di grana e motivazioni diverse da quelle di altri pensatori antimoderni (un nome solo fra tutti: Pasolini). La nozione di “compossibile” scaturisce, sostiene Sessa, dalla lettura di Michelstaedter, con particolare riguardo alla contrapposizione “persuasione/rettorica”, e contiene l’indicazione della via liberamente scelta fra opzioni che, in partenza, appaiono egualmente valide. Ma dicevamo dell’idealismo magico, altro discrimine rispetto alla filosofia accademica, puramente speculativa: mentre quest’ultima tende a dirimere gli enigmi attraverso la pre-disposizione del reale, il primo indica autonomi sentieri di ricerca, preservando gli enigmi stessi e, alla fine, il mistero. Si vede allora come il “sempre possibile” si ponga in contrasto con la visione deterministica della storia: una posizione in singolare assonanza con quella del cattolicesimo – che però si trova in difficoltà ad argomentarla razionalmente – laddove in entrambe vi è un macrodisegno necessitato da una volontà trascendente (di tipo lineare nel cattolicesimo, in direzione degli “ultimi tempi”; di struttura ciclica nella visione tradizionale), macrodisegno all’interno del quale, sempre in entrambe le visioni, trova peraltro spazio il libero arbitrio del singolo, autore del proprio disegno microesistenziale.

Tornando alla dimensione politica, l’evoliana filosofia della libertà trova il suo correlato nell’imperiologia, dal che discendono i tratti utopici della sua dottrina e che ritroviamo nel titolo di Sessa. Tale concezione fonda allora la critica alle ideologie ed alle realizzazioni totalitarie dell’epoca. D’altro canto, secondo lo stesso Evola, con l’idealismo magico finisce la filosofia, e il nichilismo – teorico e pratico – si pone come luogo d’incontro delle “moderne” contraddizioni, tanto che “il weberiano disincanto viene superato da un nuovo incantamento, con una sorta di radicarsi nello sradicamento”. Visioni folgoranti del futuro coglie poi Sessa nelle pagine in cui si parla della filosofia del consumismo: “L’uomo desiderativo, il nichilista gaio, vive e insegue bisogni che l’impianto (il sistema) mette alla portata anche degli ultimi”. Su questa linea di radicale contrasto, non stupisce come la libertà evoliana, per l’Individuo Assoluto, non sia “libertà da”, ma consista nel “negare ogni fede, violare ogni legge… riaffermarsi in forza di uno scetticismo attivo”. Del resto, vi è un filone del pensiero occidentale, da Nicolò Cusano a Heidegger, dove coincidono – sono “compossibili” – affermazioni e negazioni, libertà e necessità; siamo, sul terreno gnoseologico, a quella concordia discors presente anche nelle elaborazioni teoriche di Massimo Scaligero, che fece parte della ristretta cerchia degli amici di Evola. A questo punto, non si può dimenticare, fra le sue fonti, l’Unico stirneriano, e il collegamento appare cristallino nella relazione da lui colta fra l’Atto dell’Individuo Assoluto e quelle che definisce “potestates cosmiche” (fra l’altro, negli stessi anni in cui elaborava la sua filosofia, Evola sviluppava la sua esperienza teurgica, nel Gruppo di Ur, ancora una volta in piena coerenza). Ed ecco perché la filosofia evoliana si risolve in fenomenologia dell’Individuo (ed ecco anche, a parer mio, l’origine del distacco dalla politica), in costante collegamento fra micro e macrocosmo, proprio come nella tradizione ermetica. Si capisce inoltre perché Evola si rivolgesse in quel periodo agli ambienti neo-pitagorici e, comunque, ai più seri circoli occultistici, allo scopo di armonizzare i processi dinamici di quelle “potestates” con la “vita coscienziale” del singolo; in termini alchemici, l’Individuo Assoluto è colui che ha portato a compimento le tre fasi della realizzazione spirituale: l’Opera al Nero, l’Opera al Bianco, l’Opera al Rosso.

Tuttavia, come abbiamo accennato, la concezione imperiologica, o meglio la sua elaborazione e il tentativo di diffusione – anche sulle pagine delle riviste culturali dell’epoca – era ritenuta da Evola doverosa e opportuna, pur fra difficoltà e incomprensioni, durante il fascismo: Evola sembra farne una questione di atmosfera, di ambiente favorevole a quella realizzazione spirituale dei singoli che era in cima ai suoi pensieri. Nasce così “Imperialismo pagano”, il primo esempio di applicazione politica della “filosofia della coscienza”, dove si vuol dimostrare l’incompatibilità – proprio in vista della sottoscrizione dei Patti Lateranensi – tra Fascismo e Cristianesimo. Tale visione “regale” – ed Evola recepisce in toto la definizione dell’alchimia come “arte regia” – comporta l’affermazione di una differenza sostanziale fra chi è investito d’autorità dall’alto, avviando in sé “un processo di autotrasformazione”, e la massa degli altri uomini. In fondo però, se ben differenti ne sono gli sviluppi, questo principio non è molto diverso da quanto asseriva S. Paolo nell’Epistola ai Romani, a proposito di ogni autorità che può derivare solo da Dio… Comunque, su questa via, in Evola, libertà e potenza vanno a coincidere, laddove potenza – come è evidente, ad esempio, anche nell’induismo – non è certo sinonimo di potere materiale e tantomeno di violenza. Si accennava alla cultura della crisi, in auge negli anni 30 del 900. Ebbene, per Evola, aldilà delle contingenze storiche, la crisi è “…la condizione naturale di chi si ponga sulla strada della conquista della propria assolutezza”: in questa chiave dinamica e libertaria, viene declinata ancora una volta la sua filosofia della libertà. Dicevamo inoltre di Dioniso: è degna di nota l’interpretazione che Sessa fornisce della definizione evoliana di quel dio, non già simbolo dell’alterità né dell’indifferenziato – del caos – e tanto meno della liberazione di ciò che è represso, come voleva Marcuse; Dioniso va invece inteso come compresenza agonistica e tensione relazionale degli opposti, in un continuo “rovesciamento” di realtà e di visione. Questa, secondo Otto, costituiva l’originaria “dualità” di Dioniso, sempre in divenire. “Dioniso, insomma, come figura della libertà originaria”, conclude Sessa. E Giorgio Colli: “…l’estasi non è il fine dell’orgiasmo dionisiaco, ma soltanto lo strumento di una liberazione conoscitiva”. Una via “secca” della gnosi, in linea con l’equazione personale evoliana, e in tale ottica, Apollo altri non è che la maschera di Dioniso…

Molto altro vi sarebbe da annotare a margine del lavoro di Sessa (ad esempio nelle pagine su Andrea Emo e Carlo Michelstaedter), ma le considerazioni fin qui svolte dovrebbero bastare a suscitare l’interesse del lettore. A proposito di Tradizione, sulla quale tanti hanno scritto, troppo spesso a sproposito (perfino uno studioso serio come Zolla), riporto soltanto una definizione di Romano Gasparotti – filosofo allievo di Emanuele Severino – secondo il quale “… la tradizione è la capacità di essere attivamente fedeli alla chiamata proveniente dal non-luogo di una profondità e di un’altezza, che travalica e sovrasta ciò che è soltanto umano, immediato, utilitaristico…”; insomma, una declinazione del concetto di trascendenza, che però non trova spazio nella visione evoliana: per essa, “l’universale vive solo nell’individuale, ma senza alcun Atto puro ipostatizzato come nella dimensione onto-teo-logica” (definizione, quest’ultima, di Sessa). E ancora; “…valore è soltanto ciò che esiste per se stesso” (Evola, “Saggi sull’Idealismo magico”). Si capisce allora una volta di più, alla luce di questa lettura di Sessa, come la filosofia evoliana si apparenti alla via dei poietes come facitori del proprio cammino verso l’Alto, modello non imitabile e non circoscrivibile nel chiuso di una scuola. Forse anche per questo, Julius Evola non ha lasciato autentici discepoli.

(http://www.oakseditrice.it/catalogo/julius-evola-e-lutopia-della-tradizione/)

Giuseppe Del Ninno

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