13 Aprile 2024
Appunti di Storia

1921: Primavera di Bellezza (settimo capitolo)

 

13. Quegli “affarini”

In questo quadro, un particolare di non secondaria importanza è che, spesso, l’armamento avversario è allo stesso livello di quello fascista; in particolare nel periodo 19/20, la penuria di mezzi di offesa idonei sarà molto sofferta dai mussoliniani; illuminante la corrispondenza intercorsa tra il Fascio di Firenze e il Comitato centrale milanese.

Il 24 agosto del ’20, scrive il segretario amministrativo fiorentino Montanari:

Caro Rossi,[…]per il 12 settembre, giorno della manifestazione che stiamo per fare grandiosissima, sapendo che vi sarà qualcosa per l’aria, più che altro con gli anarchici, le nostre squadre sono malamente armate…Qua ci temono perché credono che si abbia un arsenale bell’e buono…e invece, siamo sprovvisti di tutto. Mussolini promise al nostro Galardini, quando venne a Milano, che le armi doveva in parte sussidiarle il Comitato centrale. Quanto potrete inviare sarà ben accolto: con una rivoltella di numero che ci avete inviato, ci si può a malapena suicidare…Io credo che la questione di quegli affarini sia vitale per noi. E specialmente per Firenze, dove si può armare circa ottanta soci, ma con che cosa? …capirà bene, mica tutti i fascisti possono sobbarcarsi una spesa di 100 e più lire!

La risposta di Milano non è delle più incoraggianti:

Caro amico,[…]in quanto a quegli arnesi, il Comitato centrale non può assumersi nessun impegno verso i singoli Fasci, per intuitive ragioni finanziarie: le difese locali devono essere escogitate sul luogo.

 

Stessa musica, nell’aprile, con il Fascio di Parma, che ha fatto presente al Comitato centrale di avere “assolutamente bisogno di un numero buono di bastoni potenti e di armi da fuoco” per difendersi dalle violenze degli avversari, ma si è meritato la pungente risposta di Pasella: “Mi pare impossibile che a Parma non posiate procurarvi 50 bastoni solidi. A Milano non ve ne sono affatto”

Alla difesa e, quando possibile, all’offesa deve bastare un “bastone solido”, del tipo di quello al quale è dedicata l’irriverente poesiola intitolata appunto “Sor bastone”:

Dal labbro tuo s’innalza

Anzi discende

Loquela tanto calda e tanto saggia

Che ognun convince

Perché ognun l’intende

E più l’intende

quanto più l’assaggia

L’epilogo dell’avventura fiumana muta un po’ la situazione: arrivano in Italia molte armi, e, dall’inizio del ’21, le squadre fasciste se ne approvvigionano in buona misura. Fiume è un vero arsenale: 18 sono i piroscafi carichi di armi sequestrate che abbandonano la città, ma, ciò nonostante, molte sono ancora quelle che tornano in Italia clandestinamente:

Il grande rifornimento di armi venne proprio da Fiume. Col crollo della resistenza fiumana, tutte le armi arrivarono in Italia, portate di nascosto o no. Erano soprattutto armi leggere, cioè fucili, rivoltelle e mitragliatrici, e ce ne fu una distribuzione larghissima.

Migliora, così, il livello generale dell’armamento, quasi dovunque costituito, fino allora, in massima parte dalle armi che ciascun combattente si è portato a casa come souvenir, con l’unica eccezione rappresentata dalle zone di confine, dove il passaggio di vari Eserciti, per quattro anni ha lasciato a disposizione di tutti una consistente eredità costituita da strumenti bellici di vario tipo.

Ma, nonostante Fiume, la situazione in molte zone è ancora critica; il segretario del Fascio di Piombino scrive a  Pasella nel febbraio:

Fra i nostri iscritti, c’è poi chi è perfino sprovvisto di rivoltella, e non ha i mezzi per comprarsela. E’ possibile portare in giro i fascisti, e impedire che gli anarchici ci disturbino, senza essere armati? L’arma in tasca dà poi maggiore sicurezza, e, chi non l’ha, in circostanze critiche non può mantenere quel contegno di fronte alla provocazione aggressiva che per il buon nome dei fascisti d’Italia si impone.

 

La buona volontà ed il coraggio possono fare miracoli; se qualche squadra (e non sempre delle più “bellicose”) ostenterà enormi mitragliatrici dal funzionamento talvolta incerto, ad una decina di squadristi della Disperata  basteranno “due pistole per uno… un sacco di proiettili e… nove bombe Sipe nascoste fra gli asciugamani”, per andarsene bel belli, in una vettura di terza classe, a sfidare i temuti e ben armati socialisti di Grosseto nella loro città.

I mesi passano, ma la situazione non migliora in maniera sostanziale: Balbo mette ogni cura per assicurare la massima efficienza anche in fatto di armi alle squadre fasciste, ma questo sarà sempre un punto dolente.

Turati viene convocato, alla vigilia della Marcia, da Mussolini a Milano per riferire sulla situazione di Brescia:

Dopo alcune domande vaghe sulla situazione della provincia, mi chiese a bruciapelo quante armi avevamo. Alla mia risposta: “Non tutti hanno la rivoltella ma c’è qualche bomba e una decina di moschetti”, parve non far gran peso

 

 

 

14. Dentro e fuori dal Parlamento

 

Il 7 aprile è sciolta la Camera; è un momento essenziale  della manovra giolittiana,  che punta ad utilizzare i fascisti per “rendere ragionevoli” socialisti e popolari, in vista di una futura alleanza di Governo; in tale prospettiva, l’inserimento di Mussolini e dei suoi seguaci nei “blocchi elettorali” è uno strumento del quale l’anziano statista piemontese crede di potersi servire, per più comodamente poter continuare ad amministrare il Paese dopo le elezioni.

E’ evidente l’errore di valutazione del fenomeno fascista, in gran parte derivante dall’impossibilità di catalogarlo tra i movimenti politici ”classici”, pilotabili in Parlamento a seconda delle esigenze.

Da qui, più che da qualsiasi filofascismodi Giolitti, nasce l’idea dei “blocchi nazionali”, destinati a rimanere un  grosso equivoco, come chiaramente dice Mussolini sul Popolo d’Italia del 26 aprile:

Si può dire dei blocchi quello che il capriccio, la bestialità, la buona e la cattiva fede suggeriscono, ma una cosa non si può umanamente e decentemente dire, questo: che i blocchi siano giolittiani. Sono tutti antigiolittiani. Se Giolitti avesse previsto siffatta situazione, forse avrebbe dilazionato lo scioglimento della Camera. Di giolittiani in Italia, come sempre, non ci sono che i socialisti “ufficiali”.

I fascisti, comunque, non intendono lasciarsi sfuggire questa occasione, per cogliere i frutti della loro opera di proselitismo; lo stesso 7 aprile, il Comitato centrale delibera la sua disponibilità ad aderire ai blocchi nazionali; l’unica discriminante che viene posta, è che i candidati alleati abbiano avuto tutti degna condotta durante la guerra.

E’ questo un elemento al quale è molto sensibile la base squadrista che, per il resto, rimane e rimarrà “estranea” alle manovre politiche; per essa Giolitti, il “bandito di Dronero” non gode molte più simpatie di Nitti; è un’avversione istintiva, epidermica; non tutti sono in grado di tracciare l’efficace parallelo tra i due, come fa, in un lungo ed articolato confronto Corradini:

Ad onta dell’odio e della feroce lotta di diffamazione ed intrigo, Nitti e Giolitti si integravano perfettamente, uomini l’uno e l’altro della precoce senilità dello Stato democratico italiano, protagonisti del parlamentarismo socialdemocratico, inetti l’uno e l’altro ad intendere ad amare e servire la dinamica grandezza della nuova storia di Italia; bandito l’uno, sospettato l’altro dall’Italia della guerra e della vittoria; deliberati l’uno e l’altro a trarne vendetta.

Questa si sforzarono di compiere, perfezionando, oltre che nella competizione internazionale, anche nella intrinseca vita e nell’anima stessa della Nazione, quell’opera di dissolvimento della vittoria italiana già inconsapevolmente iniziata di fronte allo straniero dalla fatua ignoranza del buon patriota Orlando.

All’esterno e all’interno, Nitti aveva compromesso, corrotto e diffamato la vittoria; Giolitti la liquidò. Nitti aveva per l’Adriatico, ufficialmente svalutato e sconfessato il trattato di Londra; Giolitti lo stracciò. Nitti aveva schernito e infangato l’eroica passione italiana e fiumana dell’impresa nazionale di Gabriele D’Annunzio; Giolitti la spense nel sangue. Nitti aveva diplomaticamente e normalmente tradito la Dalmazia; Giolitti la recise dall’Italia vittoriosa e l’abbandonò ai croati. Nitti aveva subdolamente disarmato e annullato il protettorato albanese; Giolitti definitivamente lo rinunciò, con l’onta inaudita di Valona, con cui fu proclamata al mondo la deliberata impotenza dell’Italia a difendere il suo diritto, il suo onore, il suo sangue, ove che sia.

Nitti aveva, nel levante, rinunciato ad ogni acquisto territoriale, perfino promesso, con Tittoni, il Dodecaneso alla Grecia; Giolitti, con Sforza, evacuò Adalia e tornò promettere il Dodecaneso al signor Venizelos. L’uno e l’altro praticando la medesima politica bifronte di impotenza così verso la conquista anglo-greca come verso la reazione kemalista, che ha condotto l’Italia alla totale esclusione. Allo stesso modo l’uno e l’altro avevano tenuto in Europa la medesima politica di equivoco revisionismo conciliatore, che ci valse al tempo stesso il disprezzo e la sopraffazione dei vincitori e la minacciosa insolenza dei vinti. L‘uno e l’altro, col medesimo spirito di cinica fiducia nell’Italia, avevano dilapidato e avvilito nel mondo la vittoria italiana…

Nitti aveva chiamato i socialisti alla conquista del Parlamento e dei Comuni e dell’Erario; Giolitti tollerò che occupassero le fabbriche, che controllassero i trasporti di terra e di mare, che si asservissero, servi a loro volta dei voleri di Mosca, la politica estera italiana. Nitti aveva alla loro vendetta scarificato l’esercito vittorioso, mutilandolo della sua forza, disgregandolo nella sua compagine, diffamandolo con l’inchiesta di Caporetto, insultandolo con l’atroce amnistia dei disertori, abbandonandolo all’oltraggio della plebaglia sovversiva; Giolitti infierì costringendolo al sacrificio fiumano, al tradimento dalmata, alla vergogna di Valona, e con la più demagogica confisca punì coloro che nella tremenda guerra lo avevano armato,i grandi industriali che due volte avevano fatto e rifatto, la seconda volta in soli quattro mesi, il formidabile armamento con cui l’Italia belligerante aveva finalmente conquistato la vittoria..

Così l’uno e l’altro mandatari della vendetta parlamentare e socialista, vendicavano della vittoria, disfacevano i frutti, le forze, i diritti, l’animo della vittoria, e davano l’Italia vittoriosa al potere del socialismo e del parlamentarismo.

 

L’analisi dell’uomo politico nazionalista è circostanziata e motivata, ma non alla portata di tutti; come nota Balbo nel suo diario, ancora  alla data del 25 febbraio dell’anno dopo:

E’ straordinario come i miei squadristi ignorino persino il nome dei Ministri dimissionari e di quelli in carica.

Una volta, la politica era tutta concentrata sui cataclismi di Montecitorio. Oggi, soltanto qualche centinaio di professionisti della crisi parlamentare se ne occupa. Noi continuiamo a perlustrare le campagne a combattere contro i nemici che non hanno perso l’abitudine di ammazzare i nostri migliori, a occuparci di dare lavoro e disciplina agli operai. Faccia Roma quel che le piace. Qui comandiamo noi. Ci interesseremo di Roma il giorno che potremo piombare su quel nido di gufi per farne piazza pulita.

 

Sono episodi come la morte di Arturo Breviglieri, il 10 aprile, in un’imboscata a Pontelagoscuro, a colpire di più la sensibilità degli squadristi; Breviglieri è uno squadrista molto noto nella provincia ferrarese, ideatore della famosa squadra “Celibano”, il cui nome ha un’origine curiosa che vale la pena di raccontare.7- 1921

Gli squadristi ferraresi solgono riunirsi, ai primi tempi, nella saletta del caffè Mozzi, nel centro cittadino, ed ordinare “cherry brandy”; Breviglieri italianizza il nome della popolare bevanda in “Celibano”, e così battezza la sua squadra d’azione, composta da ventuno sfegatati, della quale il 4 aprile sarà tesserato “ad honorem” anche Mussolini.

La squadra, dopo la morte del suo fondatore, si chiamerà, in suo onore “Celibano – Breviglieri”, e si guadagnerà un posto di tutto rispetto nella memorialistica fascista:

D’allora, quella pattuglia di arditi del fascismo, quella minuscola compagnia della morte che, indemoniata  e spregiudicata, si buttava a corpo perduto e denti stretti nel fuoco delle spedizioni più azzardate e più prestigiose, si chiamò Celibano, e questo nome rimase nelle cronache del tempo e nell’animo delle genti ferraresi, come sinonimo di freddo eroismo e di balenante gaiezza. Le avventure e le imprese, le ariose fantasie e le scalmanate rappresaglie della Celibano corsero infatti, sulla bocca di ogni cittadino e sulla groppa di ogni leghista, quasi fosse tornato il tempo  di quei famosi avventurieri del nostro Rinascimento, maneschi e inafferrabili, generosi e mattacchioni, che ebbero nome di eroi senza peccato e senza paura.

 

La morte di un camerata non interrompe la marcia fascista: il 24 aprile si svolge il grande concentramento su Bolzano, per riaffermare i diritti della vittoria italiana contro i tedescofili della città che, non opportunamente contrastati dallo “Sgovernatore” Cedrano, vogliono addirittura partecipare alle votazioni per l’annessione alla Germania, che si svolgono in Austria.

L’intenzione è evidentemente provocatoria ed offende il senso del sacrificio italiano: su Bolzano confluiscono fascisti di Trento, Brescia e Verona, guidati, tra gli altri,  da Achille Starace, vero eroe di guerra, con una medaglia d’argento, quattro di bronzo, due croci al valor militare , una croce francese con stella.

I primi incidenti nascono  già fra il 24 e il 25, con molti arresti di parte fascista, e lo stesso Starace contatta D’Annunzio – eterno punto di riferimento per simili iniziative – per procedere all’occupazione manu militari della città.

Non se ne fa nulla, e, dopo qualche giorno di occupazione simbolica del centro cittadino, gli squadristi ripartono alla volta delle loro città d’origine.

Agitate sono anche le cose della politica: a Milano, per esempio, i liberali non vedono di buon occhio l’inclusione in lista di Mussolini e dei suoi seguaci, preoccupati che essi possano alienare ai blocchi le simpatie moderate, a favore dei popolari; altrove si accendono polemiche, talora velate di personalismo, tra gli stessi fascisti, sull’opportunità di partecipare o meno alle elezioni, come avviene a Roma, dove Bottai e Gino Calza Bini si fronteggiano, in maniera molto risoluta.

Da qualche parte, la competizione elettorale è vista con scetticismo: a Ferrara Balbo non è neppure candidato, e a Cremona Farinacci ottiene il posto in lista a fianco dei notabili solo perchè essi da un canto sono convinti che nessuno mai voterà quello “scalmanato”, e dall’altro sperano, con la sua presenza, di garantirsi un tranquillo e sicuro svolgimento della campagna elettorale, senza dover subire le violenze socialiste, come è accaduto qualche anno prima.

Anche a Modena, Carpi, Reggio Emilia, Parma e Piacenza, dove cioè la presenza squadrista è più forte e vivace, i fascisti si ritirano, in un primo momento, dai blocchi, perché troppo difficile la convivenza con i vecchi arnesi della politica locale, e solo dopo ripetute trattative ed inviti, accettano di rientrare.

L’episodio più significativo avviene a Verona, dove i fascisti, guidati da Alberto De Stefani, escono il 23 aprile dal blocco e accettano da soli la sfida elettorale, anche per distinguersi nettamente da quei “Fasci” anomali che  l’Associazione agraria ha costituito nel basso vicentino, a supporto della campagna del listone giolittiano.

Questi strani “fascisti”, che volutamente giocano sull’equivoco nominale per danneggiare i mussoliniani, altro non sono che l’espressione delle associazioni padronali, visti con malcelata diffidenza dai fascisti “originali” che, nel giugno, a Vicenza, con un loro ordine del giorno, ne denunceranno con vigore la posizione classista.

La decisione dei fascisti veronesi è accolta con entusiasmo da quanti hanno mal digerito un certo tatticismo delle scelte milanesi: Bolzon è attivo propagandista della lista intransigente, mentre De Stefani, il futuro “Deputato d’assalto”,  ne resta il vero leader e si diverte a spaventare i pacifici borghesi della sua città:

…dentro o fuori del Parlamento, noi faremo la nostra strada… Noi non abbiamo paura delle Guardie regie, né dei nostri Carabinieri… non abbiamo paura di nessuno; noi abbiamo il cervello duro ed anche un pugno che pesa.

 

La campagna elettorale è costellata, in tutta  Italia, da una serie di violenze piccole e grandi, dalle bastonature paesane alle distruzioni delle Camere del lavoro, fino agli assassinii di militanti dell’un e dell’altra parte.

Fanno scalpore la distruzione della Camera del lavoro, in corso Galileo Ferraris, a Torino, decisa per rappresaglia dopo l’uccisione dell’operaio fascista, mutilato di guerra, Cesare Oddone, e conclusasi con la morte di un altro fascista, il diciannovenne squadrista Amos Maramotti; le giornate antizanelliane di Fiume; il tragico, per certi versi “inaspettato” episodio di Cittadella Veneta.

Qui, ad affrontare un forte nucleo di squadristi padovani , recatisi in paese per reclamare la liberazione di alcuni camerati arrestati, sono i Carabinieri, che aprono il fuoco e uccidono tre squadristi universitari padovani.

La reazione sembra esagerata: non è mai successo, finora che squadristi abbiano a loro volta sparato sulle forze dell’ordine; un vero pericolo per i Carabinieri non c’è stato nemmeno a Cittadella, probabilmente ha  giocato un brutto tiro la stanchezza e il nervosismo di queste giornate elettorali, oltre allo scarso autocontrollo del Maresciallo comandante la Stazione.

L’episodio è destinato a restare isolato, anche perché, in genere l’Autorità è consapevole che il vero pericolo viene dall’altra parte, che, in questo stesso periodo, per esempio, provoca una vera e propria insurrezione a Cerignola, con   nove morti ed oltre cento feriti.

Alla fine, quindi, il bilancio dell’intera campagna elettorale sarà di un numero di morti (105) e feriti (403) pari quasi a quello dell’intero trimestre precedente, nonostante Mussolini, con tutta la sua autorevolezza, abbia cercato di contenere l’escalation; sul Popolo d’Italia del 19 aprile, dopo i fatti di Foiano della Chiana, ha scritto:

Il discorso che noi teniamo ai fascisti di tutta Italia è molto semplice, e più che un discorso è un ordine categorico: non prendere mai, se non nei casi specialissimi, l’iniziativa di un’azione violenta; eliminare dalla storia del fascismo la cronaca delle piccole violenze individuali; nel caso di incursioni di propaganda in zone ostili, prendere le più diligenti misure di sicurezza; in caso di aggressioni e di imboscate, esercitare la rappresaglia fulminea e risoluta, evitando di estenderla a uomini o istituzioni non impegnate nel conflitto. Ripetiamo ancora una volta che la violenza fascista deve essere ragionante, razionale, chirurgica, non deve diventare un’esercitazione estetica o sportiva, e deve conservare il carattere di una bisogna ingrata, alla quale è necessario sottoporsi finchè certe condizioni di fatto non siano cambiate.

2 Comments

  • carlo g 6 Ottobre 2016

    Mi pregio di conoscere l’ “eretico” Giacinto che generosamente mette a disposizione di tutti le sue ricerche sul fascismo “movimento” (la “primavera di bellezza”). Mi piacerebbe chiedergli se sono state arricchite con recenti ricerche. Le consulterò con grande piacere. Un caro saluto a Germano, se vi è possibile. Complimenti per la vostra rivista. Pur partendo da opposte origini, “convergo” spesso: un caso di convergenze “non” parallele (o forse divergenze convergenti).
    Grazie di cuore
    Carlo Giacchin – ricerche storiche Novecento

  • carlo g 6 Ottobre 2016

    Mi pregio di conoscere l’ “eretico” Giacinto che generosamente mette a disposizione di tutti le sue ricerche sul fascismo “movimento” (la “primavera di bellezza”). Mi piacerebbe chiedergli se sono state arricchite con recenti ricerche. Le consulterò con grande piacere. Un caro saluto a Germano, se vi è possibile. Complimenti per la vostra rivista. Pur partendo da opposte origini, “convergo” spesso: un caso di convergenze “non” parallele (o forse divergenze convergenti).
    Grazie di cuore
    Carlo Giacchin – ricerche storiche Novecento

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