13 Aprile 2024
Appunti di Storia

1921: Primavera di Bellezza (quinto capitolo)

9. Covo nr. 1 e nr. 2

Il momento centrale della spedizione punitiva è l’assalto alla Camera del lavoro, Casa del popolo, Cooperativa sociale, spesso con il conseguente incendio dell’edificio; la simbologia della fiamma purificatrice, del fuoco redentore si era affermata già a Fiume:

Fiume era l’inizio di un incendio spirituale, che avrebbe consumato tutto il mondo corrotto e decrepito dell’Occidente, e lo avrebbe purificato, trasformandolo, alla fine, in qualcosa di più bello e più santo.

I casi di tentate distruzioni di sedi fasciste sono, di contro, molto rari: è vero che in esse gli squadristi, nei giorni più agitati, organizzano veri e propri turni di guardia, diurni e notturni, ma il temuto attacco non si verifica quasi mai, se non, talora, quando, al termine di una zuffa, costretti i fascisti dall’inferiorità numerica a rifugiarsi alla loro sede, i sovversivi “a caldo” provano a penetrare all’interno, per una salutare lezione.

Alla base di questa inazione socialista, c’è sicuramente una incapacità organizzativa ed una accentuata indisponibilità di materiale umano entusiasta e pronto come quello che forma le squadre fasciste; ciò che poi incide in maniera sostanziale, è l’inattitudine psicologica a mettere in atto azioni in cui predomina l’individualismo e l’esaltazione del coraggio fisico fino all’incoscienza.

Chi aderisce ai Fasci, sa che sono “di combattimento”, chi entra a far parte delle squadre, sa che sono “d’azione”, sa cioè, che, prima o poi, gli toccherà combattere ed agire: forse da solo, certo con pochi compagni, contro molti avversari. Scrive il ventunenne squadrista Ischiras Calamai, con un tragico presentimento, alla vigilia della morte: “Il sentirmi solo mi piace e mi inorgoglisce. Mi possono uccidere, se vogliono, ma, anche dopo morto, costerò sempre più di loro”.

Chi, invece, milita nel fronte avversario, anche se è convinto di essere un “rivoluzionario”, si aspetta che la lotta sia un fatto di massa, collettivo, nel quale responsabilità e rischi individuali si confondono con quelli di tutti, così che delle violenze commesse nessuno si senta oggettivamente colpevole, nemmeno chi vi assume un ruolo da protagonista.

Quando poi, di fronte all’offensiva squadrista, il possesso delle piazze deve essere difeso o conquistato volta per volta, i socialisti preferiscono arroccarsi a difesa delle proprie istituzioni, del loro “Stato nello Stato”, fatto di uffici di collocamento, leghe, cooperative, Comuni e sindacati, in attesa che tutto si esaurisca, che l’iniziativa degli attaccanti finisca motu proprio o per l’azione dell’Autorità, normalmente vituperata e svillaneggiata, ma ora invocata a difesa.

Di contro, i fascisti sono poco o nulla legati a suggestioni “immobiliari”: sono dei “nomadi”, non dei sedentari. In loro l’amore per le adunate, le parate, le spedizioni su rombanti camion, prevale sempre sull’attaccamento ad una sede o ad un “covo” che, spesso, non sono nemmeno in grado di pagarsi.

Le adunate, in particolare, sono la tipica espressione del nuovo stile politico fascista, preziose occasioni di incontro, conoscenza e scambio di esperienze, idee e canzoni; poco importa cosa dicono gli oratori sul palco, anche se di tanto in tanto una rumorosa preferenza “caratteriale” sarà manifestata per i più estremisti e rivoluzionari. Conta di più l’incontro con i camerati di altri paesi e città, con i quali si possono fare intese e stabilire programmi che poi, quando si torna alle sedi, prenderanno corpo con l’organizzazione di spedizioni sempre più complesse ed articolate.

Né va tralasciato il fascino della liturgia dei raduni: il viaggio, la sfilata, il rancio in comune, l’alzabandiera, i canti collettivi, i confronti per individuare la divisa più bella e la “coreografia” migliore; insomma, meglio una giornata all’aria aperta che la noia dell’attesa nei “covi”, come sono chiamate molte sedi fasciste, con una venatura carbonar rivoluzionaria, e in polemica con le ricche e talvolta assurdamente maestose Case del popolo o Camere del lavoro socialiste.

Sono stati proprio i socialisti, quasi a voler sottolineare la differenza tra loro politicamente “arrivati”, e prossimi padroni dell’Italia, e i giovani rivoluzionari diciannovisti, a creare per primi, per la redazione del Popolo d’Italia in via Paolo di Cannobio, la definizione, che voleva essere spregiativa, di “covo”, nel quale si radunano sciagurati causa di disturbo e fastidio anche per chi abita nelle vie adiacenti:

Non eravamo vicini comodi. Ogni secondo giorno, rincasando, trovavano i portoni sbarrati, abbassate le saracinesche, e gli sbocchi dell’angusta strada asserragliati di cavalli e soldati in elmetto, accampati sulla paglia per il rancio e l’addiaccio. C’era uno sciopero, una dimostrazione o un corteo, le bandiere rosse sfilavano per il vicino Corso di Porta Romana o si inoltravano verso la Piazza del Duomo, si temeva che venissero a contatto con gli interventisti amici del Popolo d’Italia.

Anche all’interno del giornale, l’atmosfera è perennemente agitata:

Ecco infatti lì, nella prima stanza, tre o quattro arditi, con tanto di pugnale e pistola alla cintura. Un d’essi, sdraiato sopra un tavolo, sembrava dormisse, mentre gli altri si mostravano a vicenda alcune bombe a mano, del tutto simili a quelle usate in guerra, discutendo sull’efficacia del funzionamento dei diversi tipi. In un’altra stanza, seduti intorno ad un gran tavolo, e frammisti con i redattori del Popolo d’Italia, erano alcuni Ufficiali, sulla cui divisa apparivano i segni del valore e delle ferite riportate. Non di rado, si trattava addirittura di Ufficiali gravemente mutilati. Appartenevano a tutti i gradi: sovente vi si notava un Colonnello; ma generalmente trattatasi di Ufficiali subalterni.

Su tutti, domina la figura di Mussolini, che ha sinteticamente scritto sulla sua porta: “Chi entra mi fa onore, chi non entra mi fa piacere”; nelle ricostruzioni del clima di questi anni, il giornale mussoliniano è spesso definito: “accampamento di uomini liberi”, o “ridotto di via Paolo di Cannobio”, mentre, tra di loro, Arditi e fascisti parlano di “Covo nr. 1 e covo nr. 2”, alludendo col primo alla sede degli Arditi in via Cerva, e riservando, con una punta di ironia, al Popolo d’Italia l’appellativo di “covo nr.2”.

In verità, non molto dissimile è anche l’ambiente del rivale “Ordine Nuovo”, che, a Torino, è ubicato nella stessa strada sede del Fascio:

Per accedere ai locali del giornale, si doveva attraversare prima un atrio, e poi un vasto cortile, separati l’un l’altro da un pesante portone blindato, con un operaio armato, che faceva da sentinella. Nel cortile era attrezzato un sistema di difesa: reticolati, cavalli di frisia, trappole, suonerie di allarme e un posto di guardia permanente; operai armati si davano il cambio, pronti ad intervenire al primo segnale d’attacco. Anche i redattori erano armati.

In tutta Italia, molte squadre hanno la loro prima sede o luogo di riunione nelle case di qualche aderente o nelle salette di un caffè; così avviene a Firenze, con il Gambrinus, o a Milano, dove la Randaccio si riunisce in una saletta del Boeucc, in via Silvio Pellico.

A Nord come a Sud, il problema della sede è risolto sbrigativamente: a Savona i locali superiori del caffè Chinese vedono le prime adunanze fasciste, a Vicenza succede lo stesso al caffè Garibaldi, a Padova il luogo di raduno è lo storico caffè Pedrocchi, a Ferrara la “Celibano” è costituita al caffè Mozzi, dietro la piazza del Duomo, mentre a Reggio Calabria le iscrizioni si fanno presso il caffè Commercio.

E ancora: a Pistoia, i primi squadristi, “padroni” solo del centro cittadino, si riuniscono al caffè Centrale, a Fidenza, il primo punto di ritrovo è scherzosamente battezzato “bar del manganello”, mentre a Perugia, a fine marzo, non trovando nessuno disposto ad ospitarli, i fascisti requisiscono i locali dell’Accademia dei Filedoni, circolo di giocatori.

Il Fascio romano, che pure, per motivi di “rappresentanza” e per non sfigurare nel confronto con i cugini nazionalisti, dovrebbe curare anche quest’aspetto esteriore, e cercarsi una sede dignitosa, non se ne dà cura:

I locali di via Laurina erano troppo angusti ed infelici, c’era la necessità di una sede più vasta, se ne parlava, si facevano proposte, ma non c’era denaro per pagare fitti molto alti; solo nei mesi avanzati del ’22, il Fascio romano ebbe una sua sede vasta, seppure di fortuna, a via degli Avignonesi, quasi all’angolo con via Quattro Fontane, in uno scantinato che era stato utilizzato quale sala biliardi. Con dei tramezzi in legno furono predisposti degli sgabuzzini per gli uffici, mentre restava libero un salone rettangolare, dove ormai regolarmente ogni sera confluivano decine e decine di giovani.

Nelle sedi improvvisate, nell’attesa dell’azione, si amalgamano gli elementi socialmente più diversi: commercianti, studenti, professionisti ed operai, con una nuova gerarchia che non deriva né dal ruolo sociale né dalla ricchezza dei singoli: a Grosseto, per esempio, il primo segretario politico è un muratore, mentre tra gli aderenti vi sono commercianti, studenti, il farmacista, e perfino un professore universitario.

Ci si tratta tutti con il “tu”, come si fosse vecchie conoscenze, e questo “tu” fa cadere ogni differenza di classe, di cultura e di età:

Abissi dovevano esistere, per esempio, tra il Pascià” e Francesco, che pure discutevano fitto fitto nell’angolo. Abissi morali, abissi di educazione, di ambiente, eppure la violenza fatta persona dell’uno, tozzo, sanguigno, con un sacco di nastrini sulla divisa di Ardito, che accusavano in lui il vero “homo d’arme”, sembrava legare con la figurina sottile del figlio unico cresciuto nella bambagia e viziato dalla coccolatura del parentado. Abissi pure tra il professore di matematica – quello che mi aveva firmato la domanda nell’ormai lontano 1920 – sempre in mezzo alle nuvole, raffinato, esteta alla Oscar Wilde, e quel tanghero del tabaccaio di sotto ai portici, di Beppe, lavandaio, cialtrone, che intontiva col suo vociare sguaiato.

In questo spaccato di controsocietà che diventa la squadra, anche i nomi sono spesso aboliti, sostituiti da soprannomi coloriti e vivaci; si sprecano gli “ardito”, e i riferimenti ai gradi militari “sergente, tenente, capitano”; ci sono poi gli “studenti”, i “contini, marchesi, duchi”, (in genere fasulli), il “solino”, il “cipressino”, e tutti quei nomignoli collegati, in genere a caratteristiche fisiche: “nasone, nano”, etc.

E’ un fatto, comunque, che gli squadristi amano poco le sedi e si curano ancora meno della loro dignitosità formale ed esteriore: quattro sedie, un tavolino traballante, il gagliardetto alla parete, e, magari, un ritratto di Lenin sottratto a qualche sezione socialista e usato per sputacchiera, bastano e avanzano. E poi, la facilità con la quale vanno a fuoco le sedi avversarie, non dimostra forse la stupidità di ogni culto immobiliare ?

Alla vigilia della marcia, nel settembre del ’22, Mussolini, dopo il discorso di Udine, manifesterà il desiderio di recarsi a visitare il Fascio di Pordenone, gettando nel panico Pisenti:

Feci appena in tempo ad avvertire telefonicamente qualche amico, annunziando la visita improvvisa, e, quando arrivammo, Mussolini volle subito visitare la nostra sede, che egli certamente pensava fosse, alla vigilia della conquista del potere, una di quelle sedi già decorosamente allestite; ma, con sua grande sorpresa, egli venne accolto in una grande, vecchia, e piuttosto malandata cucina. Era la sede del Fascio, e, quando sortimmo e ci trovammo in mezzo ad un grosso nucleo di cittadini in attesa, Mussolini disse ad alta voce parole che rimasero incise nella memoria di tutti: “Mi piace la vostra povertà francescana”.

Di certo, il movimento e l’azione piacciono di più agli squadristi: il piccolo Fascio di Roverdella, che forse non ha nemmeno una sede degna di questo nome, ci tiene a far risultare, nella “Storia della rivoluzione fascista” di Chiurco, la sua partecipazione a molte spedizioni punitive : “…di cui è indice sicuro la somma di lire 300.000 di benzina spesa per il rifornimento di automezzi”.

La giornata preferita per lo svolgimento di queste spedizioni è la domenica, anche se esse hanno frequentemente un prologo o un seguito nei giorni di mercato, allorché maggiore è l’affluenza dei contadini nel capoluogo: infatti, è in queste occasioni che si accendono zuffe e cazzottature, quando gli squadristi riconoscono i più noti capilega, indicati loro da camerati del circondario, e approfittano dell’occasione per distribuire qualche “sganascione da fascista”, che salda vecchi conti in sospeso.

Ma, è nel giorno di festa che i camion partono dalla sede del Fascio; poco importa se, dove essi arrivano, viene turbato il tranquillo passeggio domenicale, come lamenta qualche resoconto giornalistico:

Cronaca che, in lingua povera, significa: una volta di più i fascisti hanno rotto le tasche ai pacifici borghesi in borghese sollazzo davanti ai baracconi del giardino…Ora siamo un fatto di cronaca, siamo i disturbatori della quiete domenicale di una plebe che dorme i propri sonni tranquilli tra l’ultimo anticipo sui danni di guerra e la festa da ballo… Passiamo, noi fascisti, tra gente indifferente ed ostile.

10. Le camicie nere di cotonina

Nei primi tempi, l’azione delle squadre si dirige dai centri maggiori, in genere capoluoghi di provincia, verso i paesi dell’interno; ben presto, però, essa muoverà dai centri rurali per indirizzarsi verso borghi vicini e, in qualche caso, verso le stesse grandi città.

Infatti, se è vero che le prime squadre sono a composizione quasi totalmente cittadina, va però detto che progressivamente si fa maggioritaria la presenza di squadristi contadini, in massima parte braccianti, fittavoli, giornalieri, fattori, piccoli proprietari; i grandi proprietari restano sostanzialmente defilati. Se va detto che, soprattutto nel primo periodo, non fanno mancare ai Fasci il loro sostegno (economico e “di opinione”), bisogna pure aggiungere che in fondo in fondo, essi diffidano sempre di quegli scapestrati in camicia nera, che ogni tanto minacciano di somministrare “due cazzotti” anche a loro.

Da buoni conservatori e uomini “d’ordine”, non possono condividere i metodi squadristi; preferirebbero un più deciso intervento delle Autorità, magari sotto la spinta del vecchio Giolitti: l’azione fascista resta un male necessario, indispensabile temporaneamente per rimettere un po’ d’ordine e frenare le violenze socialiste, ma poi deve cedere il passo allo Stato.

E non parliamo delle idee che trapelano qua e là, sovversive quanto quelle che si pensava di aver definitivamente seppellito; talora la minaccia è sottintesa, ma chiara, come in questo appello del Fascio senese, per esempio:

I fascisti senesi, reagendo all’attacco comunista, hanno preso d’assalto e incendiato la casa dei socialisti. Fascisti, l’episodio non vi faccia perdere di mira il vostro magnifico scopo! A colpi di scure distruggeremo tutti gli alberi parassitari, per dare sole e aria e libertà al popolo nostro! Allora costruiremo più bella, più grande ed immortale, la Casa del popolo. Fascisti, a noi!

Con il popolo, quindi, sia esso formato da “villani di provincia”, come anche da operai delle grandi città; in verità, i rurali non riescono a dimenticare completamente quella ostilità che contrappone loro, semplici ed onesti lavoratori della terra, ai più progrediti operai delle città, che sono continuamente in sciopero, ma con il salario garantito, tutelati da un Partito che ha per capi dei borghesi, i quali restano inconsapevoli delle problematiche particolari del lavoro dei campi.

L’ostilità città/campagna, ha anche altre motivazioni: quasi dovunque, le città sono state per l’intervento e le campagne contro, salvo poi che, a guerra dichiarata, mentre tanti cittadini sono rimasti a casa, “militarizzati” o imboscati, i contadini sono partiti in gran numero per il fronte, dove, silenziosi ed obbedienti, hanno fatto, come sempre, il loro dovere. Ed ora, dopo qualche sbandamento nell’immediato dopoguerra, inquadrati nelle organizzazioni fasciste, intendono continuare:

Rievochiamoli, questi fascisti di campagna, solidi, membruti e tarchiati, bronzei in faccia ed adusti, dai pugni bitorzoluti e callosi, in cima a certe braccia nerborute come mazze d’arme! Rievochiamoli nelle loro camicie nere di cotonina grezza e rozza, con certe morti secche da mettere davvero paura. Certi teschi oblunghi e sbilenchi, digrignanti come in un ghigno, segnati da una traccia di filo bianco grosso, con certi stinchi incrociati, duri e diritti, da parere grissini, e certi pugnali tra i denti, che mani inesperte o… trepidanti di donne o di figlie avevano segnato serpeggianti come kriss malesi.

Rievochiamoli, con i loro rami di faggio o di ginepro duro e nocchieruto, ostentati con l’indifferenza di chi va a spasso con la giacchetta alla moda, colle loro doppiette, coi loro fucilacci a stoppa, con certe pistole che spesso appartennero a chi sa chi, e che, forse, sparavano indietro invece che avanti.

Ma non c’è da ridere di tutto questo, anzi, “quando passa il gagliardetto”, il loro gagliardetto nero o cremisi o tricolore che sia, “levatevi il cappello”, o borghesi panciuti e metodici, o snobs dai calzoni alla charleston e dai baffini alla Douglas, incerettati ed impomatati. Essi, questi contadini infagottati in cappottacci sdruciti, sbrendolati, rattoppati, con le fasce pillaccherose e non troppo attillate e quei loro fez messi in pimpinnacolo, in cima al capo, con le nappe che dicono di no continuamente in qua e là, essi sono l’avanguardia, quadrata e meravigliosa, di tutti i rurali d’Italia, quelli che compresero la parola di riscossa e di fede gettata dal duce, e la raccolsero, e si fecero campioni in una jacquerie sublime e furono tori scagliati contro lo sfarfallio scarlatto che riddava per le campagna abbandonate, e dettero le forze vive al fascismo, come le dettero alla guerra…

Rievochiamo, con commozione ed orgoglio, questa santa canaglia o cittadina o rurale, ma sempre magnificamente squadrista, temerariamente pronta a buttarsi allo sbaraglio, ridendo o cantando.

Che quei pugni “bitorzoluti e callosi” facciano paura ai pavidi borghesi di città, è indubbio:

Ricordo la gran paura e il chiudere d’usci a Siena, quando si spargeva la voce che arrivavano i fascisti dell’Amiata, che erano picchiatori temuti, o comunque della provincia, magari guidati dal medico o dall’avvocato, ma artigiani, bottegai, piccoli agricoltori, operai, tutta gente minuta, insomma.

Con i fascisti della provincia, i “selvaggi”, c’è Mino Maccari, pure ferito in una “spedizione” che così si autobiograferà in un sintetico ritrattino apparso sull’Assalto , nel 1928:

Mi vanto e proclamo a gran voce, per quanto a qualcheduno possa interessare, di non essere, come di molti sta accadendo, scivolato nel fascismo dalla letteratura. Io sono un fascista arrabbiato, di quelli che non sono soddisfatti della tessera in tasca e dello scudetto all’occhiello, ma che leticano e si azzuffano e soffiano nel fuoco e giostrano a ogni occasione. Per me, il fascismo non è una pappa scodellata, come per tanti italiani; il fascismo significa anni di vita: azioni, risse, polemiche e fazioni mi hanno sempre visto presente, e, se ho fatto il mio dovere nella squadra del mio Fascio rurale, ho anche attivissimamente preso parte alla cosiddetta “vita di Partito”

Se i fascisti di città, Ufficiali smobilitati, studenti, Arditi e futuristi, sono convinti di dimostrare con la loro azione, e quando necessario con il loro sacrificio, la falsità dei miti anarchici e socialisti che avvelenano le campagne, i fascisti rurali, dal canto loro, sono animati da identici e opposti scopi redentori: essi vogliono purgare i cittadini dalle colpe consumistiche e materialistiche, punire il loro snobismo intellettuale e la loro eccentricità:

Ogni celebrata metropoli è tutta iridescenze e tutta trappole. S’imbelletta per dissimulare le rughe del tempo e del vizio: simula la gioia per non sapere più piangere, non sente la Patria, anche quando si pavesa di tricolore, dice di essere la luce provvidenziale ed è l’inevitabile cloaca: non guida la Nazione, ma vive alle spalle della Nazione. E’ l’acquitrinio pullulante di fuochi fatui e di rospi. In essa circola una classe subdola e oziosa, sottile tessitrice di intrugli e mezzadrie losche, avvezza a vivere nelle ore piccole della notte, tra bagasce e pokeristi., la quale, sull’umanità solare e laboriosa, tesse la ragna dei loschi affari, dei tradimenti pagati a usura, e dei compromessi più criminosi e turpi.

Sicchè, i “fiori del male” avvelenano sempre qualche incauto, e i “cavalieri della luna” attendono sempre, allo svolto di qualche crocicchio, la vittima designata.

E’ in essa che i politicanti, gli avventurieri, i manutengoli del danaro, pescano i loro candidati per farli complici di qualche generosa rivoluzione. La notte dà consiglio ai tristi, e , il giorno dopo, la commedia umana registra immancabilmente qualche colpo mancino in più.

Lavoratore onesto, combattente leale, cittadino intemerato, diffida di ogni metropoli.

Naturalmente, l’azione fascista ha un andamento diverso, a seconda che sia diretta contro la Camera del lavoro o altro simile obiettivo (redazione di giornale, circolo o sede di partito sovversivo), comunque situato in una grande città, oppure si rivolga verso obiettivi posti in un centro piccolo o medio.

Nel primo caso, la reazione degli attaccati è, in genere, molto decisa, e può provocare morti e feriti da ambo le parti, al momento dell’assalto: il Balkan, la Camera del lavoro di Bologna e quella di Torino sono fortilizi ben provvisti di armi e difensori; in altri casi, gli apprestamenti difensivi sono i più vari: la Camera del lavoro di Novara dispone di una sirena potente che, in caso di attacco, chiama a raccolta i militanti, mentre l’Avanti milanese, dopo l’esperienza del 15 aprile del ’19, è difeso con un sistema di fili elettrificati che si rivelerà molto efficace.

Questo non avviene nei paesi: qui la spedizione ha spesso toni iniziali tra lo sportivo ed il goliardico, con grande sfoggio “coreografico”, a base di saluti romani, sfilate nelle strade, imbandieramento del Municipio, senza che vi sia alcuna apprezzabile reazione da parte dei sovversivi locali, sorpresi ed impotenti.

In qualche caso, vengono inviati in avanscoperta due o tre squadristi che arrivano nel centro prescelto, fanno qualche provocazione e innescano la miccia, magari a dispetto dei simpatizzanti locali più “tiepidi” che sono riusciti a creare una situazione di convivenza che, pure se non favorevole per loro, li accontenta.

La provocazione, in genere, è anche malvista da quanti, delle classi più agiate, hanno raggiunto, a loro volta, con la prepotenza leghista un accordo tollerabile, adoperando talvolta la subdola arma della corruzione di qualche capolega, e temono più di qualunque cosa la rottura dell’equilibrio che l’intervento fascista provoca.

In realtà, infatti, succede che quasi sempre la partenza del camion squadrista coincida con la ripresa se non con l’intensificazione dell’azione sovversiva. Le rappresaglie avvengono così, nel corso dello sciopero cittadino di protesta, e coinvolgono soprattutto i proprietari, gli ex combattenti e le forze dell’ordine, gente, cioè, che normalmente non solo non è responsabile direttamente dell’accaduto, ma addirittura talvolta non ha nemmeno condiviso gli obiettivi dell’iniziativa fascista.

Anche in questi casi, però, se pure i colpiti dalle ritorsioni non sono aderenti al Fascio, si impone l’immediato ritorno degli squadristi; per “completare l’opera”, come di dice, ma soprattutto per non vanificare i frutti del primo intervento: occorre che amministratori socialisti e dirigenti leghisti si rendano conto che ripristinare la situazione precedente è impossibile.

Guai se così non fosse: se si avesse un’impressione di episodicità ed estemporaneità nell’operato squadrista, le conseguenze sarebbero irrimediabili, la stesa credibilità ed utilità dell’azione sarebbe compromessa; solo con il ritorno in paese avverrà che la voce dell’implacabilità squadrista, della sua capacità di colpire dove e quando vuole, nelle ore più disparate e nei giorni più diversi, acquisterà sempre maggior consistenza.

Accade così che quando l’azione scatta, il piccolo nucleo che la compie (generalmente dai 15 ai venti elementi – quanti ce ne stanno cioè su un camion – raramente di più) sa che se vuole avere qualche possibilità di portare a compimento la spedizione con pochi rischi e danni, deve porre l’avversario in una posizione di sudditanza anche “psicologica”

Nella prima fase, in genere, sono colpite le cose (sedi, mobili, scorte della cooperativa rossa, materiali di propaganda, etc), prima e più delle persone: è una tendenza che deriva dalle abitudini prebelliche, quando gli interventisti, durante le manifestazioni del maggio del ’15, si erano ufficialmente impegnati a: “ricercare i disfattisti ovunque si nascondano, ricorrendo ad azioni energiche e dirette sia contro di essi sia contro gli uffici sia contro i negozi dove si potranno nascondere”.

Quando, però, occorre ritornare, per punire le rappresaglie messe in atto dai socialcomunisti, o gli animi sono molto esasperati, la tattica può cambiare: nell’ottobre ’22, il Comitato segreto d’azione dei Fasci romagnoli, in un bando contro i dirigenti avversari, espressamente disporrà: “…da oggi i responsabili socialcomunisti che ben conosciamo devono uscire dalla Romagna. Le nostre giuste rappresaglie verranno eseguite non sulle cose, ma sulle persone”.

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