12 Aprile 2024
Punte di Freccia

Una Comunità Vive… – Mario Michele Merlino

Vecchio d’anagrafe e rincoglionito per degenerazione delle cellule, oltre che prigioniero di innumerevoli acciacchi – altro che le ondate ormonali di seconda o terza giovinezza! – abbisogno di badanti cortesi e decise. Sono fortunato. Venerdì per arrivare all’aeroporto di Ciampino imbarcarmi e, atterrato ad Elmas, Cagliari, raggiungere Capoterra, sono stato supportato da Riccardo e Paolo, ho incontrato il Caciotta, poi sabato ulteriore sostegno con Davide e Marte. Cortesi e decisi tanto che mi sono dovuto ricordare di essere stato per cinquant’anni e di più militante – onore e oneri compresi. La comunità romana di Casa d’Italia mi ha adottato ed io me ne fregio come fosse un titolo di merito… Ahahaha…

Una comunità vive. Ed esercita il suo richiamo. Simile al canto delle sirene. Capoterra, distante da Cagliari quindici chilometri circa. Si scende per un sentiero sterrato, cespugli rovi fichi d’India prossimi ad essere maturi. Un sole boia attutito solo a tratti dalla brezza di mare che si lascia intravedere sottile linea di confine. Un baraccone, teli e tubi la cucina sedie di plastica i tavolini le panche in legno il palco per i concerti. Panini con salcicce pizza e la birra, a fiumi. Domenica, al termine di questi giorni d’incontro, un piatto saporitissimo di carne di cinghiale. Un paio di tende. Alla ricerca d’ombra. Così si propone l’annuale festa – e ormai sono dieci anni – degli skins sardi. Sei diventata nera. Ritrovo volti noti e nuovi tatuaggi.

Nonostante i capelli lunghi, l’età, un passato tanto difforme, mi sento a mio agio. Merito, credo, di una comunità con i suoi riti, un popolo in cammino con le proprie donne e i bambini e propri costumi, ma anche con quel senso, diretto spontaneo infallibile di riconoscere chi l’è prossimo e chi l’è contro. Mi torna a mente l’opera di Ferdinand Tonnies, sociologo tanto poco amato dal nazionalsocialismo, che gli tolse la cattedra nel 1934, ma fondamentale autore di Comunità e Società (Gemeinschaft und Gesellschaft), anno 1887, con appunto la distinzione della prima – sentimento di appartenenza e di spontanea partecipazione –; la seconda regolata dalla razionalità dall’utile e dallo scambio. Identificabili con il loro essere prima e dopo i processi di industrializzazione, ma anche parametri di insanabile contrapposizione. O, se si vuole, portando altro esempio (eco delle letture del teologo Johannes Lotz e di Erich Fromm, Fuga dalla libertà) l’individuo in comunità conosce la solitudine; l’individuo in società conosce soltanto l’isolamento.

Utilizzando le parole stesse di Tonnies:

‘La teoria della società riguarda una costruzione artificiale, un aggregato di esseri umani che solo superficialmente assomiglia alla comunità, nella misura in cui anche in essa gli individui vivono pacificamente gli uni accanto agli altri. Però, mentre nella comunità gli esseri umani restano essenzialmente uniti nonostante i fattori che li separano, nella società restano essenzialmente separati nonostante i fattori che li uniscono’.

Incontro volti noti, scopro nuovi tatuaggi. Riccardo sfoggia sul fianco un bel tirapugni e la scritta in rosso ‘Odio’ (presumo titolo della canzone dei Denti di lupo). Lunghe conversazioni con Piero, l’anima politica del movimento. Sempre interessante, anche se oramai sono alquanto alieno. Non vedo levarsi venti di cambiamento e ogni battaglia nell’oggi, mi sembra, di retroguardia, pur se condivisibile nelle fondamenta.

Pessimismo? Incontro Giordano. Anch’egli, a Padova, si dà un gran da fare. E mi dico come forse hanno ragione loro.

‘Gli eroi sono tutti giovani e belli’, cantava Guccini ne La locomotiva. Anch’io mi sono reso famoso con manico di panchina e la molotov in quel 1 marzo del ’68 a Valle Giulia. E sono quasi cinquanta anni. Nessun rimorso rancore forse un po’ di rimpianto.

Come scrive Mario Carli, futurista ardito legionario fiumano e squadrista in Il mio cuore fra i reticolati: ‘Qualche volta è invece un’amante lontana e inafferrabile, che ci richiama a sé con la squisita tortura che scaturisce dalle cose che non possono rivivere’.

Da insegnante scopri la solitudine d’essere ogni anno più vecchio di ripetere ogni anno le medesime nozioni di avere alunni da volti sempre nuovi ma con sempre i medesimi problemi e sempre la stessa età. E ti viene addosso, vorace sanguisuga, la nostalgia della giovinezza di quello che sognavi e ti illudevi fosse e non è stato di tanti giochi arditi di spinte oltre il confine trasmutazione di valori e i libri letti e le donne – quelle amate e quelle solo desiderate – lo zaino in spalla il pollice levato la strada e l’orizzonte fatto d’azzurro e di polvere…

E, qui, a Capoterra, nostalgia di quella comunità ormai in frantumi, nella mente e nel cuore (nulla rinnego, sia chiaro, in uomini idee battaglie), pur consapevole come anche la pietra più dura si erode sotto l’incalzare del vento della pioggia. Tempo e circostanze per l’umano. Una comunità tanto diversa, in quegli anni lontani, ma pur sempre forte d’intenti d’affetti…

In attesa d’essere imbarcati, rientro a Roma, l’aereo porta ritardo. Di stile si parla con Davide. Sembra che sia ormai quasi un’offesa il termine, forse fu troppo abusato in retorica. Eppure ho negli occhi della mente l’oscuro ‘franco tiratore’ – non conosco il volto l’età il suo vissuto – di cui parla nel suo diario un partigiano di Torino, nei giorni di fine aprile ’45. Racconta con rispetto e, oserei dire, con ammirazione come lo snidassero dalla finestra ove tirava loro contro. Trascinato in strada per essere fucilato, va con passo rapido e deciso volgendosi al plotone d’esecuzione, aggiustandosi i capelli la giacca. Anche per lui vale la pena essere qui, nonostante come la tragedia, il senso del tuo vissuto, si sia andata degenerando in farsa.

E, a sera, la musica. Venerdì, al mio arrivo, suona La vecchia sezione – poi, lunga chiacchiera con Baldo e Nicolò. La musica e il canto, sempre attuali le parole di Codreanu. Solo chi possiede animo sgombro può darsi e ritrovarsi intonando una canzone, anche soltanto modulandone il ritmo. Conosco il cantante degli Hobbit, Lele – anche con lui ho una serrata e interessante conversazione. Non programmi non idee da stampigliare in maiuscole non proclami un verso lo stridere della chitarra il tambureggiare della batteria. E il sangue che scorre più veloce e ritrova il gusto dell’adrenalina.

Ho sempre pensato e vissuto e scritto come contino in primo luogo le emozioni – quella petite musique, come la chiamava Céline. Esse non conoscono il tradire perché ci appartengono anche quando il nostro corpo inganna se stesso e si confonde e si lascia irretire. Anche in ciò una comunità rende la sua superiorità rispetto a ogni forma di società. E’ il panzerfaust che fa la storia, impugnato dalle mani inesperte di un giovanissimo della HJ, quando ormai nel bunker è calato un gelido silenzio… E, mi cito, quando vecchio e stanco, mi accorgo di reggere la notte le stelle fin quando un lieve chiarore annuncia il giorno nuovo a venire.

A Capoterra, Area 28, ospitalità premura rispetto. Forse non tutto di me è andato sprecato; forse non tutto di me andrà perduto…

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