10 Aprile 2024
Appunti di Storia Controstoria

STORIA DELLO SQUADRISMO FIORENTINO NEL 1920: “hanno ucciso a tradimento i nostri fratelli giovanetti” (3^ parte) – Giacinto Reale

È indubbio che la proto-spedizione di Montespertoli ha un gran clamore in città, e non solo negli ambienti fascisti o comunque vicini al Fascio. Aderiscono così ufficialmente al movimento mussoliniano il Capitano Luigi Zamboni e Guido Carbonai. Il primo, a metà ottobre è il nuovo segretario provvisorio.

Sembra giunta anche l’ora, per il capoluogo di Regione, di assumere il compito di coordinare le prime iniziative sul territorio, e a questo scopo viene indetta una riunione per il 5 novembre, alla quale partecipano, però, i soli rappresentanti di Pisa e Siena, anche se altre realtà si vanno formando qua e là nell’intera Toscana.

Il giorno prima, a testimonianza dell’alto valore simbolico della data che ricorda la vittoria in guerra, esce il primo numero della “Sassaiola fiorentina”, il giornale che Dumini si è “inventato”, che nel sottotitolo reca la scritta “giornale di guerriglia ardita”, e che in poche righe iniziali, orgogliosamente firmate “Noi”, lancia la sua sfida a tutto tondo:

Questo libero foglio di battaglia – che vede oggi per la prima volta la luce – continua, intensificandola, la campagna di pura italianità e di epurazione politica iniziata da qualcuno di noi nelle colonne del giornale “L’Ardito”.

Si tratta, per ora, di un numero straordinario, destinato a mettere nella loro vera luce certi fatti e certi uomini che oggi alzano la testa, e nella loro mania di piazzarsi aspirano – essi che sono l’espressione del nullismo più vuoto – a reggere le sorti della città che già conobbe le glorie di Francesco Ferruccio e di Michele di Lando.

Si tratta, per ora, di un numero straordinario, anche perché noi, che non siamo foraggiati da nessuno, dobbiamo dar vita a questo foglio con le nostre forze, ahimè molto modeste.

Dunque, il giornale uscirà quando e come potrà. Ma se la nostra buona battaglia troverà non solo incoraggiamenti verbali, ma anche…incoraggiamenti di altro genere, questa bandiera continuerà a sventolare sulla marea montante dei rossi e dei neri, egualmente tutti nemici d’Italia! (1)

 

Per una di quelle curiose coincidenze che a volte si verificano, lo stesso giorno viene pubblicato a Bologna il primo numero de “L’Assalto”. I due giornali, insieme, anche se su posizioni non sempre concordanti, saranno la migliore espressione dell’intransigentismo fascista nei mesi a venire

E, per chi ami cercare simili combinazioni, va aggiunto che, anche “L’Assalto” è stato preceduto da un episodio proto-squadrista, quello avvenuto a San Lazzaro il 25 ottobre, che testimonia, come Montespertoli per Firenze e la Toscana tutta, dell’effervescenza di un ambiente, quello “nazionale”, che intorno al movimento mussoliniano comincia a coagularsi sempre più vigorosamente.

Sono le prime apparizioni di due tra i più forti Fasci della vigilia fascista, che però, fin dall’inizio, si propongono (e si rappresentano) in maniera diversa.

A San Lazzaro, infatti, i fascisti si recano non per fare una provocazione (come sostanzialmente è a Montespertoli), ma per portare sostegno ai lavoratori già boicottati dai leghisti. Nanni Castelli lo racconterà in due diverse occasioni. Prima, sul numero 39 del 1920 de “Il Fascio”, con una accentuazione dell’aspetto “militare” della spedizione:

Formate le squadre in camion, i fascisti si recarono nelle campagne del Comune di San Lazzaro, ove maggiormente imperversava la dittatura bolscevica…Come in guerra. La notte, poi, i Carabinieri, inoltrando nell’oscurità, sentirono un secco: “Chi va là?” che però non li fece fermare, credendo ad uno scherzo. Invece, dovettero arrestarsi e declinare il loro…mestiere, quando i fascisti, manovrando militarmente, fecero scattare metallicamente le loro armi. (2)

E poi, in altro articolo, con una speciale sottolineatura del contenuto politico dell’azione fascista:

È bastato un pugno di giovani animosi, il Fascio di combattimento, per imporre il basta ad una corsa verso la rovina completa di tutti, borghesi e proletari.

È bastato far comprendere che il bolscevismo non è poi una cosa tanto facile da attuarsi, perché ci siamo noi che non lo vogliamo assolutamente, e che per esso non basta vociare nelle piazze, ma occorre rischiare pure la pelle, per fare allontanare dalla lotta tutti gli animosi ed eccessivamente fautori di un regime che è desiderato perchè non è conosciuto nelle sue brutture, degne solo d’un popolo incivile e retrogrado.

E così il proletariato, pel quale lottammo negli anni nostri migliori, è rimasto disorientato. Non sa prendere una via da seguire.

Nelle campagne di San Lazzaro, qualche settimana fa, quando una trentina di fascisti si avventurarono tra i coloni e i contadini, restituendo ai legittimi proprietari le macchine requisite dai leghisti rossi, facendo iniziare la battitura del grano, strappando la bandiera rossa, cantando gli inni della Patria, i lavoratori pallidi e miseri ben ci dissero che la loro era una vita di sofferenza e che erano soggetti ai “rossi” non avendo chi si interessasse dei loro interessi. (3)

Mentre, quindi, il fascismo gigliato mostra subito il suo volto guascone, la sua passione per la beffa e la provocazione, la sua propensione ad agire in piccoli numeri, di sorpresa e velocemente, quello petroniano, si manifesta serio, volto alla conquista delle masse, consapevole di un’azione di redenzione verso la comunità nazionale.

Evidente l’influenza che su tale diversità ha la presenza, in posizione di vertice, di uomini diversissimi tra loro. “Politici” come Leandro Arpinati (e poi Dino Grandi) a Bologna “d’azione” come Dumini e gli altri che gli fanno corona a Firenze.

Sono quelli che, il 29 ottobre, in occasione della partenza per Roma, per la cerimonia della traslazione della salma del Milite Ignoto, dei vessilli dei Reggimenti di stanza in Firenze, “occupano” le strade cittadine nelle quali passa il militaresco corteo, e impongono, con maniere anche brusche, la loro presenza:

Alla partenza delle bandiere dei Reggimenti, nel 1920, stabilimmo di precedere il corteo e di imporre ai cittadini il saluto alla bandiera. Da via Tripoli, la gloriosa, lacera bandiera dell’84° Reggimento Fanteria, con la musica in testa, e il generale De Marchi, passava proprio come una sconosciuta forestiera.

[…]

Con la famosa ed ormai nota frase “Giù il cappello”, imponemmo con la forza il rispetto al glorioso simbolo della Patria. Alla nostra imposizione, molti facevano da sordi, ma certi schiaffi sonori fecero comprendere come noi non conoscevamo sordità alcuna.

Diversi tranvieri che non vollero levarsi il berretto furono un po’ sciupacchiati, tanto che, non sapendo cosa fare di meglio, proclamarono, in segno di protesta, uno dei soliti ridicoli scioperi. (4)

I presupposti per una giornata di sciopero “animata” ci sono quindi tutti. In previsione, i fascisti potenziano la scarsa capacità offensiva assicurata dalle poche armi da fuoco possedute, con robusti “bastoni da bovaro”, e ci sarà un epilogo che non degenera solo per il sangue freddo di uno dei protagonisti, il Sottotenente degli Arditi Guido Luciani.

Egli, con una lettera – documento che vale la pena di riportare per intero – al giornale di Dumini, ci terrà a dare la sua versione dei fatti contro le menzogne giornalistiche:

Egregio signor direttore,

chiedo gentilmente ospitalità nelle colonne del suo giornale per chiarire alcuni punti su ciò che “La Nazione” del 30 ottobre mese riporta circa l’incidente occorso a me, Ufficiale degli Arditi in via dei Martelli.

Anzitutto sappiano che un Ardito, troppo fiero di se stesso, non si mette mai in condizioni di essere inseguito. Egli non fugge. L’Ardito avanza a fronte alta contro un nemico leale, e sa avanzare a fronte più alta contro la teppa del pussismo.

Io non fui inseguito, bensì circondato in piazza del Duomo dai…valorosi, i quali, sebbene in numero abbastanza forte, si guardarono bene dall’avvicinarsi. Però, cresciuti di numero, essi inveirono contro di me, lanciando parole offensive che un fiero e devoto combattente non può subire. Fu allora che estrassi una bomba a mano, e bastò anzi il solo mostrarla per provocare un fuggi fuggi generale; poiché, come tutti sanno, i bravi pussisti non hanno altra buona dote se non …la paura.

Ci tengo a dichiarare inoltre, che se mi astenni dal lanciare la bomba, non fu perché avessi una certa pietà di loro, ma soltanto perché, coscientissimo e sempre padrone di me stesso, notai come numerose signore e signorine si trovassero, per puro caso, presenti all’incidente.

Mi sarebbe certamente spiaciuto che qualche scheggetta fosse venuta a mancare ai miei amici…pussisti.

In quanto alle parole da me pronunciate nell’estrarre la bomba, non furono quelle riportate da “La nazione”, ma io con la calma che è propria di ogni Ardito, dissi: “Largo ragazzi! Largo, attenti al naso!”

“La Nazione” dice inoltre che io fui sottratto all’ira della folla dalle Guardie Regie.

Ciò è falso!

Un primo plotone di agenti uscì soltanto qualche minuto dopo della mia entrata nel cortile della Prefettura, e fu nella Prefettura stessa che trovai un Commissario di PS, e non, come “La Nazione” dice, per strada.

Del resto, i signori pussisti sanno che le Fiamme Nere sono sempre state il loro terrore, sanno che le file del pussismo sono gremite per lo più di disertori, e quindi di vili della peggior specie.

Io, come tutti gli Arditi, non discuto con quella gente, se non con le bombe, o meglio con i pugnali, poichè i vili sono indegni del fuoco, e per loro la miglior morte è quella data a ferro freddo.

Con ringraziamenti. (5)

La politica, però, ha le sue scadenze, ineludibili. Nella città del Giglio le elezioni amministrative sono indette per il 7 novembre, e si presentano subito sotto il segno di una radicalità parolaia mai vista prima.

Il locale Partito Socialista, controllato dai massimalisti, con una forte presenza comunista-bordighiana, dichiara apertamente la sua intenzione di conquistare il Comune e la Provincia in chiave classista, perché “lo sviluppo degli organi soviettisti dovrà essere essenzialmente diretto a sfaldare l’autorità dello Stato borghese” e organizza ripetute dimostrazioni di forza con cortei, comizi e quelle che eufemisticamente vengono definite “passeggiate ricreative”, ma che, in effetti, hanno lo scopo di intimidire, anche con la somministrazione di qualche legnata, gli avversari.

A contrastare le loro intenzioni, è nata, a marzo, l’Unione Politica Nazionale, che è il proseguimento, con intenzioni più ambiziose, della vecchia Alleanza di Difesa Cittadina. I dirigenti sono scelti tra i rappresentanti delle molte anime dell’associazionismo patriottico cittadino, compresi alcuni nazionalisti, e con l’esclusione dei fascisti, che sono, è vero, pochi, ma soprattutto appaiono difficilmente compatibili con i bravi borghesi dell’Unione.

Essi non si formalizzano, e assicurano comunque il loro appoggio, obtorto collo, e con qualche mugugno interno, ma nella consapevolezza della necessità del sacrificio, in quel momento.

Rispetto alle elezioni precedenti, vi è la novità delle liste del partito Popolare, che, pur se più forte nelle campagne rispetto alla città, viene visto come motivo di indebolimento per le fortune dell’Unione Politica Nazionale, della quale, peraltro, ha respinto ogni proposta di alleanza.

D’altra parte, se è vero che si respira un’aria di “attesa” di qualcosa (anche se nessuno sa bene cosa), il clima generale, a Firenze, ancora non conosce la violenza estrema che inizierà con le giornate della rivolta di marzo.

Anche la campagna elettorale sembra ripercorrere più i moduli del passato che anticipare l’atmosfera di guerra civile:

Una volta tanto, io, Pollione, Carnesecchi, Gino Arbaci, Dino Paoletti e Ottone Rosai volemmo prenderci un incarico onorifico. Questo avvenne in occasione delle elezioni amministrative del ’20. Lo scopo era di coprire con i nostri manifesti quelli degli avversari.

Con un bussolotto, più grande di una stagna di benzina, pieno di colla, e sottobraccio pacchi di manifesti, io, per essere in carattere, avevo la funzione di pennellatore, mentre Rosai, da buon pittore, teneva il bigonciolo. Carnesecchi la scala e Arbaci e Paoletti i manifesti.

Per un pò la partita andò bene. Su ogni manifesto sovversivo che si trovava, più qua più la, non facevamo altro che appiccicarcene uno dei nostri. Il quartiere della Croce era già stato convenientemente tappezzato e ritappezzato di nostri cartelli, quando finalmente si giunse nei pressi della Filarocca. Ed ecco che ci troviamo davanti una squadra di attacchini rossi, contornati, come in una parata, dai loro compagnoni.

Aspettammo che avessero attaccato i manifesti, e a nostra volta appiccicammo i nostri sopra i loro. Essi, appoggiati dagli amici, si avvicinano per ripetere il giochetto, quando, che è che non è, il nostro bussolotto di colla prende disavvedutamente la partenza. Senza neppure uno squillar di trombetta, senza neppure un avviso del capostazione.

Era avvenuta una cosa semplicissima. All’amico Rosai il bigonciolo di colla pesava troppo, che credè opportuno di rovesciarlo elegantemente sulla testa di un attacchino.

E poiché il bigonciolo era sempre a mò di tuba su quella zucca, mi gettai d’un balzo dalla scala sulla quale mi trovavo, e col pennello che tenevo in mano, gli detti una solenne rincarata.

I compagnoni fecero l’atto di slanciarsi verso di noi, ma una pennellata in piena faccia, che ebbe ad incollare un occhio ad uno dei loro e l’apparire fra le nostre mani di argomenti persuasivi, fece loro senz’altro prendere la fuga in direzione di Settignano.

Fortunatamente lasciarono sul terreno gli arnesi del mestiere, quindi noi potemmo fare un falò dei loro fogli e con la colla degli avversari attaccammo i nostri manifesti.

Ci trovammo, però, ad essere padroni di tre scale a pioli, che andarono, un pò scombussolate, a fare compagnia ai ranocchi dell’Africo. (6)

Contro le previsioni di molti, la vittoria dell’Unione in città è netta: 48 seggi contro 12 socialisti al Comune, e prima in tre Mandamenti su quattro alla Provincia.

Diversamente vanno le cose nell’intera Regione, dove i socialisti conquistano 150 Amministrazioni su 290 e i popolari 59 delle restanti. È il prevedibile risultato delle intimidazioni – che sono particolarmente efficaci nei piccoli centri, dove le Leghe spadroneggiano, di un biennio che ha visto 300 scioperi organizzati e settanta rivolte agrarie.

I socialisti fiorentini escono invece, sconfitti, sia pure dopo una dura battaglia.

Tra i protagonisti Pirro Nenciolini, impegnato a garantire, con qualche camion squadrista itinerante tra i seggi, la libertà di voto, dopo una campagna che proprio pacifica non è stata:

La lotta per la conquista dei seggi al Consiglio Provinciale era stata strenua. Contro “Barbarossa”, imbaldanzito dai successi riportati altrove, reso ardito dalla tolleranza (qualcuno direbbe dalla paura) manifestata nei suoi confronti dal Governo, i Partiti politici avevano costituito una Unione alla quale i fascisti avevano aderito, offrendosi come gli arditi del blocco, come quelli cioè che in ogni momento erano pronti a mettersi allo sbaraglio pur di infliggere una punizione – o anche solo una umiliazione – a chi credeva di poter liberamente fare e disfare.

Comizi e pugilati, attacchi verbali e assalti in piena regola, durante i quali i fascisti erano sempre in prima fila, avevano indotto i bolscevichi alla meditazione, a protestare contro una persecuzione inesistente, ripetendo la favola del lupo e dell’agnello; inoltre, constatando come bastasse essere coraggiosi per mettere un freno alle soperchierie dei prepotenti, anche i cosiddetti amanti del quieto vivere si facevano innanzi, e, se non si offrivano come combattenti , assicuravano tuttavia che non avrebbero mancato, nel giorno della prova elettorale, di recarsi alle urne. (7)

 

Tra questi “amanti del quieto vivere”, non ci sono – pur senza essere fascisti-squadristi in senso stretto – il ventitreenne Gino Bolaffi, da poco laureato in Giurisprudenza e avviato alla carriera forense, e il di poco più anziano Guido Fiorini nato a Massa Marittima nel 1892, campione sportivo e impiegato di banca.

Sono, probabilmente, iscritti insieme al Fascio e al Partito Liberale, e il 7 novembre, alla notizia della vittoria del Blocco antibolscevico, si inquadrano in un corteo festante che, dopo aver fatto suonare la Martinella della torre di Arnolfo, e chiesto l’esposizione del tricolore al balcone di Palazzo Vecchio, si incammina per le vie cittadine.

In via Roma, però, quasi all’altezza di piazza del Duomo, da un gruppo di socialisti lì appostati, partono prima insulti, poi colpi di rivoltella, e, infine, una bomba.

Ne nasce una violenta battaglia con alcuni fascisti presenti al corteo, che inseguono, sparando a loro volta, gli assalitori in via dei Tosinghi, via dei Medici e via Calzaioli.

Sul selciato di via Roma, però, è rimasto Gino Bolaffi, vittima dello scoppio della bomba, e dinanzi al bar Italia viene colpito a morte Guido Fiorini.

Essi saranno considerati, con giusta ragione, i primi Caduti della riscossa nazionale a Firenze, e, come tali, verranno inclusi nel martirologio fascista cittadina e vedranno le loro salme traslate, insieme a quelle degli altri martiri, nel Sacrario di Santa Croce.

Il manifesto del Fascio (firmato insieme a “I Combattenti”) marca la differenza tra le vittime e i loro assassini:

Ancora una volta, sbucando dalle tane immonde dove si accolgono sempre più pochi, ma sempre più biechi, per incitare o negare, distruggere, lordare, offendere, hanno ucciso a tradimento i nostri fratelli giovanetti, e rei soltanto di essere belli e innocenti, e di credere che il santo avvenire debba essere affidato all’Idea invocata e preparata con cuore puro. (8)

Di fronte ad un avvenimento così drammatico non metterebbe nemmeno conto di parlare delle vicende che interessano il Fascio fiorentino nell’ultimo periodo dell’anno, se non fosse che esse sono anticipatrici di ciò che avverrà nei mesi – e negli anni – successivi.

Ufficializzano il loro ingresso (anche se sulle date precise qualche incertezza rimane, e la memorialistica non aiuta a risolverla), a fianco dei nomi già visti, altri destinati a lasciare il segno, primi fra tutti il fiorentino puro sangue Dino Perrone Compagni e il pratese Tullio Tamburini.

Il primo, che ha tenuto i contatti con l’Autorità militare in occasione delle manifestazioni per la partenza delle bandiere, dà al movimento, per i nobili – ancorchè decaduti – natali, una qual certa affidabilità agli occhi della pubblica opinione, certo più rassicurante di quanto possano fare i “legni storti” fin qui riuniti in piazza Cavour. Oltre alle polemiche, di cui si dirà, sarà oggetto, però, nei mesi a venire, dell’ironia degli stessi suoi seguaci, che lo soprannomineranno “Conte di Culagna”, probabilmente con riferimento al suo incerto passato militare in guerra e degli sfottò degli avversari che, per le sue manie di (credere di) dare ordini, con lettere autografe alle Amministrazioni socialiste, invitandole alle dimissioni, lo chiameranno “Granduca di Toscana”.

Di ben altra stoffa è Tamburini, che appartiene a quella razza di deracines che popola le città (addensandosi nei caffè, soprattutto) del primo dopoguerra.

Saranno loro gli indiscussi protagonisti dei mesi che verranno.

 

FOTO 5: il primo numero della “sassaiola fiorentina”

FOTO 6: propaganda fascista a Firenze

 

NOTE

  1. “Sassaiola Fiorentina”, nr 1 del 4 novembre 1920, prima pagina
  2. in: Nazario Sauro Onofri, La strage di Palazzo D’Accursio, Milano 1980, pag. 199
  3. “L’Assalto”, numero saggio del 4 novembre 1920: “Italiani avanti!”, in prima pagina
  4. Bruno Frullini, cit., pag. 35
  5. “Sassaiola fiorentina”, nr 3 del 13 novembre 1920, lettera in terza pagina
  6. Frullini, cit., pag. 45
  7. L’olocausto di Firenze, La Nazione 1934, pag. 14
  8. Pietro Valgiusti, Diario di una tipografia della rivoluzione fascista, Firenze 1936, pag. 100

 

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