27 Aprile 2024
Società

Shakespeare proibito, il Fentanyl no – Roberto Pecchioli

Ci sono molte cose che non riusciamo a comprendere, nel groviglio del tempo che ci è toccato in sorte. E non parliamo solo di massimi sistemi, di grandi temi di senso, su cui la contemporaneità tace. Incomprensibile è l’impressionante diffusione delle droghe. Una docente di liceo classico milanese ci confidava un profondo malessere dinanzi a classi in cui la maggioranza consuma pasticche, cocktail di sostanze o peggio. Colpisce non solo l’estensione del fenomeno, ma anche il fatto che, dopo mezzo secolo dacché la droga ha cominciato a infettare le generazioni – prima riguardava minoranze di disadattati e artisti “maledetti” – a nulla valga che tutti sappiano perfettamente che certe sostanze inducono dipendenza, fanno male, devastano la vita e non di rado conducono alla morte.

Di fatto non vi è nessuna vera prevenzione da parte delle istituzioni, né serie politiche pubbliche. Le legislazioni hanno normalizzato l’uso, la detenzione delle cosiddette “modiche quantità” in nome della malintesa libertà e spesso rinunciano a perseguire il piccolo spaccio, quello di strada, i cui protagonisti sono anche consumatori, o immigrati senza lavoro, piccoli delinquenti che mettono in allarme la popolazione e rendono amara la vita di milioni di persone. Sono i danni collaterali della società aperta. Aperta a che cosa, in concreto? Alla droga, ad altre dipendenze perniciose, al relativismo per cui qualsiasi scelta deve essere accettata e magari elevata a modello. Aperta al mito del denaro, del successo, a una libertà priva di prospettive. Non siamo felici, a dimostrazione che benessere ( o meglio ben-avere) e gioia di vivere non camminano insieme.

Capita che il lettore onnivoro trovi in rete due notizie che aprono squarci, se non di comprensione, almeno di riflessione. In Inghilterra e negli Usa le maggiori università hanno cominciato a ritirare libri definiti divisivi, impegnativi, pericolosi. Accade nella Ivy League americana – il nomignolo degli atenei più prestigiosi – e nel circuito britannico delle Russell University, Cambridge, Oxford, London School of Economics, King’s College. L’intenzione è scioccante: proteggere gli allievi, ossia la futura classe dirigente. Tra gli autori definiti “preoccupanti” c’è Shakespeare, gigante universale, romanzieri del calibro di Charles Dickens e Jane Austen. Non si salva il premio Pulitzer Colson Whithead, il cui The Underground Railroad (La ferrovia sotterranea) affronta il tema sensibile della segregazione razziale. Pollice verso per il drammaturgo svedese August Strindberg: La Signorina Giulia indurrebbe al suicidio. L’università di Aberdeen invita gli studenti a non partecipare al corso su Geoffrey Chaucer, massimo autore medievale inglese (I Racconti di Canterbury) in quanto “ può risultare una sfida emozionale”.

Non è dato sapere quali sfide emozionali siano accettabili. Preoccupante è l’aggettivo riservato dagli apostoli del nichilismo culturale persino ad Agatha Christie, autrice di romanzi gialli. Nulla sfugge ai censori dell’ Illuminata Inquisizione, impegnata a cancellare la conoscenza, redigere avvertimenti (trigger warnings) a chi legge, studia o visiona contenuti audiovisivi. Non forma, ma deforma le generazioni, esposte alla malattia del nichilismo, esito finale dell’ignoranza trionfante. Che c’azzecca con la droga di massa? C’entra moltissimo, secondo noi. La notizia parallela è infatti l’irruzione di una droga sintetica, il fentanile o Fentanyl, nelle elezioni americane. La piaga di questa sostanza (e di altre) sta avvelenando il paese dal di dentro. Parola di Donald Trump, difficile da smentire giacché in quattro anni sono morti a seguito dell’assunzione di oppiacei quasi trecentomila americani. Il numero è in aumento costante; la strage non risparmia alcun ceto o età e si avvia a raggiungere i trecento lutti al giorno. Un’ emergenza nazionale che costituisce la prima causa di decesso per vari segmenti della popolazione. Interi quartieri sono ghetti di disperati devastati dal Fentanyl.

Si tratta di un oppiaceo sintetico cento volte più potente della morfina, usato come analgesico nei tumori terminali e anestetico in interventi chirurgici invasivi. I suoi precursori provengono dalla Cina – il che fa riflettere sui metodi di guerra ibrida tra superpotenze – è di facile produzione e ha un prezzo particolarmente basso sul mercato. L’ultima rilevazione – approssimata per difetto – indica in oltre centoundicimila i decessi annuali per droga negli Usa. Gli avvertimenti della cultura ufficiale – ossia della classe dirigente – riguardano però la lettura di Shakespeare , sconsigliata, divisiva, pericolosa, in quanto il bardo sarebbe antisemita (Shylock, il Mercante di Venezia) , razzista (Otello, il Moro di Venezia), maschilista (La bisbetica domata e il personaggio di Lady Macbeth) , incline alla violenza e alla guerra, nemico dei disabili (il malvagio Riccardo III) e dei primitivi (il selvaggio Calibano della Tempesta).

L’arte è vietata o preceduta da severe avvertenze sugli “stereotipi di genere e di razza”; la droga viene acquistata pressoché liberamente in ogni via. Qualcosa non funziona nel libero, inclusivo, illuminato Occidente che si disfa del peso di millenni di civiltà. Forse una relazione esiste tra l’incultura e la vita gettata da milioni di persone tra pasticche, polverine, alcool e altro. Privata di senso – la conoscenza, l’arte, la sapienza della comunità, lo spirito, la religione conferiscono scopo, direzione – l’esistenza perde attrattiva sino a diventare “male di vivere”. Eugenio Montale lo incontrò nella “divina indifferenza”, l’ incapacità dell’uomo moderno di credere in qualcosa, di accettare la sua condizione e superare “la sonnolenza nel meriggio”. Prima, la civiltà investiva su se stessa, costruiva un sistema di credenze, costumi, modi di vita. Riconosceva la trascendenza, istituiva simboli , inventava riti per accompagnare gli uomini nell’avventura del vivere.

Adesso diffonde ignoranza, inconsapevolezza, paura, sottopone tutto al tribunale inappellabile del presente. L’uomo dio ripiegato su se stesso, Narciso che confonde l’immagine con la realtà, avverte lancinante la propria inadeguatezza , ma non trova più appigli. La superficie della post modernità è scabra, levigata. Ogni ostacolo è rimosso e le generazioni, fragili come fiocchi di neve, altro non possono che trovare rifugio all’inferno reale nei paradisi artificiali, pronti a diventare nuovi drammatici abissi. Così consumiamo la cocaina, droga della prestazione, della performance nella competizione sul mercato, e tutto è mercato. Poi c’è la massa di oppiacei e pasticche che leniscono l’ansia dell’anima, le droghe che fanno sentire onnipotenti e quelle che producono allucinazioni. Negli anni Sessanta e Settanta del secolo passato sorse il mito del “trip” , il viaggio visionario, allucinatorio dell’acido lisergico e di altre sostanze consigliate da santoni, musicisti e intellettuali borderline, alcuni dei quali risultarono poi agenti della Cia. Ossia del potere. I giovani di allora manifestavano antagonismo, insofferenza: bisognava neutralizzarli. Nulla di meglio della droga, della dipendenza.

Nel XIX secolo l’imperialismo mosse guerre per diffondere l’oppio in Oriente. Nel Ventesimo ha fornito ai propri giovani droghe chimiche, realizzando enormi profitti e rendendo innocue intere generazioni. Nel XXI la parabola si conclude con la generalizzazione dell’uso di stupefacenti, sdoganti nell’immaginario di massa. Tanto – pensano molti – smetto quando voglio. Non è vero, poiché anche la volontà più forte cede dinanzi alle dinamiche biologiche innescate da sostanze che modificano l’organismo. Come non è vero che le prestazioni – professionali, cognitive, sessuali- migliorino assumendo certe sostanze. L’effetto è passeggero, l’asticella si alza, la dipendenza sorge quasi inavvertitamente. Rapidissima nel caso del Fentanyl.

La verità è brutta, ma bisogna dirla: la droga fa star bene, ecco perché è così facile entrare nel gioco. L’eccesso di fiducia in se stessi fa il paio con la convinzione che altre sostanze chimiche, altri farmaci, ci libereranno dagli effetti negativi. Altra illusione. Ma come si può smontare la cultura delle droghe, se la cultura stessa è cancellata? Come si può accettare il divieto – o la messa in guardia – se viene equiparata all’autoritarismo, all’obbligo, al guinzaglio imposto al nostro soggettivismo, alla dittatura dell’Io? Sono l’unico padrone di me stesso, quindi faccio ciò che voglio. E’ il disastro dell’invito accattivante scambiato per libertà: fa ciò che vuoi. Funziona nelle fiabe letterarie, in luoghi utopici come l’abbazia di Thelème inventata da Rabelais, ma finisce nei deliri inferi di un Aleister Crowley e di mille cattivi maestri.

Nessuno di loro, significativamente, è censurato dalle università o è nel mirino della cultura della cancellazione. Cancellare significa togliere, eliminare, nascondere il sapere, escludere il giudizio. Di cancellazione in cancellazione, le generazioni vengono private del cibo dello spirito e della concreta conoscenza. Anche di quella scientifica e tecnica: c’è Internet, inutile, fastidioso studiare. Come potrebbe resistere alle dipendenze chi è privato di punti di riferimento, ancoraggi comunitari, risposte spirituali? Se Shakespeare è pericoloso o divisivo, se non dobbiamo più conoscere chi siamo , se la musica di Beethoven è il grido di uno stupratore, se diventiamo tabulae rasae, per quale motivo uno dovrebbe scorgere un senso qualsiasi all’esistenza, distinguere il bene dal male, il giusto dall’errato, se non in termini di piacere o interesse?

Smetto quando voglio, ma voglio provare la coca e il beverone di alcool e pasticche. Il verbo è sballare, ossia eccedere, andare fuori giri come un motore portato all’eccesso, uscire da se stessi. Esce da stesso chi non sa chi è, chi ha paura delle domande della vita, chi sfiora il baratro, prova terrore e deve trovare rimedio. Le civiltà umane sono il tentativo di conferire significato allo “strano interludio” che è la vita. Se la cultura ufficiale – il potere – ingiunge di cancellare, di non sapere, di vivere solo l’attimo e il Sé, se la conoscenza diventa fonte di divisione, timore, la soluzione è fuggire, colmare in ogni maniera il nulla che ci viene imposto.

Francesco Bacone, padre della rivoluzione scientifica, scrisse che sapere è potere. Dunque, ignorare significa essere, o peggio diventare impotenti. E’ l’esito della cultura (cultura?) della cancellazione. Il vuoto produce disperazione, perdita di identità. Se non sappiamo più chi siamo, non possiamo che cercare alternative. E’ terribile che la droga, il tremendo Fentanyl, sia una soluzione, un modo per lo “star bene” di un attimo. Ignari perché il cancellino ha ripulito la lavagna, protetti dalla realtà nella bambagia in cui ci hanno avvolto, siamo resi disponibili a tutto, anche a distruggerci. Chi viene scoraggiato dal riflettere, non sa – neppure sospetta – che il potere lo vuole così, atomo alla deriva guidato da istinti, pulsioni, paure.

Shakespeare fa dire ad Amleto che ci sono in cielo e in terra più cose di quante ne possa sognare tutta la filosofia. Pone domande decisive: essere o non essere? Sarà divisivo come la vita, ma spiega a chi ha smarrito la via che anche l’inverno del nostro scontento può diventare estate gloriosa senza Fentanyl e altri intrugli di morte. Soprattutto, solleva il sospetto di vivere nel mondo in cui i pazzi guidano i ciechi. Ciechi privati della luce della conoscenza, pazzi dominati dalla volontà di potenza. Il nostro male, la nostra ignoranza è il pegno del loro potere. Nel mondo alla rovescia, vince il Fentanyl. Guai a chi cela deserti, perché genererà altri deserti.

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