17 Luglio 2024
Cultura

Regola numero uno: satanizzare il nemico – Rita Remagnino

Credete che l’«odio» sia il frutto avvelenato dei nostri tempi? Pensate che la tendenza a «satanizzare» il nemico (politico, professionale, ideologico, personale, ecc.) sia una tattica tutta moderna? Dopo aver letto queste pagine potreste cambiare idea perché il trucco di «satanizzare» qualcuno, un certo popolo o un determinato periodo storico, in realtà è vecchio di almeno diecimila anni. Né si può dire che il tempo abbia cambiato i suoi scopi: distorcere e rendere illeggibile la figura e l’azione dell’Altro che si oppone alla propria visione del mondo.

Ma noi miscredenti ultimogeniti degli Anni della Fine ormai dubitiamo di tutto e non crediamo più a nessuno, avendo imparato che quello che appare non è. A cominciare dalla Storia, scritta immancabilmente dai vincitori, i quali non sono mai il «nuovo che avanza» ma piuttosto un prolungamento del processo precedente. Ne consegue che il «demoniaco che è in noi», propaganda a parte, c’era tanto prima della comparsa del «buco nero» quanto dopo.

Ma partiamo dall’inizio, cioè dalla fine dell’ultima Era Glaciale. Il peggio climatico sembrava essere passato quando un brusco ritorno a condizioni estreme, tra i 12.900 e gli 11.500 anni fa, colpì in modo particolare le latitudini che si trovavano al di sopra del 41° parallelo Nord, dove le strutture in pietra delle più avanzate culture del pianeta non furono sufficienti a contrastare la furia devastatrice degli elementi.

Le calotte collassarono improvvisamente. Il bacino glaciale del Baltico crollò di colpo. Le acque del lago nordamericano Agassiz si spinsero fino al Golfo del Messico. Tre episodi di temporaneo raffreddamento, chiamati Dryas dai geologi moderni, si susseguirono uno dopo l’altro. Molti popoli settentrionali si misero così in marcia, e gli spostamenti li portarono a conoscere alcune popolazioni arretrate di cacciatori-raccoglitori sparse più a Sud.

Grande era la meraviglia degli autoctoni alla vista di quegli stranieri alti, belli e capaci di fare cose prodigiose che se ne andavano in giro per i villaggi avvolti come angeli in mantelli ricoperti di piume d’uccello. Da parte loro gli algidi personaggi «scesi dalle montagne» stavano in disparte, di solito in luoghi ben protetti e recintati, sebbene non mancassero di offrire agli indigeni occupazioni di manovalanza insieme alla possibilità di risollevare le loro sorti attraverso il lavoro. Un nobile intento che non sempre andava a buon fine, come racconta un’antica storia – nessuno sa dire quanto – resa celebre dalla Genesi ma originaria di chissà dove.

“(…) e dopo alcuni giorni mio figlio, Matusalemme, diede moglie a suo figlio Lamech, e questa concepì e gli diede un figlio. E il suo corpo era bianco come neve e rosso come una rosa, i suoi capelli come lana bianca, e quando i suoi occhi si aprirono tutta la casa risplendette come illuminata dal sole. (…) Lamech ebbe paura di lui e fuggì dal padre suo Matusalemme; gli disse: uno strano figlio ho generato … non mi sembra figlio mio, ma degli angeli del cielo …

Con queste parole il patriarca Enoch, vissuto dopo il Grande Diluvio e «rapito in cielo all’età di 365 anni», descrisse l’angoscia del nipote Lamech alla vista del primogenito Noé, così «diverso» dal resto della stirpe. Sua moglie giurò sull’Altissimo che il seme era del marito, come pure il concepimento, ma i parenti non ne erano sicuri. Allo scopo di prevenire una crisi familiare il saggio Enoch rivelò allora al clan un inconfessabile segreto: nella generazione di suo padre, il patriarca Iared, alcune «creature angeliche» avevano trasgredito alle leggi dell’Altissimo e si erano unite carnalmente a femmine «umane», generando con loro una prole malvagia e corrotta, gigantesca nella carne ma minuscola nello Spirito. A partire da quel momento il Male si era diffuso a macchia d’olio sulla Terra ma la nascita di quel bambino, Noé, che era veramente il figlio di Lamech, avrebbe lavato via tutti i peccati dal mondo.

La narrazione si riferisce probabilmente a qualcosa di realmente accaduto in territorio curdo tra il 9.500 e l’8.000 a.C. mentre la morsa del Dryas Recente allentava la sua presa e riprendevano le migrazioni, moltiplicando gli incontri tra etnie differenti. Maggiori dettagli al riguardo si trovano nei Libri di Enoch, un apocrifo della Genesi il cui contenuto fu ribadito nel 1947 da alcuni frammenti di un testo religioso ritrovati a Qumran, nei pressi del Mar Morto.

Non è sicuro ma probabile che oggi le rovine degli insediamenti angelici giacciano sul fondo del lago Van, un luogo magico capace ancora d’incantare il viaggiatore che si trovi a percorrere via terra l’area di confine tra il Kurdistan turco e la ex-repubblica sovietica dell’Armenia. Non si può descrivere a parole la forza misteriosa che irradia da quel vastissimo mare interno lungo un centinaio di chilometri e largo circa cinquantasei. Per capirne la potenza intrinseca bisogna concedersi il tempo di attraversarlo in battello, avendo la fortuna di poter incappare in una tregua tra una guerra e l’altra, e a me è toccato questo privilegio.

Attualmente la circolazione laggiù è interdetta dai fanatici del jihad, ma ad aprire le danze armate furono probabilmente gli Arcangeli incaricati dall’Altissimo di procedere contro gli Angeli ribelli. Sia la letteratura enochica che quella trovata a Qumran affermano che fu un massacro: “Quei duecento demoni combatterono un’aspra lotta con i quattro (arc)angeli, che infine ricorsero a fuoco, nafta e zolfo”, così che rimasero uccisi ben “quattrocentomila Giusti”. L’angelo Shemihaza, il capo dei ribelli, finì legato mani e piedi e precipitato insieme ai compagni nel ventre asciutto di un deserto, dove il gruppo sovversivo sarebbe rimasto fino al giorno del Giudizio, prima di essere gettato nel fuoco eterno per avere corrotto l’umanità.

Lontano dagli occhi, lontano dal cuore, come si dice. Ma soprattutto dalla possibilità di riappropriarsi del potere temporale. Se un tempo il nemico «satanizzato» veniva sepolto vivo, oggi pensa il politicamente corretto ad oscurare la sua immagine pubblica. E a conti fatti l’invisibilità social-mediatica non è meno avvilente di un confinamento nel regno sotterraneo, non essendoci pena più dolorosa per l’uomo dell’annientamento della propria individualità, a maggior ragione nell’odierna società dell’apparire.

Volendo tuttavia spezzare una lancia a favore dei severi giudici post-diluviani, va detto che probabilmente non ebbero scelta. Uccidere i reietti, legarli come ladri, annegarli o bruciarli, non sarebbe stato un deterrente sufficiente a placare il dissenso. Ci voleva qualcosa di tremendo che le generazioni successive potessero ricordare con orrore, come ad esempio la possibilità di essere sepolti vivi in mezzo al deserto.

Fin dall’inizio dell’avventura di esplorazione e colonizzazione i patti tra i due rami della comunità angelica erano stati chiari: la famiglia etnica doveva rimanere integra, il «sangue divino» non andava mischiato con lignaggi inferiori, né le conoscenze dei Fondatori dovevano essere divulgate ai Fratelli Minori, incapaci di comprenderle e quindi di farne buon uso.

Su quest’ultimo punto, in particolare, bisognava essere inflessibili. La segretezza del sapere antico era vincolante e restrittiva. Si poteva chiudere un occhio su qualche piccola trasgressione, ma l’incauto disvelamento delle cose proibite era inaccettabile. L’uso della medicina e delle erbe, i principi delle arti magiche e i presagi della folgore, insieme agli insegnamenti sui pianeti e le stelle, sulla terra, il sole e la luna, non andavano rivelati a soggetti ignoranti che li avrebbero di sicuro travisati, non riuscendo a percepirne il significato profondo. Da millenni gli assiomi, le regole, le formule, i teoremi e tutto quanto costituiva il «sapere proibito degli Avi» non veniva neppure messo per iscritto, onde evitare fughe di notizie all’interno della comunità, figurarsi come poteva essere accolta la loro divulgazione all’esterno.

Di fronte a simili restrizioni la nostra società bigotta parlerebbe subito di «comportamenti antidemocratici», salvo poi permettere alla piattaforma Google di decidere per noi la veridicità di qualsiasi informazione. Il paragone sarà forse un po’ azzardato, ma la mentalità antica era molto più sensata della nostra e nient’affatto antidemocratica.

Di sicuro non c’era l’abitudine di sbandierare le cose importanti in piazza, tuttavia i principi fondamentali della conoscenza si palesavano a chiunque fosse in grado di coglierli attraverso le grandi opere d’arte e di architettura, nei riti e nei miti. Non esistevano differenze di classe nella comprensione delle «cose dello Spirito» e chi aveva la coscienza allenata a recepire i messaggi spirituali capiva tutto quanto c’era da capire senza alcuno sforzo, sebbene non avesse ufficialmente accesso allo scrigno segreto del sapere. Non afferrava il concetto solo chi non lo avrebbe inteso in ogni caso, non avendone la capacità. Questo è il vero parlare democratico, tutto il resto è fumo esalato dal calderone del politicamente corretto.

Quanto agli accusati, come non comprenderli. Si trattava in fondo di «uomini al bivio» divorati da un lacerante dilemma: giunta ormai al termine del ciclo di crescita e di sviluppo la loro stirpe doveva decidere se isolarsi ed estinguersi, oppure se scendere a patti con un tempo degenerato. A spingere gli Angeli caduti verso la seconda opzione non fu dunque l’orgoglio, né la superbia, ma un destino di necessità.

Nella maggior parte dei casi l’azione ribellista è finalizzata alla protezione del solo ordine che conta: quello Superiore. Nessun autentico rivoluzionario si è mai armato fino ai denti per «spazzare via tutto», né per occupare il posto di qualcun altro, ma per ristabilire una sacralità dell’essere che cominciava a scricchiolare.

Il ribelle Shemihaza non ce l’aveva con l’Altissimo bensì con gli Arcangeli. Il disobbediente Prometeo non contestò l’«ordine degli dèi» ma la persona di Zeus, il dio-individuo che considerava l’usurpatore storico di una legittimità trascendente e metafisica che si stava perdendo. Vale lo stesso discorso per Shiva, il distruttore della triade divina indù, anche lui un «uomo ultimo» che portava l’«occhio del cuore» (sede dell’Intelletto Assoluto) ben visibile in mezzo alla fronte. Nel novero dei ribelli per forza maggiore si potrebbe aggiungere il cinese Ch’ih Ti, costantemente impegnato a stilare elenchi di luoghi degradati da incendiare per favorire la rigenerazione.

È molto lunga la lista degli «inceneritori» inclusi nelle storie tradizionali. Si comincia con la lettera “A”= Angeli caduti, e poi ci si perde. A nessuno di costoro, però, è mai balenata l’idea di opporsi all’Uno Supremo, le cui leggi divine i contestatori tentarono anzi di proteggere. Non stiamo parlando di squilibrati mentali votati al suicidio, né di sfascisti seriali, bensì di restauratori, o purificatori, di «uomini ultimi» che si accollarono il compito di incenerire i rami secchi della loro società per permettere la crescita dei germogli.

Ma purtroppo “la rivoluzione, come Saturno, divora i propri figli”, disse saggiamente Danton durante il suo processo ai tempi della Rivoluzione Francese. È raro che l’impresa di distruggere, o di sovvertire per poter ricostruire qualcosa di più «potente», sia coronata dal successo personale di chi accende la miccia. In genere l’eroe è un «puro di cuore», ci vuole poco per sbarazzarsene alla prima occasione. Dopo di che sbuca fuori dal polverone qualcuno pronto ad approfittare del disordine per imporsi, anche se non possiede le migliori qualità per guidare i suoi simili.

Qualcuno starà pensando a questo che i ribelli se la sono cercata. Se avessero rispettato le regole non sarebbero caduti in disgrazia. Bene hanno fatto dunque gli Arcangeli a «satanizzarli», trasformando la bellezza originaria degli Angeli (interiore oltre che esteriore) in bruttezza demoniaca. Ma siamo sicuri che siano stati loro ad attuare questa strategia? E se invece la metamorfosi fosse figlia di tempi successivi e di gran lunga più corrotti?

Qualche perplessità suscita la presenza sulla testa dei ribelli delle corna, che nel nostro passato più remoto non erano affatto un attributo negativo. La parola «corna» e il termine «corona» derivano anzi dalla stessa radice indoeuropea KRN, che esprime significati di «potenza» e di «elevazione». Come ben sapevano i Padri della Chiesa, che istruiti sulla scorta di narrazioni maturate in ambienti sapienziali non attribuirono la colpa della «caduta» ai Vigilanti bensì a Eva.

Un angelo ha davvero il potere di stravolgere la propria natura, diventando un diavolo? Dopotutto Dio e Satana, Serpenti e Uccelli, Dèva e Asura, Angeli e Arcangeli, insieme a tutti gli altri avversari storici dell’antichità, erano «consanguinei», provenivano cioè dalla stessa «famiglia divina». Anche il patriarca Enoch cita l’iniziale «fratellanza» di Angeli e Arcangeli, i quali prima di venire ai ferri corti produssero insieme «sulla Terra» cose ammirevoli. Gettarono le fondamenta dei continenti al di sopra delle acque, dai segreti recessi delle montagne fecero sgorgare limpide acque, scavarono pozzi profondi come abissi, crearono un mare e posero attorno ad esso la sabbia per contenere la sua collera.

Si tratta evidentemente di una narrazione mitizzata di Storia della Civilizzazione, che tuttavia testimonia la solidarietà di fondo esistita all’interno della famiglia angelica. Un gemellaggio interpretato dagli accademici come l’oscuro desiderio umano di penetrare il mistero dell’esistenza del Male, l’imperfezione della Creazione divina. Ma vale anche qui il principio del rasoio di Occam. Perché andare a cercare motivazioni astruse, quando l’intenzione dei predecessori era semplicemente quella di tramandare ai posteri un fatto di cronaca?

Ancora nell’Antico Testamento ha-satan significa l’«avversario», il nemico di dio e del popolo d’Israele in generale. Non c’è di mezzo alcun essere diabolico ma solo un rivale da combattere, e possibilmente vincere. Qualcuno che viene definito con rispetto “la più astuta delle bestie selvatiche fatte dal Signore dio”. E «selvatico» significa spontaneo, naturale, libero da costrizioni.

Là dove Satana tenta Giobbe finendo per distruggerne la famiglia e i beni «col consenso di dio» (Libro di Giobbe, 34), il patriarca non se la prende con Satana reclamando giustizia bensì con dio che ha permesso la sua rovina. Quando un’invasione di «serpenti» vivi e velenosi rischia di sterminare il suo popolo in mezzo al deserto, Mosè erige l’effige in rame del Serpente-guaritore (Libro dei Numeri 21,4-9) affinché chiunque guardi quell’effige venga «miracolosamente» guarito. Un rituale che ricorda molto da vicino quello praticato dai Sumeri in onore di Ningischdiza, il «signore dei medici», e che forse ne è un retaggio.

Con il passare del tempo il «serpente di rame» divenne di bronzo ma simbolicamente la sua immagine «protettrice» rimase intatta per secoli. Fino a quando, sotto il regno di Ezechia (717-686 a.C.), fu distrutto dallo stesso re che cominciò a considerare idolatria l’abitudine degli Israeliti di bruciare incenso in onore di colui che chiamavano Nehustan, il Grande Guaritore, il Grande Serpente che sapeva tutto ed era caduto per avere insegnato tutto. O quasi.

Tuttavia le tradizioni che possiedono radici profonde sono dure a morire, e così ritroviamo l’effige del «serpente di rame» nelle mani di Gesù, che ostentandola dice: “E come Mosè innalzò il serpente nel deserto, così bisogna che sia innalzato il figlio dell’uomo, perché chiunque creda in Lui abbia la vita eterna” (Giovanni 3:14-15). Un chiaro invito a ritrovare l’antica spiritualità perduta, quella seppellita nel deserto insieme a Shemihaza, distrutta nel Regno della Natura con Pan.

La vera e propria «satanizzazione» arriverà con il Nuovo Testamento, che per la prima volta attribuisce al temine ha-satan una connotazione negativa. Doveva essere chiaro al popolo eletto che Satana era il «serpente maledetto», l’Angelo che aveva perso la grazia di dio, il pericoloso seduttore dell’umanità fortunatamente sconfitto dagli Arcangeli. Così si legge nell’Apocalisse di Giovanni: “E il drago fu scaraventato fuori. Il grande drago, cioè il Serpente Antico, che si chiama Diavolo e Satana, ed è il seduttore del mondo, fu gettato sulla Terra, e anche i suoi angeli furono gettati giù. (…) L’angelo [Michele] afferrò il drago, il serpente antico, cioè Satana, il Diavolo, e lo incatenò per mille anni, lo gettò nel mondo sotterraneo, ne chiuse l’entrata e la sigillò sopra di lui. Così il drago non avrebbe più ingannato nessuno.”

Ma se giustizia è stata fatta, come si spiega l’escalation di violenza in cui l’umanità è impegnata da millenni? Perché non viviamo in un mondo di pace e di giustizia? Siamo sicuri di avere cacciato i «cattivi»? E se per ipotesi avessimo oscurato i «buoni»? Forse stimolato da questi pensieri Goethe parlò nel Prologo in Cielo di una complicità tra i due opposti divini: “Tra tutti gli spiriti che negano è il Maligno che mi è meno inviso. L’attività dell’uomo cede troppo facilmente, e presto egli si diletta dell’assoluto riposo; così io gli dò volentieri questo compagno, che lo stimola e gli fa cenno e che, come Diavolo, ha da lavorare. “

Allo stesso modo Mefistofele riconobbe che di tanto in tanto gli faceva piacere incontrare il Grande Vecchio. Il suo spirito contestatore che negava sempre, arrestando talvolta il flusso della vita e impedendo che le cose si compissero, non si sarebbe mai opposto a dio. Perché, dunque, l’umanità continua a «satanizzare» il nemico? Non si rischia di ottenere l’effetto opposto?

Una frase attribuita a Marx ricorda che la Storia si ripete sempre due volte: la prima come tragedia, la seconda come farsa. Se migliaia di anni fa il primo tentativo di «satanizzazione» (che si sappia almeno) andò a buon dopo aver provocato una catastrofe, la sua parodia moderna, volta principalmente a rendere inoffensivi quanti rifiutano di allinearsi al pensiero unico globalista, è sprofondata nel ridicolo nel giro di pochi anni.

Anche i più ingenui hanno ormai capito che il Bene non sta tutto da una parte, né il Male tutto dall’altra. I comunisti non mangiano i bambini e i sovranisti non vogliono tornare alle città murate. Questo è probabilmente il motivo per cui il culto del diavolo, come quello di dio, non cesserà mai di esistere. Invisibili agli occhi dell’uomo tecnologico, i simboli dell’antica devozione continuano a vivere nelle nostre città esprimendosi in moltissime feste popolari e in celebri competizioni come la Corrida, certe processioni religiose, le maschere e i travestimenti carnevaleschi. Una longevità legata alla loro autentica naturalezza.

Rita Remagnino

 

 

APPROFONDIMENTI :

 

Alford A., Il mistero della genesi delle antiche civiltà, Newton Compton, Roma, 1996

Baldacci M., Il diluvio, Mondadori, 1999

Biglino M., La Bibbia non è un libro sacro, Uno Ed., 2013

Collins A., Gli ultimi dei, Sperling & Kupfer, Milano, 1997

D’Amato G., L’inizio del sapere e della civiltà, Treves, Genova, 1925

De Graya M. e Lupi Speranza M. (a cura di), I Libri di Enoch, Independently published, 2020

Goethe J.W., Faust, Mondadori, 2016

Gregory T., Principe di questo mondo. Il diavolo in Occidente, Laterza, 2014

Ibba G., Torah – Genesi, Dehoniane Ed., Bologna, 2013

La Sacra Bibbia, versione ufficiale CEI, EDB, 2008

Pincherle M., La fine dell’Eden, Faenza, 1976

 

 

Ricercatrice indipendente, scrittrice e saggista, Rita Remagnino proviene da una formazione di indirizzo politico-internazionale e si dedica da tempo agli studi storici e tradizionali. Ha scritto per cataloghi d’arte contemporanea e curato la pubblicazione di varie antologie poetiche tra cui “Velari” (ed. Con-Tatto), “Rane”, “Meridiana”, “L’uomo il pesce e l’elefante” (ed. Quaderni di Correnti). E’ stata fondatrice e redattrice della rivista “Correnti”. Ha pubblicato la raccolta di fiabe e leggende “Avventure impossibili di spiriti e spiritelli della natura” e il testo multimediale “Circolazione” (ed. Quaderni di Correnti), la graphic novel “Visionaria” (eBook version), il saggio “Cronache della Peste Nera” (ed. Caffè Filosofico Crema), lo studio “Un laboratorio per la città” (ed. CremAscolta), la raccolta di haiku “Il taccuino del viandante” (tiratura numerata indipendente), il romanzo “Il viaggio di Emma” (ed. Sefer Books). Ha vinto il Premio Divoc 2023 con il saggio “Il suicidio dell’Europa” (ed. Audax Editrice). Attualmente è impegnata in ricerche di antropogeografia della preistoria e scienza della civiltà.

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