9 Aprile 2024
Sulla strada

Ora et labora – Rita Remagnino

Arrancando sull’impervia salita del Purgatorio, un sentiero scavato nella montagna con un’infinità di spuntoni rocciosi da schivare, Dante ha la riprova di quanta fatica ci voglia per ri-entrare nella dimensione del divino. La strada è disagevole e bisogna sgobbare in prima persona, senza stampelle umane o sovrumane, nonostante oggi qualcuno s’illuda di poter viaggiare nell’iperspazio grazie alle Ignoranze Artificiali che porteranno l’umanità alla tecnicizzazione integrale dell’esistenza.
Se l’uomo contemporaneo è inadeguato al processo evolutivo, non si capisce come la sua contraffazione con più dati in memoria possa essere all’altezza di un tale compito. Qualità e quantità non sono sinonimi. L’equivoco serve solo a macinare più danaro nel mulino del padrone occultando le numerose componenti spirituali connaturate all’essere umano, e tuttora inesplorate, che attendono di essere perfezionate in un’immensa varietà di modi e in un numero pressoché infinito di forme ancora sconosciute.
Per incoraggiare il lettore a non mollare la presa, sperimentare e collaudare, Dante usa l’immagine del novizio che si alleggerisce strada facendo fino a sentirsi un ramoscello sospinto dalla corrente. Il messaggio è chiaro: sii deciso, integerrimo, vedrai che andando avanti ti sentirai leggero fino a stupirti di com’è possibile procedere senza fatica. “Ond’io: «Maestro, dì, qual cosa greve / levata s’è da me, che nulla quasi / per me fatica, andando, si riceve?»” (Pg XII 118-120).
Pause e lungaggini non sono un problema, fanno parte del gioco. A tratti rallenteranno la marcia ma in compenso offriranno la possibilità di fermarsi a guardare, osservare, riflettere, considerare l’impensabile. Persino Dante si concede una sosta contemplativa davanti allo zoccolo di una parete rocciosa istoriato di bassorilievi marmorei talmente perfetti che una mano umana non può averli eseguiti. In qualità di presunto committente dell’opera dio viene definito «fabbro»; più avanti Arnaldo Daniello verrà presentato da Guido Guinizzelli come il «miglior fabbro del parlar materno», ovvero un eccellente artigiano del linguaggio (Pg XXVI 117).

 

Com’è noto il lavoro spirituale non può prescindere da quello manuale, che ha il pregio di contenere le intemperanze della mente e chiarire le idee; ma perché la Commedia tira in ballo proprio il fabbro anziché il falegname, il sarto, il muratore o qualcos’altro?
Il poeta riutilizza il termine in Paradiso descrivendo il movimento e la virtù delle ruote celesti che procedono dalle Intelligenze angeliche, le quali «lavorano» con la stessa maestria con cui il fabbro maneggia il martello (Pd II 127-129). Risuona in questa terminologia l’eco metallico dei possenti Æsir, gli eroi solari con i quali Odino costruì un nuovo ordine mondiale, chiamati «fabbri di canti» per l’abilità con cui manipolavano i suoni contenuti nelle parole.
Presso civiltà e culture lontane le une dalle altre ma tutte di stampo tradizionale i «signori del fuoco» furono figure eminenti che occupavano nella società posizioni di rilievo in qualità di grandi sciamani e uomini-medicina, autorevoli sapienti e raffinati cantori (come Dante). Tracce del carattere sacrale dei fabbri sono state trovate un po’ dappertutto nel nostro passato remoto, come ha sottolineato Mircéa Eliade in Arti del metallo e alchimia.
Seguendo quelle orme il poeta forgia ulteriori analogie tra la figura del Fabbro e i tre gradini che deve oltrepassare per poter entrare in Purgatorio: il primo è di un marmo talmente candido che ci si può specchiare dentro; il secondo è di colore scuro ed è fatto di una pietra ruvida spaccata nella lunghezza e nella larghezza; il terzo è di porfido, ha il colore rosso vivo del sangue fresco appena sgorgato da una vena.
I significati dati dai commentatori classici alle suddette «tre prove» riguardano altrettanti momenti del sacramento della confessione: la contritio cordis (consapevolezza dei peccati), la confessio oris (la confessione vera e propria), la satisfactio operis (la soddisfazione per mezzo di opere). Ancora una volta non si può fare meno di condividere la tesi espressa in Sirio da De Santillana, secondo il quale gli studiosi degli ultimi secoli sono stati «malati di religione».
Basta scavare un po’ più indietro nel tempo per leggere nel runo IX del Kalevala che il ferro nasce da un latte rosso, uno bianco e uno nero, simboli del Sole che giornalmente si presenta rosso al suo sorgere, bianco allo zenit e nero di notte, oppure durante le eclissi. Da qui l’origine della concezione trinitaria di molte civiltà solari, dalla nordica all’egizia, fino alla giapponese, nonché dei «tre colori solari» dell’alchimia (rubedo, albedo, nigredo).
Lo sguardo del fabbro-sciamano è «magico», scrive Frazer nel Ramo d’oro, la sua sete di conoscenza è sconfinata e la misura del suo sacrificio viene messa in chiaro fin dai primi passi dell’iniziazione, quando simbolicamente il novizio si vede fare a pezzi ed è ricomposto con fili di ferro dai dèmoni che dominano l’Oltremondo. Tornare indietro, a quel punto è impossibile.

La crescita ha un alto prezzo e procede per gradi, o, nel caso del Purgatorio, per gradoni. L’uso della ragione fa la differenza in quanto si viene al mondo senza deciderlo ma non si completa il proprio sviluppo senza volerlo, cioè senza rinascere spiritualmente dopo essere nati una prima volta alla Vita. Bisogna desiderare con forza l’avanzamento di stato e concedere tempo al tempo, che a sua volta può essere ottimizzato dal rito.
Infatti nel monastero-montagna dantesco ogni momento è scandito da uffici liturgici precisi: si inizia nell’Antipurgatorio con il bagno di purificazione corroborato dal giunco “svèlto e rinato” (la sauna tradizionale, o battesimo), poi si viene avviati al percorso vero e proprio (la nuova vita) che prosegue fino al sopraggiungere della notte (la morte del precedente), finché stanchi morti si cede al sonno (l’entrata nell’Oltremondo).
Nonostante la liturgia nel secondo regno sia fondamentale, è significativo che Dante lo immagini privo di preti, sacerdoti, vescovi e papi in veste di officianti. Non mancano i personaggi famosi, “superbi cristian, miseri lassi”, messi in bella mostra dal Fabbro divino all’inizio del percorso di purificazione quali esempi da NON imitare, ma non c’è l’ombra di un ministro del culto.
Il concetto è squisitamente eretico, contenendo il denominatore comune di tutte le eresie medioevali: gli intermediari non servono per tornare alla casa del Padre; ma questo Dante lo ha già detto nell’Inferno definendo il papa “lo principe d’i novi Farisei”.
Il buon cristiano è colui che avanza di sua sponte producendo opere poco appariscenti, non pensa di cavarsela recitando rosari o accendendo candele, né si fa distrarre dalle sovrastrutture imposte dal Papato. “Non vo’ però, lettor, che tu ti smaghi / di buon proponimento per udire / come Dio vuol che ‘l debito si paghi. / Non attender la forma del martìre: / pensa la succession; pensa ch’al peggio, / oltre la gran sentenza non può ire” (Pg X 106-111). La ricerca del divino è dunque individuale e può essere fatta in assenza di religioni, chi tenta di convincere il prossimo che dio sia raggiungibile attraverso rituali astrusi in grado di abbreviare i tempi non è altro che un malintenzionato armato di secondi fini.
Scherziamo, fu l’obiezione delle istituzioni ecclesiastiche medioevali, gli uomini vorrebbero rivolgersi direttamente a dio? Allora sia chiaro che ciò che non esce dalla bocca dei sacerdoti viene fuori da quella del demonio, il Nemico Assoluto. Il semplice fatto che millenni di guerre combattute sotto la bandiera del Bello e del Buono non abbiano prodotto i risultati sperati dovrebbe suscitare almeno un leggero sospetto. Invece, no.

 

Ai censori medioevali che bruciavano vivi quanti esercitando il libero arbitrio pensavano altrimenti Dante non risponde per le rime, non può, sforna però un Pater Noster assai eloquente, che, non a caso, fa recitare ai superbi all’inizio del canto XI: venga per noi la pace del tuo regno poiché in assenza di essa non potremo salire con le nostre sole forze, neanche se ci impegnassimo al massimo. “Vegna ver’ noi la pace del tuo regno, / ché noi ad essa non potem da noi, / s’ella non vien, con tutto nostro ingegno” (Pg XI 7-9).
Nessun cenno a preti, sacerdoti o figure similari. Al di là comunque della polemica politica e di qualsiasi riferimento evangelico, ogni parola del Pater Noster dantesco va intesa in primo luogo come un invito all’umiltà. Testa bassa e lavorare. Bisogna sacrificare a dio i propri desideri, come fanno gli angeli, perdonare le offese subìte e andare avanti. E’ inutile perdere tempo a rincorrere il successo, la fama e la gloria, anche quelli che oggi vengono celebrati come autorità indiscusse sono destinati ad essere seppelliti da altri che faranno dimenticare il loro nome.
Vero è che lo stesso Dante appartiene alla schiera degli aspiranti famosi, si tratta però dell’eccezione che conferma la regola. Lui è stato autorizzato dal Cielo a scrivere ciò che scrive, si dichiara infatti l’autore «ispirato» ed umile artigiano della penna che ha messo la sua maestria poetica al servizio del divino impegnandosi in un’altissima missione. Sebbene in qualità di «tramite» speri di possedere i requisiti per entrare nella schiera dei “buoni spiriti” che non agiscono per ambizione ma ricercano l’onore e la fama per amore di dio (Pd VI 114).
D’altra parte se l’Amore (per il divino) non lo avesse posseduto, lascia intendere al lettore, non si sarebbe avventurato lungo un percorso mai battuto in precedenza. Forse intende dire che nessuno ha offerto dell’Aldilà un quadro di uguale perfezione stilistica, perché, in realtà, lui non è il primo a «mettere le ali» e volare. Già Arjuna diceva «gioisco vendendo ciò che mai è stato visto prima» (Bhagavad Gītā XI-45), e dopo il mitico eroe ce ne sono stati molti altri.
A parte le medaglie e i primati, va comunque riconosciuta a Dante la lucida consapevolezza dei limiti connessi alla terrestrità. Non solo il Fiorentino non si dà arie da superuomo, ma, come avrà modo di ribadire in Paradiso, ammette la propria incapacità di descrivere l’altezza delle cose vedute e l’inadeguatezza della poesia e degli strumenti retorici una volta superata la soglia dell’umano.

 

Il lavoro manuale e fisico tanto apprezzato dal poeta non è mai stato nelle grazie della Chiesa cattolica, più propensa ad esaltare gli effetti benefici della contemplazione e della penitenza. Mentre dottrine più radicate nella Tradizione e meno interessate all’edificazione di costose cattedrali e monumenti sontuosi, come ad esempio la «Chiesa d’Amor» catara, costruivano scuole per diffondere la cultura e aprivano laboratori artigianali in cui insegnare le arti e i mestieri.
Ovviamente i beni di queste genti circolavano sul mercato economico al pari di tutti gli altri, tuttavia i guadagni non erano mai accumulati o congelati in proprietà fondiarie. All’interno della comunità non c’erano grandi possidenti né servi della gleba bensì un ceto medio allargato dove le donne erano tenute in grande considerazione, soprattutto dai Fedeli d’Amore (fortemente anticlericali), cioè dai poeti del Dolce Stil Novo.
Fin dai tempi di Ireneo di Lione (II secolo) la Chiesa vide nella varietà dottrinale che caratterizzava i movimenti gnostici una pericolosa frammentazione (la mentalità unipolare odia quella multipolare, c’è poco da fare), il suo accanimento contro i benestanti Catari fece sorgere così il sospetto che nelle sedi inquisitoriali i domenicani (Domini canes, cioè i cani del Signore) fossero più assetati dei soldi dei presunti eretici che del loro sangue. Scrive Michel Roquebert nel saggio I Catari: “L’Inquisizione fu la prima manifestazione storica di un sistema di controllo ideologico assoluto su un’intera popolazione, per mezzo di inchieste, delazione istituzionalizzata, interrogatori e creazione di schedari di informazioni.
Da buon cristiano Dante prende le distanze da simili derive religiose, politiche, sociali, morali, dichiarandosi convinto che la salvezza individuale sia sempre possibile, persino nei tempi più bui, e vada perseguita con metodo e costanza attraverso la modestia, la frugalità, il lavoro e la preghiera. Ora et labora.
Virgilio concorda: vai avanti così, non rallentare il cammino, ignora i bisbigli della gente. Sii granitico come una torre a prescindere dai venti che ti colpiscono. “Perché l’animo tuo tanto s’impiglia”, / disse ‘l maestro, “che l’andare allenti? / che ti fa ciò che quivi si pispiglia? / Vien dietro a me, e lascia dir le genti: / sta come torre ferma, / che non crolla già mai la cima per soffiar di venti; / ché sempre l’omo in cui pensier rampolla / sovra pensier, da sé dilunga il segno, / perché la foga l’un de l’altro insolla” (Pg V 10-18).

 

Le ripetute esortazioni a «badare a sé», ovvero alla propria anima, non devono comunque essere fraintese, o, peggio, confuse con l’individualismo moderno, che invece è una grave patologia. Nonostante in Purgatorio ognuno stia seguendo il proprio cammino la colonna portante del secondo regno è il senso di comunità, neppure i superbi con il macigno sulle spalle pregano solo per se stessi bensì per chiunque sulla Terra stia camminando sulla strada sbagliata.
Non è chiaro a chi si riferisca Dante con questa sottolineatura, se ai vivi in generale o ai cattolici in particolare. In ogni caso la conclusione del XII canto che introduce alla seconda Cornice è un invito agli uomini, detti «figliuoli d’Eva», a procedere per la propria strada anche a costo di allontanarsi dal gregge. Ognuno decida da quale parte vuole andare e stare, dice anticipando un’esposizione più esaustiva del tema che gli sta a cuore, l’esercizio del libero arbitrio, o “libero voler” (Pg XVI 76).
Virgilio ne discute a lungo; capaci però di spiegare cos’è l’amore le sue parole sollevano ulteriori dubbi. Purtroppo l’Anima terrena è debole e spesso sbaglia credendo di fare la volontà di dio, osserva Dante. Il Maestro conosce la difficoltà di comprendere fino a che punto un’azione sia «giusta», e, in anticipo di qualche secolo sul concetto di realtà (o rappresentazione mentale delle cose) introdotto da Descartes, conferma che in effetti, sì, di ogni oggetto materiale l’essere umano si fa una certa immagine mentale, appassionandosi ad essa fino a credere autentica la sua invenzione (Pg XVIII 22-33). Tuttavia, sopra di lui ci sono leggi eterne e superiori.
In tutte le creature esiste una tendenza innata al bene simile a quella che spinge l’ape a fare il miele, il che non è motivo di lode o di biasimo (vv. 57-60). Funziona così, punto e basta. Affinché il processo non venga disturbato da interferenze di bassa natura all’uomo è stata data la facoltà di deliberare, ovvero di dare o negare il proprio assenso orientando le proprie decisioni. Da qui gli atti buoni o cattivi, e, ovviamente, il merito.

 

Il concetto di libero arbitrio è centrale sia nello zoroastrismo che del cristianesimo, con la differenza che quest’ultimo ritiene tale esercizio di esclusiva pertinenza della ragione umana mentre gli Zoroastriani (come i Catari) puntualizzano che, comunque, dietro ad ogni scelta c’è la mano delle entità spirituali. Ne consegue che la responsabilità dell’esistenza del Male e delle azioni malvage ricade solo parzialmente sotto la responsabilità dell’uomo, la qual cosa non significa tuttavia che essa dipenda da dio, il quale, com’è noto, ha creato solo le cose immateriali. La colpa del Male è imputabile al mondo materiale, cioè al Tempo e alla Storia che si muovono in continuazione.
Come sempre Dante sta dalla parte di Dante. Non si schiera apertamente ma è chiaro quanto conti per lui la ragione umana, basti vedere l’ostinazione con cui affronta la risalita dei balzi del Sacro Monte del Purgatorio, che in buona sostanza è una scala di ordine spirituale dove ogni passo è compiuto con intenzione per “aver salute e acquistar virtute”. Vanno in questa direzione anche i frequenti solleciti di Virgilio (“Sbrigati, dai, è tardi!”). Ragionando sopra le cose, insomma, si ottengono dei buoni margini d’azione per conquistare la libertà.
Più avanti, in Paradiso, il tiro viene però rettificato. Un Dante più maturo medita davanti alla “candida rosa” mentre Bernardo di Chiaravalle, terza ed ultima guida del suo viaggio oltremondano, spiega come dio conceda la Grazia alle persone in misura diversa fin da quando sono ancora nel ventre materno, ponendo così ogni nascituro a livelli differenti di comprensione ed evoluzione.
Ogni anima ha la sua personale linea di partenza e il suo esclusivo punto di arrivo. “Dunque, sanza mercé di lor costume, / locati son per gradi differenti, / sol differendo nel primiero acume” (Pd XXXII 73-75). Ne consegue che «colpa» e «disgrazia» sono fattori divergenti. Non dunque per meriti particolari ma in virtù della Grazia divina i bambini morti senza battesimo sono esclusi dalla salvezza e rimangono nel Limbo mentre i coetanei più fortunati vengono innalzati fino alla Candida Rosa.

 

Sempre presente nel poema, riemerge il concetto euroasiatico di «destino»: il deus otiosus et omnipotens rappresentato come albero del mondo, axis mundi et universalis columna, cui persino gli dèi devono sottostare. Proprio ritenendolo inesorabile Dante teme che la sua anima finisca dopo la morte nella cornice degli invidiosi, o forse in quella dei superbi, nonostante l’impegno profuso. Non tanto per colpa sua quanto più per la disgrazia di avere ereditato certi geni dal bisavolo Alighiero I (colui che diede il nome al casato), il quale sta infatti espiando da oltre un secolo il suo peccato tra i superbi (Pd XV 91-93).
Il dio che permette alle colpe di uno di ricadere sull’altro è dunque «ingiusto»? Sarebbe puerile prendersela con l’Altissimo sapendo che ciascuno è sottoposto alla legge universale del karma, ovvero alla “etterna legge”, “causa” ed “effetto” (Pd XXXII 55-59-66) affinché la sua Anima possa purificarsi di vita in vita liberandosi definitivamente in Spirito. Il percorso non è deciso da dio bensì dall’Anima, che posiziona se stessa a un livello differente in rapporto al merito suo personale e delle vibrazioni sottili altrui che l’hanno preceduta nel ciclo delle reincarnazioni.
La lunga dissertazione di Bernardo di Chiaravalle ha lo scopo di spiegare come mai in ogni essere umano, a cominciare dai bambini, siano visibili gli «effetti» delle vite precedenti. Dio non c’entra, conferma il venerando maestro, il Padreterno non fa certo discriminazioni tra esseri con i capelli rossi o i capelli neri. Ogni responsabilità è riconducibile alle circonvoluzioni dell’Anima e alle scelte dettate dalla ragione umana, un organo ampiamente sopravvalutato e spesso incapace di distinguere la via del bene, per questo motivo in taluni casi deve intervenire la Grazia del Signore.
Le parole di san Bernardo confortano e spiazzano allo stesso tempo. E’ impegnativo sapere che non si sta «lavorando» unicamente per se stessi ma anche per chi potrebbe nascere in futuro, e se qualcuno giudica superflua una tale «ansia da prestazione» è solo perché le follie degli ultimi decenni hanno confuso, quando non addirittura commercializzato, il concetto di «spiritualità».
Si dà il caso tuttavia che ripuliti dagli umori del momento e dalle mode transitorie gli esseri umani siano gli stessi da migliaia di anni, ecco perché il gradino superiore può attendere. Siamo «scintille» in movimento tra il mondo e il suo involucro celeste, esempi tangibili della costante trasformazione di un «campo» d’intelligenza universale in grado di far scaturire ogni forma visibile. Finché non riconosceremo pienamente quella luce come unica e vera essenza, il salto di qualità sarà impossibile.

Ricercatrice indipendente, scrittrice e saggista, Rita Remagnino proviene da una formazione di indirizzo politico-internazionale e si dedica da tempo agli studi storici e tradizionali. Ha scritto per cataloghi d’arte contemporanea e curato la pubblicazione di varie antologie poetiche tra cui “Velari” (ed. Con-Tatto), “Rane”, “Meridiana”, “L’uomo il pesce e l’elefante” (ed. Quaderni di Correnti). E’ stata fondatrice e redattrice della rivista “Correnti”. Ha pubblicato la raccolta di fiabe e leggende “Avventure impossibili di spiriti e spiritelli della natura” e il testo multimediale “Circolazione” (ed. Quaderni di Correnti), la graphic novel “Visionaria” (eBook version), il saggio “Cronache della Peste Nera” (ed. Caffè Filosofico Crema), lo studio “Un laboratorio per la città” (ed. CremAscolta), la raccolta di haiku “Il taccuino del viandante” (tiratura numerata indipendente), il romanzo “Il viaggio di Emma” (ed. Sefer Books). Ha vinto il Premio Divoc 2023 con il saggio “Il suicidio dell’Europa” (ed. Audax Editrice). Attualmente è impegnata in ricerche di antropogeografia della preistoria e scienza della civiltà.

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