12 Aprile 2024
Punte di Freccia

Onde grandi… e alte, lunghe – Mario Michele Merlino

Frammento risalente al 1811: ‘Come quando la luna nuova o piena – Le onde grandi e infrangibili sospinge – Dell’immenso Pacifico. – E alte, lunghe’. E scritto vent’anni dopo, ormai famosa, La ballata del vecchio marinaio del poeta inglese Samuel Taylor Coleridge. Di questa ballata s’è scritto e detto tanto e in modo disparato. A me piace pensare a chi, accostandola a Dante, vi ha inteso una grande metafora dell’esistenza del poeta in viaggio tra la colpa e la redenzione. Fuori dalla specificità dei successivi temi cristiani, divenuti cari all’autore, qui l’errare, che non equivale necessariamente all’errore, ma scoprire del vivere l’assenza di meta alcuna, di ogni finalità e di senso. Ancora: il marinaio rappresenta, anticipando la stagione del simbolismo, l’artista che, tramite la potenza dell’immaginazione, con le maestose ali della poesia avverte il disagio di percorrere e condividere la terra degli uomini. Il richiamo a Baudelaire è d’obbligo. La figura dell’albatros, appunto. L’uno ucciso dallo stesso marinaio; l’altro percosso e deriso nel mentre finisce sulla tolda della nave. ‘Le onde grandi… E alte, lunghe’.

Dietro la prima fila di libri con poca accortezza e poco spazio ho ritrovato un libricino risalente alla metà degli anni Ottanta con le poesie e frammenti di Coleridge e mi è venuto a mente come, di recente, ho esaltato il gusto del camminare e per sentieri e boschi e quel salire su pietre scivolose di fango e rocce aspre e asciutte e il ritrovarsi ciuffi d’erba solitari e spavaldi e in cerca di un luogo ogni volta più in alto dopo aver misurato le proprie forze. (Ignari o a sfida di Sisifo e della sua inutile fatica). Di più: sprezzante, il mare m’è venuto a noia… E mi assale un sottile rimorso, certo poca cosa (ricordi tanti, rimpianti forse, rimorsi pochi), per quel mare, l’Adriatico in primo luogo, che fu il fondale ove ho recitato l’infanzia prima e, poi, l’adolescenza e parte della giovinezza. E, oggi, prossimo a ripetere quanto ebbe a dire Augusto Imperatore a Nola. Là dove, sulla spiaggia sabbiosa, ‘Le onde grandi… E alte, lunghe’’.

Per cominciare un ricordo trasmessomi, parte ormai opaca della mia famiglia. Lungo viale Maria Ceccarini, scendendo verso il mare, dopo aspri combattimenti – e altri più aspri seguiranno per entrare a Rimini, prima dell’inverno del ’44 –, colonne di autoveicoli alleati e folla plaudente. Sulla via Emilia un piccolo cimitero di soldati greci ricorda come un mondo intero si abbattesse contro l’estrema difesa tedesca e dei reparti esigui e generosi della Repubblica Sociale. Sulla strada verso San Marino un altro cimitero è riservato ad oltre un centinaio di Gurka, truppe scelte e feroci, al servizio dell’Inghilterra e del suo ormai in fase di dissolvimento Impero. Mi confidava Ugo Franzolin, che fu corrispondente di guerra della X MAS, giornalista e scrittore, amico garbato e sereno, seduti ad un tavolino nei pressi di Fontana di Trevi: ‘Crede veramente, professore, che pensassimo di poter fermare con il nostro anacronistico modello ’91 l’avanzata della V e dell’VIII Armate? E’ che percepivamo, certo ancora in modo confuso, come dietro la potenza dell’acciaio si facesse avanti un’altra forza che avrebbe spazzato via la civiltà secolare dell’Europa che conoscevamo e a cui ci sentivamo di appartenere’. Ciò che è avvenuto. La guerra del sangue contro l’oro… E arrivano gli alleati, profumano di vittoria annunciata, sorrisi a trentadue denti, odore di maschi in calore sicuri della preda, sono robusti tronfi ben nutriti non costa nulla gettare dall’alto dei mezzi corazzati sigarette cibo in scatola cioccolata – come si fa al giardino zoologico con gli animali in gabbia, come facevamo la domenica mattina quando ci portava nostro padre… E viale Maria Ceccarini è piena di bestie affamate e festanti! Le giovani donne, le più graziose e provocanti, finiranno al Grande Hotel sul lungomare o al Cavallino bianco, nei pressi del porto, a ballare e farsi cavalcare nel letto degli ufficiali inglesi e americani; le altre, le più magre e sgraziate, ottime per la truppa. Carne per negri, le deridono le compagne…

Davanti ad una villetta con il tetto modello chalet e ornamenti stile liberty sostano due bimbette di sei e quattro anni, emaciate dalla fame e dalla quotidiana paura, e guardano. Il cancello fuso da tempo per dare ferro alla Patria, inutili ormai l’uno e l’altra… Ed un soldato, uno qualunque, getta loro una tavoletta di cioccolata. Tanto appaiono simili a due scimmiette, benevolo a due scoiattoli nei boschi maestosi in Canada. La più grande la raccoglie non sa cosa sia ma tutto è cibo la scarta ne morde un pezzo sente il gusto dolce riempirgli la bocca… all’improvviso secco duro spietato lo schiaffo della mamma con il fratellino di pochi mesi in braccio che le fa cadere a terra quel quadrato di gioia inaspettata e sconosciuta. Mia madre, italoamericana, nata a New York, che ha scelto la parte italiana e per sempre. Si deve stare con essa; troppo facile farne a meno quando la sorte si fa avversa (nel dialogo, il primo vero di Platone, il Critone Socrate rigetta e confuta l’invito a fuggire dalla cella, in attesa di bere la cicuta, con motivi analoghi). Fascisti si nasce, non si diventa. ‘Le onde grandi… E alte, lunghe’.

Fu questo il primo ‘incontro’ con il mare, quella donna ostinata, dall’aspetto gentile nei modi nel parlare nello sguardo ma intimamente dura lupa a difesa dei cuccioli e quella casa, eredità di uno zio di mio padre, inizio del ‘900, con il giardino ricoperto con la ghiaia e il nespolo fiorito e il pino selvatico con il grande ramo troncato da un fulmine e i cespugli di bambù ad evocare esotiche avventure. E il mare dall’azzurro tenue al verde cupo la linea dell’orizzonte confusa con il cielo, toccarlo con un dito e scoprirne il sapore salato e il gusto di aprirsi il passo con ampie bracciate andando là dove non si tocca. S’imparava quasi prima a nuotare e andare in bicicletta. Scavare la sabbia e costruire castelli – prima di quelli più arditi con gli occhi il cuore la mente di cui la vita mi ha dato doni fallaci e di cui vado fiero – e piste per far correre biglie di vetro colorato. Soldatini di gesso e secchielli e palette e formine. Raro il pallone di cui poco ho avuto amore. Poi, crescendo, le donne a cui ho dato e da cui ho ricevuto tanto amore. Fin da adolescente il primo bacio a labbra strette. ‘Le onde grandi… E alte, lunghe’.

Conosco Adriano C., del luogo, cameriere allo Zanarini, il caffè più in, sicuro del suo fascino, squattrinato e un po’ permaloso. Vale la pena ricordarne come. Entrambi siamo attirati dalla medesima freulein, Erika, alta curvilinea scura di capelli occhi di un verde intenso e ridente proveniente da Braunschweig. Io già mi arrangio con il tedesco e sono in vacanza con tutto il tempo a disposizione; Adriano deve ritagliarsi qualche momento di pausa e un inglese smozzicato e confuso. Mi racconterà, dopo, che incazzato mi aveva inseguito per prendermi a pugni ma io me n’ero già andato in bicicletta. Primo pomeriggio, Adriano sfoggia la Lacoste nera ed io, arrivato, gli regalo un sorriso ipocrita e provocatorio (un vizio attribuitomi, negli anni della contestazione e dintorni, tra piazza Fontana gli anni di detenzione poi a seguire…). ‘Che fai? – gli chiedo – Con quel nero mi sembri uno squadrista a riposo dopo la Marcia su Roma?’. Acido e in cagnesco, una molla pronta a scattare: ‘Che hai da ridire sul colore della mia maglietta?’. ‘Proprio nulla. Io sono fascista’. In terra di Romagna è un invito alla rissa. ‘Anche io’. E così, con Erika stupita e messa da parte, ci mettiamo a discorrere del Duce di andare con altri alla sua tomba a Predappio di camerati romagnoli e quanto ci lega idealmente. Poi di comune accordo, sorta di turn over, decidiamo tempi e modalità per condividere il suo cuore generoso – e generoso non solo quello… ‘Le onde grandi… E alte, lunghe’.

Quante storie, personali e non, potrei estrarre dal cilindro della memoria, di questo mare che Gabriele D’Annunzio chiamò ‘amarissimo’ in ricordo della ignobile disfatta di Lissa del 1866 e che, per mio conto, lo diviene perché amara è la giovinezza se la confrontiamo con il tempo che troppo in fretta se n’è andato via. No. Ad altre acque, altri mari volge questa ‘perdonanza’, queste righe per farmi assolvere… Da Brindisi, in tarda serata, il traghetto lascia il molo in direzione della Grecia. Aprile 1968, primo anniversario del colpo di stato dei colonnelli ad Atene. Ci siamo imbarcati, i pullman con noi, studenti greci che rientrano per le feste di Pasqua e noi, giovani camerati, a sognare campi militari addestramento armi in pugno, oggi ad Atene domani in Italia, e altre baggianate di moda in quegli anni. Ci sparpagliamo sul battello in cerca di un posto sul ponte per la notte. Finisco nel punto più alto, su una panchina di legno, il buio mi avvolge misteriosa coperta – solo la scia della nave getta una lama di luce -, chiacchierando e fumando tabacco e un po’ di erba con una americana bruttina, al solito sfigato. A scoprire come i militari – altro che il socialismo prussiano! – è bene che se ne rimangano in caserma con la loro idea di ordine e disciplina, ramazza, cessi a specchio, flessioni e giri di cortile sotto il sole, altra la realizzazione di Sé, la kalòs-kai –agathia, cara a Platone e a una visione gerarchica dell’esistenza, sono chimere prede della modernità. E, tra una ideuzza rivoluzionaria affissione manifesti qualche mazzata presa e ricambiata, sempre con un traghetto, attraverso lo Skagerrak. Con tanti altri giovani di tante parti d’Europa e non. Tutti con lo zaino in spalla il sacco a pelo arrotolato capelli lunghi e camicie a scacchi. Modello Vagabondi del Dharma di Kerouac. Vado a settentrione – sono gli anni in cui il mito di Odino le rune magiche l’ascia bipenne fino alla Berlino accerchiata, macerie e fiamme, il bunker preme e si impone nella mente e nel cuore -, risalire lungo la costa frastagliata, i fiordi, fino a Capo Nord. Non ci arrivo; mi perdo nel percorso, in un pugno di case, un capanno della pesca. In fondo non sono mai riuscito ad essere un viaggiatore; un viandante. E potrei scrivere del Mar Nero, della Romania alla ricerca dell’ombra del Capitano… ‘Le onde grandi… E alte, lunghe’.

Dall’Antologia di Spoon River del poeta americano E. L. Masters: ‘Dare un senso alla vita può condurre a follia – Ma una vita senza senso è la tortura dell’inquietudine e del vano desiderio – E una barca che anela al mare eppure lo teme’. Insieme ad Itaca c’è una fra le prime canzoni di Lucio Dalla ove un padre si rivolge al figlio e lo esorta a navigare e non rimanere prigioniero della piccola barca nel porto. O qualcosa di simile. Quel ‘genius loci’ della città di Genova che Nietzsche identificava in Cristoforo Colombo. E, in altro contesto e più alto livello, gli studi del giurista Carl Schmitt sul rapporto-scontro terra e mare (ne ho scritto in più occasioni). Ma, qui, si ferma, una sosta forse, il rammemorare il mare e anteporlo, nel tempo, alla montagna. Così ben vengano, a ritmare il mondo delle immagini, i versi di Coleridge: ‘Le onde grandi… E alte, lunghe’.

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