11 Aprile 2024
Natale di Roma Tradizione Romana

Non preghi un Dio chi non sia un Dio! – Andrea Anselmo

Considerazioni al termine delle celebrazioni per il Natale di Roma del 21 Aprile 2018.

La vicenda leggendaria del primo Re di Roma, Romolo, nella quale si condensano miti e ascendenze dal comune passato indoeuropeo ci danno l’occasione per una serie di riflessioni sui significati della regalità, della ritualità e dell’interiorità di chi occupa il potere sovrano.

Il termine Rex romano, come vorrebbe Benveniste, deriverebbe da un comune termine indoeuropeo (Rig, da cui Vercingetorix, Raja sanscrito, Rex latino) il quale farebbe riferimento alla funzione primordiale del sovrano di tracciare una linea retta, stabilendo così un confine sacro, un limite ed una regola. Stabilirebbe in altre parole un ordine sacro; ordine il quale, in sanscrito rtasi, si collega semanticamente anche al rito.

Ma cos’è dunque il rito? Per Mircea Eliade il rito è un nuovo inizio che invera nuovamente l’origine nella storia, permettendo dunque quell’irruzione del sacro di cui parla anche Giandomenico Casalino. L’origine corrisponde cosmologicamente ad un sacrificio primordiale, ad una messa a morte, che non crea ex nihilo ma che plasma una realtà preesistente. Lo squartamento del macrantropo primordiale, Ymir per i norreni, Purusha per gli inni vedici, è la scaturigine del cosmo ordinato. Così nel mondo latino al tracciare il solco da parte del Rex/Rig Romolo corrisponde successivamente l’uccisione di Remo, il quale non è in grado di mettere ordine e sacralità al contrario del fratello.

La sovranità del mondo indoeuropeo conosce delle coppie di sovrani, simbolicamente rappresentabili come il cielo notturno ed il cielo diurno. Quest’ultimo e quello che richiama il termine latino Deus, sanscrito Deva, greco Zeus, alto germanico Tiuz/Ziu/Tiwaz poi espresso come Tyr dagli scandinavi, Mitra per gli indoiranici. D’altro canto di non meno importanza e cosmologicamente anteriore si staglia il cielo notturno di Varuna, di Urano e di Wuotanaz. Nella storia leggendaria di Roma a Romolo spetta la funzione “varunica” mentre a Numa quella propriamente diurna, sacra e legislativa di Numa.

Sempre per Benveniste il germanico Wuotanaz e il latino Dominus sarebbero strettamente accomunati. Il primo indicherebbe il signore della schiera dei posseduti (angriffenheit) dal furore (id est furor lo definì Adamo da Brema) che solca i cieli notturni d’inverno nella caccia selvaggia. Il secondo sarebbe il signore della Domus, non intesa come edificio ma come comunità sacra e sociale al tempo stesso.

Romolo, conformemente alla sua funzione varunica, durante la battaglia cruciale contro i potenti riproduttori, i sabini, conseguente al tradimento della vestale Tarpeia, alzate le armi al cielo comanda magicamente a Iuppiter di intervenire e di cambiare le sorti della battaglia e così accade. Come giustamente ricordato pubblicamente da Luca Valentini e Giandomenico Casalino nelle recenti celebrazioni del Natale di Roma, l’intervento “magico” del sovrano ricorda il termine tedesco macht e inglese make. Un altro sovrano del cielo notturno, Wotanaz nella prima guerra del mondo contro i Vani, potenti riproduttori anch’essi, esercita il suo potere a distanza, tramite il lancio della lancia nella battaglia susseguente l’irruzione della gigantesca Gullveigr, senza intervenire direttamente nella mischia. Se la Vestale è chiaramente legata al fuoco di Vesta così Gullveig viene bruciata tre volte rinascendo sempre.

Così l’effetto immediato, comandato dal sovrano “terrifico” e “tremendo” Romolo, è determinato dal suo non appartenere ad una umanità ordinaria, ma piuttosto ad una umanità qualificata in senso spirituale. “Non preghi un dio chi non sia un dio” d’altro canto è stabilito dalla letteratura vedica. Romolo che verrà poi divinizzato come Quirino viene non a caso assunto in cielo.

In questo senso Giandomenico Casalino nell’ultimo numero della rivista Pietas parla della “forza necessitante del rito ben eseguito, il suo potere di rendere la realtà visibile specchio dell’ordine divino. L’inesistenza di problemi di natura psichica e/o sentimentale in chi compie il rito ai fini dell’efficacia”. D’altro canto è ben noto il detto di Plotino “Non sono io che devo andare agli Dèi ma gli Dèi che devono venire a me”.

Solo calore interiore della pratica spirituale, il tapas conseguente alla trasformazione interiore dell’uomo propiziata dal fuoco sacrificale di Agni/Ignis rendono l’uomo in grado di imporre questa “macht” sulle forze invisibili. D’altro canto dal latino tepeo, la cui assonanza con taps è evidente, deriva l’italiano tepore.

Non a caso, la mistica cristiana di Meister Eckhart parla del distacco come superiore alla pietà e alla compassione: poiché il distacco operando nell’interiorità dell’uomo quello svuotamento, quel silenzio che fa risuonare il vero urgrund, il fondo dell’uomo, agisce necessariamente attirando Dio nell’interiorità dell’uomo, poiché il distacco e il vuoto interiore sono necessitanti come in un processo fisico. Raggiunto il supremo distacco Dio non può non riempire tale vuoto interiore.  Dunque resta imperativo rendersi atti a far intervenire necessariamente la divinità tramite la nostra azione spirituale interiore la quale può rendersi autonoma rispetto a qualsiasi sfoggio di erudizione, di mitologia e di formalistica rituale.

Andrea Anselmo

(http://polemos.info/)

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