13 Maggio 2024
Letteratura

Narrativa fantastica, una rilettura politica, terza parte – Fabio Calabrese

Prima di procedere oltre nella nostra disamina allo scopo di stabilire se, e in che misura, la narrativa fantastica sia suscettibile di una lettura politica, e di che tipo, sarà bene riepilogare brevemente alcuni concetti emersi nelle due parti precedenti. In esse, mi sono concentrato soprattutto sulla heroic fantasy (o “fantasia eroica” in italiano, che però suona meno preciso e specifico per indicare un determinato genere letterario, sebbene io pensi che gli anglicismi siano da evitare per quanto possibile). In esse, abbiamo visto che spesso nelle opere di narrativa fantastica emerge una visione del mondo, spesso a dispetto delle intenzioni coscienti e dichiarate degli autori, perché questo genere di letteratura comporta un distanziamento dal quotidiano che quasi inevitabilmente si traduce in una critica verso di esso.

Abbiamo visto che la fantasia eroica, ben lungi dall’essere semplice “evasione”, in definitiva ci dipinge le condizioni di vita normali per la nostra specie, dove le relazioni umane sono fatte di lealtà fino al sacrificio o di odio mortale, dove i conflitti si regolano a fil di spada, la vita è a stretto contatto con la natura, le relazioni fra gli uomini non sono regolate da una onnipervasiva e opprimente burocrazia. Implicitamente, quella che vi possiamo cogliere, è una reazione contro quel fenomeno che il grande naturalista Konrad Lorenz (forse l’ultimo grande scienziato della nostra epoca) ha definito l’auto-addomesticamento attuale della nostra specie.

In ultima analisi, essa dà sostanza concreta, almeno sul piano dell’immaginazione, a quella Rivolta contro il mondo moderno di cui ci ha parlato Julius Evola, e non a caso, nelle sue pagine riemerge di continuo il riferimento a una dimensione magica e sacrale, assieme al richiamo ad antichi miti e simbolismi che in definitiva definiscono e delimitano la nostra cultura da ciò che le è estraneo (ci si riferisca ai poemi omerici, all’Edda nordica, al mito arturiano o al Santo Graal).

L’occasione per stilare il primo di questi due scritti mi è stata data dalla pubblicazione sulle pagine di “Ereticamente” dell’articolo Le meraviglie dell’impossibile di Riccardo Rosati che è in sostanza una recensione del libro di Riccardo Gallesi dallo stesso titolo, e ulteriormente sottotitolato Fantascienza: miti e simboli, che a sua volta è una ricostruzione del lavoro svolto nel campo del fantastico nell’arco di mezzo secolo di sodalizio e di attività da Gianfranco De Turris e Sebastiano Fusco, due critici che nell’analisi della letteratura dell’immaginazione hanno svolto un’imponente mole di lavoro contrapponendo un’interpretazione “nostra” di questi fenomeni culturali a quella “di sinistra” e “progressista” che disgraziatamente va per la maggiore e non soltanto in Italia. Essendo io contemporaneamente un autore del fantastico e un intellettuale (mi posso definire così?) dell’ “Area”, sarebbe stato davvero strano che non avessi da allegare esperienze e opinioni al riguardo.

L’occasione per redigere la seconda parte, invece, è stata rappresentata dalla manifestazione “Magmatica, il network mediterraneo delle idee”, tenutasi a Linguaglossa (Catania) dal 28 al 30 luglio 2016 a cui ho partecipato come relatore, proprio in rappresentanza di “Ereticamente”, ed è in sostanza il testo della conferenza da me tenuta.

Tuttavia al di là di queste circostanze, questa “rilettura politica” viene incontro a un’esigenza che sentivo da tempo. Nell’arco ormai di decenni, mi sono trovato a vivere, per così dire, due “vite intellettuali” separate: da un lato quella di militante e “pensatore” (perdonatemi la presunzione del termine) dell’Area, dall’altro quella di autore di fantascienza e di fantasy, e la necessità di trovare un raccordo fra le due cose.

Per dirla tutta fuori dai denti, in Italia la produzione narrativa fantastica di autore nazionale è un genere emarginato e ghettizzato, schiacciato dalla produzione anglosassone più di quanto non avvenga altrove (in Francia o in Germania, ad esempio) e se già ci si rivolge a un pubblico “di nicchia”, è meglio non crearsi ulteriori emarginazioni sbandierando una concezione politica in maniera troppo esplicita. Questo non significa però che un lettore avvertito non potrebbe cogliere il senso reale di un discorso se gli fossero fornite le giuste chiavi di lettura, precisamente quelle che, vivendo sotto l’opprimente tallone “democratico” e sinistrorso, non ci è consentito dare.

Vi faccio un esempio. Nella mia antologia Il risveglio della spada (Edizioni Scudo, Bologna 2012) c’è un racconto, Le lacere bandiere, il più lungo dell’antologia, il cui protagonista è un leader di un manipolo di guerrieri che si batte contro un potere che ormai sembra giunto a una dimensione planetaria e irresistibile. Il titolo del racconto deriva dal fatto che nella sua insegna costui ha via via aggiunto i vessilli dei regni sotto i quali ha servito contro il nemico senza mai ammainarli, senza mai considerare la sconfitta definitiva, e alla fine – contro ogni previsione ragionevole – riesce a ribaltare la situazione, sconfiggendo quello che sembrava invincibile.

Vi è chiaro il senso della metafora? Se non lo è, vi dirò che scrissi questo racconto diversi anni fa, quando stavo per presentarmi in tribunale per rispondere con altri camerati delle imputazioni di blocco stradale, manifestazione non autorizzata e apologia del fascismo, come auspicio per me e per tutti noi.

Premesso tutto questo, c’è una domanda alla quale ora cercherò di dare una risposta: in che misura questo discorso, indubbiamente valido per la fantasia eroica si può estendere alla fantascienza e all’horror?

Per quanto riguarda la fantascienza, è subito chiaro che ci muoviamo su di un terreno scivoloso. Il genere stesso, potremmo dire, si basa su di un’ideologia progressista, su di un’idea di sviluppo illimitato, di “magnifiche sorti, e progressive” (quanti si ricordano che Giacomo Leopardi menzionò questa celebre frase in senso fortemente ironico?). La concezione progressista, se ci pensiamo, è proprio il trait d’union che collega la visione del mondo liberal-capitalista a quella marxista, eppure – a guardar bene – si tratta semplicemente di un assurdo. Come sarebbe possibile uno sviluppo illimitato in un ambiente con spazio e risorse limitate come è in definitiva il nostro pianeta, e dove “i residui”, gli effetti collaterali del progresso vi si riversano continuamente sotto forma di inquinamento, di devastazione dell’ambiente che mette in pericolo la vita stessa? Lo spazio, e occupandoci di fantascienza lo possiamo vedere facilmente, non è per nulla la nuova frontiera (nel senso preciso di un luogo dove espandersi pressoché indefinitamente come lo fu “la frontiera” nel vecchio West) profetizzata da John Kennedy: gli altri mondi del sistema solare sono inabitabili per l’uomo, e quelli che potrebbero esistere in orbita intorno a stelle lontane sono separati da noi dall’incommensurabile distanza degli anni luce. Oggi, la fantascienza avventurosa coi suoi imperi galattici che “colpiscono ancora”, non può più rivendicare un minimo di plausibilità, ma vi supplisce con l’impatto visivo spettacolare delle pellicole hollywoodiane.

Tutto questo però non toglie né che la mentalità progressista sia ancora oggi particolarmente diffusa fra i cultori di fantascienza, né che, almeno dagli anni ’70 agli anni ’90 (molto meno oggi, per fortuna la caduta dell’Unione Sovietica è stata un trauma per tutti loro) sia esistita e in parte continui a esistere una critica letteraria fantascientifica dichiaratamente di sinistra. In Italia, essa è stata rappresentata in particolare dalla rivista, prima amatoriale poi per un breve periodo professionale “Un’ambigua utopia” e per un certo tempo dalla rivista “Robot” diretta da Vittorio Curtoni. Della scomparsa relativamente precoce di Vittorio Curtoni a causa di un tumore, non ho gioito, ma non sono riuscito nemmeno ad addolorarmene particolarmente.

Sembrerebbe dunque di aver a che fare con un orizzonte tematico e mentale quanto mai lontano dalla nostra Weltanschauung, ma è bene non esserne troppo sicuri. Pensiamo ad esempio a quello che è considerato un maestro del genere fantascientifico, Robert Heinlein, e a quello che è forse il suo romanzo più famoso, Fanteria dello spazio, un’opera in cui si descrive una società terrestre del futuro che, pressata dall’esigenza di combattere un’invasione aliena, si è fortemente militarizzata. Qui, di vicini alla nostra sensibilità ci sono la simpatia per gli uomini in uniforme, i concetti di disciplina e di gerarchia dove il rango si acquista con il merito. Il diritto di voto, ad esempio, si acquista dopo aver fatto il servizio militare, e chi non serve sotto le armi non lo ottiene mai, c’è l’idea, insomma che i diritti si acquistano in conseguenza del dovere compiuto, idee che è fortemente in contrasto con la mentalità democratica secondo la quale i diritti spettano a chiunque a prescindere (a meno che, naturalmente, non sia “un fascista”, in questo caso – singolare contraddizione – non avrà nemmeno diritto a esprimere la sua opinione senza correre il rischio di finire in galera).

Ancora più esplicito qualche dialogo molto godibile sparso nel libro, In uno di essi, uno dei personaggi è interpellato da un pacifista (Heinlein pensa che probabilmente ce ne saranno anche di fronte a invasioni aliene) che gli dice: “Con la violenza non si risolve nulla”.

“Beh”, risponde, “Con la violenza, Roma ha distrutto Cartagine, questo avrà pur risolto qualcosa”.

Un magnifico calcio dato con grande nonchalance a tutti i buonismi e pacifismi da cui siamo afflitti.

Nel 1997 è apparso sugli schermi il film di Paul Verhoeven intitolato appunto Fanteria dello spazio e ispirato al romanzo di Heinlein. Forse in omaggio alle origini tedesche dello scrittore o forse per rendere meglio il clima “militare” del romanzo, le uniformi dei “fanti spaziali” richiamano molto quelle della Wehrmacht. E’ un mistero come ciò sia riuscito a superare i filtri della solita censura democratica, o non abbia provocato una ridda di polemiche, ma in ogni caso, trovarsi qualcosa che ricorda il Terzo Reich non circonfuso dalla solita aura di denigrazione e demonizzazione, ma in un contesto positivo, è una bella soddisfazione.

Nell’immagine che correda questo articolo, a sinistra vedete una recente edizione del romanzo, a destra un fotogramma del film dove si notano le uniformi “tedesche” della fanteria dello spazio.

Se la letteratura fantastica e la fantascienza, sono oggi dominate da autori di lingua inglese, questo non lo si deve a un qualche motivo intrinseco a esse, ma alla predominanza che gli Stati Uniti e l’inglese-americano hanno acquistato a livello planetario a partire dalla seconda guerra mondiale, tuttavia se andiamo a esaminare le cose da vicino, scopriamo una cosa davvero strana: gli autori che “hanno fatto” la fantascienza americana presentano una percentuale sorprendentemente alta di immigrati di prima o seconda generazione. Farsi da Hugo Gernsback, “padre” della fantascienza, immigrato lussemburghese, abbiamo Isaac Asimov nato in Russia, Robert Heinlein e Fritz Leiber tedeschi, Poul Anderson di origine scandinava, Clifford Simak cecoslovacco, Ben Bova italiano, Lester Del Rey ispanico, Alfred E. Van Vogt (quest’ultimo non yankee ma canadese) e Sidney Van Scyok di origine olandese. C’è poi, bisogna ammetterlo, una nutrita pattuglia di ebrei: oltre ad Asimov, Robert Silverberg, Stanley Weinbaum, Leonard Nimoy (che è stato sceneggiatore oltre che interprete di Star Trek) e nel settore dell’horror Robert Bloch.

Quelli che latitano sono semmai proprio gli yankee anglosassoni del vecchio ceppo discendente dai coloni.

Tenete presente che non sto parlando degli ultimi anni che vedono il ceppo anglosassone ridursi sempre più al lumicino in conseguenza dell’immigrazione combinata con la politica democratica che non tiene conto del valore e dei meriti degli uomini e dei gruppi umani insieme alla maggiore fecondità delle popolazioni “colorate”, ma proprio della storia della fantascienza nel corso di novant’anni a partire da quando la situazione etnica/demografica degli USA era assai diversa da ora. Forse lo yankee anglosassone, assiso sulla sua posizione di presunta egemonia mondiale di cui ignora tutta la precarietà, non ha semplicemente voglia di occuparsi o preoccuparsi del futuro.

Di autori neri di un qualche rilievo nella fantascienza ce n’è uno solo, Samuel Delany, che sembrerebbe la classica eccezione che conferma la regola, ma per la verità, scavando parecchio si trova il nome di un’autrice di colore, Octavia Butler che almeno da noi ha avuto l’onore di un “Urania”, ma è un nome noto solo agli specialisti. La fantascienza rimane un genere essenzialmente “bianco”. Non ce ne stupiamo: oggi i neri hanno raggiunto la parità coi bianchi o li surclassano nello sport, nella musica, nella politica, ma per le attività che richiedono capacità intellettuale: letteratura, scienza, filosofia, rimangono indietro in un modo che non è spiegabile da nessuna discriminazione. Non fatemi dire di più per non beccarmi un’accusa di razzismo.

L’horror, dal nostro punto di vista non offre molto, forse ancor meno della fantascienza, forse perché è un genere molto settoriale, legato al fatto di provocare un determinato effetto angosciante in chi legge, e tuttavia anche qui dobbiamo segnalare almeno una notevolissima eccezione. Me n’ero già occupato in un articolo di un anno fa all’incirca, Politicamente scorretti. Se c’è stato un autore di narrativa americano, oltre che un uomo di straordinaria lucidità intellettuale, vicino alle posizioni che possiamo considerare “nostre”, è stato probabilmente lui, il grande, grandissimo Howard P. Lovecraft. Politicamente scorretti traeva origine dal fatto che gli organizzatori di un importante premio letterario fantastico, il World Fantasy Award avevano allora rimosso il busto dello scrittore come simbolo “oscar” del premio a seguito di insistenti accuse di razzismo.

Razzismo? Lovecraft difendeva piuttosto il vecchio ceppo dei coloni del New England che già ai suoi tempi minacciava di sparire, sostituito dalla folla meticcia e anonima che popolava le grandi città. E’ piuttosto di uno spirito identitario che dovremo parlare.

Questo è un problema che oggi tocca spaventosamente da vicino anche noi europei. Desiderare di non vedere la propria gente, la propria stirpe sparire nel mondialismo multietnico non è, non può essere considerato razzismo se diamo a questa parola l’accezione fortemente negativa che di solito le si associa. Razzismo è piuttosto quello di chi si ritiene in diritto di manipolare a proprio arbitrio il destino di popoli, etnie e culture, e razzismo è quello della sinistra che oggi, presa dai suoi deliri mondialisti, si presta a questo gioco infame, il razzismo più squallido e abietto che possa esistere, quello contro i propri connazionali.

Cosa dire del fatto che H. P. Lovecraft si sentisse strettamente legato alla cultura europea, al mondo germanico medioevale e a quello classico? Che fosse uno spietato critico dell’ “arte” moderna, che avesse giustamente individuato nella bruttura il tratto saliente di ciò che chiamiamo modernità? E contiamo anche il fatto che era amico e mentore di Robert E. Howard, il creatore di Conan.

E’ un discorso, il nostro, ancora lontano dall’essere concluso. Resterebbero quanto meno da esaminare settori relativamente agganciati alla fantascienza (per alcuni, secondo altri piuttosto generi a sé), quali l’utopia, la distopia – o utopia negativa – l’ucronia o storia alternativa, e qui viene subito in mente un altro nome di un autore molto importante e – giustamente – inviso alla sinistra, George Orwell. Ne parleremo con la dovuta ampiezza nel nostro prossimo incontro.

 

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