13 Maggio 2024
Letteratura

Narrativa fantastica, una rilettura politica, quarta parte – Fabio Calabrese

Esiste una serie di generi o di sottogeneri variamente collegati al fantastico il cui status risulta alquanto incerto, e che tuttavia hanno un legame molto evidente con la politica: fantapolitica, utopia, distopia (utopia negativa) ucronia (storia alternativa).

Può sembrare strano, ma le opere (non molte) etichettate come fantapolitica sono in ultima analisi quelle che entrano di meno nel nostro discorso, infatti, con questo termine si intendono perlopiù una serie di estrapolazioni di situazioni politiche contingenti basate su specifici personaggi che presto, nel giro di pochi anni, o si rivelano superate dai fatti o, se le loro previsioni si realizzano, diventano per così dire normale amministrazione, dove l’elemento predittivo fantastico appare ormai evaporato.

Un esempio “storico” in questo senso fu nel 1974 il romanzo di Gianfranco Piazzesi Berlinguer e il professore, pubblicato anonimo, che divenne subito un successo editoriale e un caso letterario. In esso si profetizzava l’incontro e la coabitazione sempre più stretta di comunisti e democristiani nello spartirsi il bottino di questa povera Italia, e fu appunto questo libro a lanciare un’espressione rimasta in modo duraturo nel linguaggio politico: compromesso storico.

Sicuramente, Piazzesi non aveva sbagliato la sua previsione: noi oggi vediamo che “gli ex” comunisti e “gli ex” democristiani sono addirittura abbracciati assieme in un unico partito, il sedicente Partito Democratico, che ci potrebbe apparire come una sorta di museo delle cere della Prima Repubblica, se non fosse per un fatto fondamentale: il cosiddetto ventennio berlusconiano, bruscamente cessato come sappiamo nel 2011, che separerebbe la Prima Repubblica dalla situazione attuale, è stato più una finzione che una realtà. Il potere dell’uomo di Arcore è stato enormemente sopravvalutato ed enfatizzato dai suoi avversari, ma sotto una transitoria apparenza “la casta” democristiano-comunista ha sempre tenuto ben strette le redini del potere effettivo, il che riduce la transizione dalla “prima” alla “seconda” repubblica a niente più che a una sceneggiata per i gonzi che credono di decidere qualcosa attraverso il rituale del voto. Certo, l’ultima svolta, il coup de scene finale di questo psicodramma, con la presa della segreteria del PD da parte degli ex democristiani rappresentati dall’ebetino di Rignano sull’Arno e il totale allineamento del PD e del governo dell’Italia agli interessi del grande capitalismo internazionale, con gli ex comunisti a fare da supporto a parte qualche sterile mugugno, questo probabilmente non l’avrebbe immaginato neppure Piazzesi.

Ciò non toglie tuttavia il fatto che accostandosi a questo libro oggi, lo si avverta come qualcosa di inevitabilmente datato, anche a prescindere dal fatto che il suoi protagonisti, Enrico Berlinguer e Amintore Fanfani, hanno da tempo lasciato questa valle di lacrime.

Naturalmente, quando parliamo di utopia, ci muoviamo in tutt’altro ambito, un genere molto più antico e più “alto” imparentato con la filosofia e la storia della cultura “elevata” (definizione sulla quale ora non vorrei aprire un contenzioso), anche se soprattutto le distopie, cioè le utopie negative del XX secolo come 1984 di George Orwell e Il mondo nuovo di Aldous Huxley sono più o meno arbitrariamente considerate imparentate con la fantascienza.

Il termine “utopia” rimanda all’opera omonima di Thomas More (Tommaso Moro), l’umanista inglese del XVI secolo che chiamò in questo modo l’isola fantastica da lui immaginata retta da un governo da lui ritenuto ideale dove sarebbero aboliti il denaro e la proprietà privata. Se Karl Marx è stato il padre del comunismo, e Jean Jacques Rousseau ne è stato il nonno, il bisnonno fu certamente Thomas More. Dal nostro punto di vista, More è importante perché era un cattolico fervente al punto che, cancelliere inglese, si fece condannare a morte da Re Enrico VIII pur di non accettare lo scisma anglicano (e la Chiesa cattolica lo venera fra i suoi santi e martiri), ed evidenzia come meglio non si potrebbe la continuità che il comunismo presenta rispetto agli ideali egualitari cristiani, il rapporto che esiste tra il “bolscevismo dell’antichità” e quello realizzato da Lenin in Russia nel 1917.

Il termine “utopia” fu coniato da Thomas More, ma l’idea di affidare a uno scritto filosofico-letterario la propria visione di una società ideale è di sicuro molto precedente, e possiamo farla risalire alla Repubblica di Platone. Io adesso non vorrei addentrarmi in una disamina del grande pensatore greco, cosa che ci porterebbe parecchio lontano dal nostro argomento, ma un paio di note a margine occorre proprio metterle.

Noi sappiamo che ci sono stati nel corso del tempo vari tentativi da parte della sinistra di accaparrarsi Platone (di cosa “i compagni” non hanno cercato di appropriarsi indebitamente? Forse solo di Julius Evola), di collocarlo addirittura fra gli antenati del comunismo, perché nella repubblica da lui pronosticata sarebbe dovuta vigere la messa in comune delle proprietà e delle donne.

In realtà il testo di Platone è molto chiaro se non se ne vogliono dare interpretazioni falsate: la proprietà privata e la famiglia sono ammesse per i produttori-lavoratori che costituirebbero il grosso della popolazione della repubblica, e la messa in comune è prescritta per i membri della classe dei sapienti e quella dei guerrieri, si tratta non di comunismo, ma di un comunitarismo simile a quello di un ordine monastico. L’idea di Platone è che i sapienti-filosofi e i guerrieri-guardiani non dovrebbero avere un interesse personale, in modo da essere sicuri che non lo antepongano al bene della comunità, e che non debbano conoscere chi siano i propri figli, per non correre il rischio di anteporli a qualcuno più capace e meritevole. A costoro, d’altra parte, Platone, che non è un cristiano, non raccomanda la castità, che alla lunga avrebbe solo l’effetto di far sparire dalla comunità le qualità migliori.

Se ci pensiamo bene, ancora oggi il dibattito politico si incentra su di una “destra” schierata a difesa del privilegio e dell’immobilismo sociale, e una “sinistra” che propugna un egualitarismo rozzo e fondamentalmente ingiusto che livella i migliori ai mediocri. Platone appare straordinariamente “avanti” rispetto a entrambe, con la sua idea di un’attenta selezione e nuove aristocrazie fondate sulla capacità e il merito. Una cosa che agli occhi dei nostri contemporanei può apparire un paradosso, tanto venticinque secoli dopo di lui le visioni politiche dominanti appaiono “primitive” e “arretrate”, ma il paradosso è tale solo se ci facciamo ipnotizzare dalla favola progressista secondo la quale quello che storicamente viene dopo dovrebbe essere per forza “più evoluto” e “migliore”.

Se avete dei dubbi su quale area del pensiero politico contemporaneo si apparenti alla grande intuizione platonica, vi ricordo il libro I leoni morti di Saint Paulien, dove in bocca a uno dei suoi personaggi, ufficiale della Charlemagne, mette questa frase:

Noi non abbiamo inventato nulla, abbiamo solo cercato di realizzare la filosofia di Platone”.

L’età contemporanea non consce utopie di segno positivo, ma piuttosto distopie, utopie negative che sono disegnate dai loro autori non per invitare la gente alla loro realizzazione, ma perché si prodighi per scongiurarle. La più famosa è probabilmente 1984 di George Orwell.

Questo libro ha avuto una sorte davvero curiosa, tranne la bibbia non esiste forse un testo più citato e meno letto, uno di quei testi di cui più o meno tutti credono di conoscere il contenuto per averne sentito parlare e senza mai averne letto una riga, e già questa è una cartina di tornasole che mette in evidenza tutta l’incultura e la superficialità della “cultura” mediatica che oggi imperversa.

È diffusa la credenza che 1984 sia un libro dedicato a denunciare soprattutto gli abusi della tecnologia, è in questo senso che viene più comunemente citato da chi non l’ha letto. In realtà, a parte la televisione che funziona nei due sensi come una sorta di gigantesca rete citofonica, e permette di controllare coloro che sono costretti ad assistere ai suoi programmi (un metodo non molto pratico, in realtà, e che richiederebbe un numero di addetti non inferiore a quello delle persone spiate), non è che nel romanzo di Orwell di tecnologia ce ne sia molta, è soprattutto il ritratto di un brutale sistema totalitario che per essere messo in atto non richiederebbe molto di più della tecnologia già disponibile alla metà del XX secolo.

Che il bersaglio di Orwell sia il comunismo, su questo non ci sono dubbi, e lo ha capito persino la sinistra che gli ha sempre riservato un’antipatia viscerale. Se qualcuno avesse dei dubbi a questo proposito, basterebbe leggere un altro romanzo dello scrittore inglese, La fattoria degli animali, che è una feroce caricatura della rivoluzione bolscevica. In una fattoria, gli animali si ribellano al padrone umano e, dopo averlo cacciato, ne assumono la gestione. A questo punto si fanno avanti i maiali (metafora dell’intellighenzia bolscevica) che assumono il controllo di ogni cosa, imparano a camminare su due zampe e a vestirsi, diventano in tutto uguali agli uomini. È da questo libro che viene l’immortale battuta: “Siamo tutti uguali, ma alcuni sono più uguali di altri”.

Riguardo a 1984, c’è da rilevare una circostanza alquanto bizzarra. Secondo una diffusa leggenda, Orwell avrebbe scelto questa data per ambientare la sua narrazione invertendo le ultime due cifre dell’anno in cui esso sarebbe stato scritto, cioè il 1948. Alquanto inverosimile, perché la prima edizione inglese del libro è del 1947, ed è difficile pubblicare un testo un anno prima di averlo scritto.

L’ipotesi più verosimile e che Orwell abbia invece aggiunto quarant’anni all’epoca della stesura del suo romanzo, che sarebbe stato scritto nel 1944. Se ci pensiamo, la situazione geo-politica che esso descrive è esattamente il futuro che si poteva ipotizzare prima dello sbarco in Normandia. In esso si immagina infatti il confronto fra tre potenze totalitarie: l’Eurasia che altro non è che un’Unione Sovietica che ha esteso il suo dominio fino a Gibilterra, l’Estasia, ossia una Cina che ha assoggettato tutta l’Asia orientale, e l’Oceania (il termine non si riferisce all’Australia ma all’oceano Atlantico), cioè l’America con l’Inghilterra ormai ridotta a una sua appendice/avamposto davanti alle coste europee.

Che importanza ha la cosa? Molta. Per prima cosa vediamo che durante la guerra non si poteva parlare male dell’Unione Sovietica, e per la propaganda bellica del tempo, quello che è stato probabilmente il più feroce tiranno e assassino della storia umana era “lo zio Joe”, e con ogni probabilità, se subito al termine del conflitto non fosse intervenuto il cambiamento di clima che ha portato alla Guerra Fredda, al libro di Orwell non sarebbe mai stato permesso di vedere la luce.

Come se non bastasse, Orwell ha centrato in maniera sgradevole (per i buoni democratici) anche previsioni che non riguardano l’Unione Sovietica e il comunismo: che l’Inghilterra (e poi anche il resto dell’Europa, per la verità) avrebbe finito per trasformarsi in una sorta di appendice degli Stati Uniti, e che la democrazia si sarebbe evoluta in un sistema non meno oppressivo delle tirannidi totalitarie, del che dà almeno in parte una dimostrazione proprio la vicenda di questo libro, prima impedendone l’uscita, poi creando la leggenda che ne posticipa la stesura di quattro anni. La cosiddetta democrazia dimostra una capacità di impedire la circolazione delle idee non conformi che ha ben poco da invidiare ai regimi totalitari.

Verrebbe da pensare che, critico spietato della realtà comunista, Orwell fosse un uomo di destra, un conservatore, e invece non è così, e questo per “i compagni” è francamente peggio. Di formazione anarchica, aveva partecipato come volontario alla guerra civile spagnola nelle file repubblicane. Qui si era presto dovuto rendere conto che i comunisti combattevano una doppia guerra civile, contro i franchisti e contro le altre formazioni repubblicane, che a loro non interessava minimamente “salvare la repubblica”, ma esclusivamente instaurare il loro sistema, dietro la maschera libertaria, aveva potuto sperimentare sulla propria pelle il volto tirannico e sanguinario della “rivoluzione rossa”.

D’altra parte, noi sappiamo bene che anche la storia della guerra civile italiana dal 1943 al 1945 è costellata di episodi dello stesso genere che oggi la liturgia resistenziale inventata nel dopoguerra cerca vanamente di nascondere, con i partigiani comunisti che denunciavano alle SS i movimenti delle bande partigiane non comuniste o addirittura provvedevano a liquidarle di persona, come accadde alle Malghe di Porzus, abbastanza per capire che quel che accadde in Spagna non fu qualcosa di isolato.

Orwell ci dà una testimonianza importante per capire il volto sanguinario della storia del novecento, tuttavia l’esperienza del comunismo così come l’abbiamo conosciuto fino alla caduta dell’Unione Sovietica nel 1991, appartiene a un orizzonte storicamente superato, cosa che invece non si può dire per la profezia di Aldous Huxley contenuta ne Il mondo nuovo. Nel passato i sistemi autoritari hanno cercato di esercitare il controllo sulla gente attraverso la repressione degli istinti, a cominciare dalla sessualità, invece, ci insegna Huxley, è proprio attraverso il loro soddisfacimento e la loro espansione fino al parossismo che la gente può essere più facilmente controllata, riducendo gli esseri umani a uno stato di bovina soddisfazione che, in ultima analisi, si rivela più efficace di qualsiasi truce cipiglio. E’ una predizione che oggi, grazie al sistema consumistico-mediatico si sta in gran parte avverando.

La nostra rilettura politica dei diversi generi della narrativa fantastica non è ancora conclusa, rimane da esaminare ancora un settore forse poco conosciuto dal pubblico generalista, ma di grande interesse dal nostro punto di vista, quello dell’ucronia, della “storia alternativa”, della “storia scritta coi se”, e sarà l’argomento di cui ci occuperemo prossimamente.

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