12 Aprile 2024
Guardia di Ferro

Mircea Eliade e la Guardia di Ferro di Claudio Mutti – recensione a cura di Riccardo Rosati

Il volume di Claudio Mutti è uno strumento prezioso per la comprensione del passato guardista di Eliade. Un libro piccolo e importante, che presenta una meticolosa ricerca delle fonti, operazione non certo semplice, poiché nel periodo della dittatura in Romania, molta documentazione è andata distrutta. Una opera che fa chiarezza sul periodo 1936 – 1938, in cui Eliade militò nel movimento della Legione dell’Arcangelo Michele o Guardia di Ferro, come viene spesso designata nell’Europa Occidentale. Questa rilettura aggiornata dello scritto che Mutti dedicò nel 1989 al celebre storico delle religioni è la ennesima dimostrazione di quanto lo studioso italiano sia un punto di riferimento per addentrarsi nell’Eliade “legionario”. 

Il testo si apre con una citazione di Franco Cardini, il quale sostiene come la Guardia Ferro sia stato un fenomeno che andrebbe studiato: “[…] dal punto di vista sociologico ed antropologico-etnologico piuttosto che non da quello ideologico-politico […]” (5). Quindi, e Mutti dimostra di saperlo bene, vi è l’esigenza di analizzare il coinvolgimento diretto di Eliade nelle vicende del suo Paese non nella limitante prospettiva ideologica, ma in quella spirituale, attiva e partecipe. Le mente e l’animo, come fece lo studioso rumeno per una parte della sua vita, vanno messi al servizio del Popolo e non di se stessi, già questa è una lezione importante che possiamo apprendere in questo libro.

Un altro elemento su cui Mutti pone l’accento riguarda la rilevanza  autobiografica nella narrativa di Eliade: “Esiste però una parte della produzione eliadiana in cui il dato autobiografico non è dichiarato, ma è spesso abilmente dissimulato nel contesto di una trama romanzesca, pur conservando una lucida trasparenza” (7). Egli lo fa con una scrittura assai particolare: apparentemente dal tono “freddo” e incline alla sintesi, ma che si rivela avvincente, spingendo a leggere la pagina seguente e così via, ponendo delle domande alle quali si tenta, e spesso si riesce, di dare delle risposte. È il caso de La foresta proibita (1955)… si tratta forse di un Ro2romanzo autobiografico? Mutti conclude di no, malgrado sia ambientato nel campo di prigionia di Miercurea Ciuc, dove venne rinchiuso lo stesso filosofo. È davvero suggestivo tutto il percorso che Mutti compie nell’attraversare questa militanza di una certa gioventù rumena, per mezzo della narrativa eliadiana, con episodi anche eroici, quanto veri. Ricordiamo, ad esempio, come nel campo di internamento, Nae Ionescu (il maestro di Eliade) creò una “università legionaria” o quando i membri della Guardia si alternavano con militare precisione nella preghiera e nel digiuno. 

Ci sono degli studiosi che hanno vissuto il carcere o, come in questo caso, un campo di internamento. Agli occhi dei benpensanti del progresso di oggi ciò incute timore e sospetto, come se questo fatto possa sminuire la valenza del ricercatore che incappa nelle maglie di una politica oppressiva, corrotta e ingiusta. Ma è proprio tutto quello che rientra nell’ambito della militanza e dell’impegno a dar fastidio a costoro, come pure gli atti di coraggio. Così accade a Fosco Maraini in Giappone, ma della sua prigionia non si parla mai volentieri, ci si limita a dire che si amputò un dito per ottenere i favori dei militari nipponici. Un intellettuale che vive in prigionia genera un mondo dentro di sé, lo deve fare per sopravvivere. Nel caso di Gramsci la galera è stata paradossalmente la sua grande fortuna, però quando questo riguarda un pensatore di Destra, allora tutto diventa teppismo, sovversione, “ille nihil dubitat qui nullam scientiam habet”.

Un capitolo del libro è intitolato: “L’ultima possibilità della Romania”, riprendendo le parole di Emil Cioran. Possiamo oggi mutuare tale frase, per sostenere che il Pensiero Tradizionale è da ritenersi l’ultima possibilità dell’Occidente? Aveva perciò ragione Cioran nel credere che la salvezza della moderna società fosse nella: “distruzione della democrazia”? Il testo di Mutti non evita riflessioni di questo tipo, essendo intriso di quel coraggio che è oggi necessario per denunciare l’oscuro che domina il mondo, come quando egli parla, senza mezzi termini, del “veto sionista” (28) che impedì la candidatura di Eliade al Premio Nobel. Del resto, Mutti non è estraneo nel prendere di petto i problemi socio-culturali della società contemporanea, utilizzando proficuamente una prospettiva tradizionale. Così fece durante un convegno su René Guénon tenutosi a Roma qualche anno addietro, nel quale riuscì a proporre una lettura del filosofo francese finalmente non cervellotica e “alchemica” – come avviene puntualmente in quasi tutti i cosiddetti  guénoniani – stigmatizzando il ruolo occulto di Basil Zaharoff (1849 – 1936): una figura sciaguratamente poco conosciuta e indagata, ma che ha indirizzato le sorti del mondo come adesso lo conosciamo. Ecco, questo ci sembra ormai l’unico modo possibile di essere Tradizionalisti, l’audacia di entrare nell’agone, anche politico quando serve! Eliade stesso ce lo chiarisce con le sue parole: “Per me, che non credevo al destino politico della nostra generazione (né alla stella di Codreanu), una dichiarazione con cui mi fossi dissociato dal Movimento mi sembrava non solo inaccettabile, ma addirittura assurda” (18). Vi è perciò il tempo per la ricerca e quello per l’Impegno; l’una non deve mai prevalere sull’altro, ma nemmeno devono essi confliggere. Il mondo occidentale in cui viviamo non può abbeverarsi al puro esoterismo, questo è uno stadio complesso e che necessità, prima di arrivarci, di un risveglio, il quale passa inesorabilmente nel rendere comprensibile la Tradizione, nello spiegare come essa non sia una “fuga dal mondo”, bensì un rientrarci in modo possente, non tanto per distruggerlo, nel tentativo di azzerare anacronisticamente le lancette della storia, ma per “rettificarlo” evolianamente.

Riccardo Rosati

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