13 Aprile 2024
Punte di Freccia

Madrid, 6 giugno 2015, la vecchia guardia le nuove generazioni…

Atterro a Madrid intorno a mezzogiorno. Più di quindici anni mi separano dall’ultima volta. (Vi ero tornato con la scuola). Ernesto mi è venuto a prendere, Ernesto di Barcellona. Come se fosse ieri. Sempre giovani, sempre belli… E anche con lui, gita scolastica in Catalogna, nell’’87. Quasi trent’anni, i capelli bianchi. Noi, combattenti e credenti al servizio dell’Ideale, siamo una comunità che il tempo e le circostanze sembrano separare ma che sa ritrovarsi, immutata e fedele. Sarà l’inizio del mio intervento questo tema, utilizzando l’aforisma di Nietzsche, postumo, a me tanto caro e sofferto (e citato spesso e anche qui su Ereticamente), che suona ‘A coloro che in qualche modo m’importano…’. Quel mantenersi duri, quel tener duro, tramite la sofferenza e l’offesa, prove queste e non solo queste che lo stabiliscono o rimandano, umiliato vile silente, a rintanarsi e leccarsi inutilmente le ferite chi, al contrario, ha ceduto alle lusinghe del mondo. Ed è quanto ci riconoscono – e me ne faccio portavoce e vanto – le ultime generazioni, anche quando non si identificano con la nostra storia, idee e battaglie, e, sovente distratti e succubi della malafede della disinformazione di atmosfere mefitiche sparse a piene mani, si pronunciano in forme critiche.

Mi sono alzato presto, del resto sono uso, una tazza di tè la metropolitana la corriera fino all’aeroporto di Ciampino un cappuccino (buono) un caffè in volo (al limite del disgustoso). Ho saltato il pranzo – invece di parlare avrei offerto lo spettacolo di un respiro pesante e rumoroso –, il tempo di darmi una rinfrescata il cambiarmi la camicia ed eccomi di fronte ad un centinaio di camerati di più generazioni, attenti partecipi e cortesi nell’applaudirmi più volte (me lo meritavo? Aldilà d’ogni ragionevole dubbio, sono radicalmente convinto di sì… vanesio istrione funambolo! Io). Poi la cena – ‘Ambrogio, ho un certo languorino!’, diceva la principessa Borghese nella pubblicità – in un ristorante messo a nostra disposizione da un camerata. Birra limonata fiamminghe di carne funghi frittate e pane (forse ho dimenticato qualcosa, non il mio stomaco). Ritorno in albergo, verso l’una, sonno breve ma intenso. Colazione con cappuccino (anche questo discreto) e succo d’arancia, aeroporto ritorno metropolitana casa… Anni 71, fisico inadeguato, acciacchi tanti (evito l’elenco), anagrafe impietosa, eppure ancora pronto per ‘la buona battaglia’, anche se si risolve in parole-parole-parole…

Juan Ignacio Gonzales, di anni 28, laureato in Legge (come José Antonio), era il segretario del Frente de la Juventud. Venne ucciso, rientrando a tarda notte, davanti al portone della sua abitazione in calle Antonio Acuna, al n.19, con quattro colpi di pistola in testa. Non vi fu alcuna rivendicazione; nessun colpevole venne arrestato. Erano gli anni della transizione dopo la morte di Francisco Franco. Anni inquieti. Qualcuno volle insinuare che si trattasse di un regolamento di conti fra gruppi e faide all’interno stesso dell’estrema destra. Strano, trattandosi di realtà conosciute (spesso infiltrate da agenti provocatori) poco numerose operanti nella piazza con le loro camicie azzurre e il basco nero, che le indagini s’impantanassero e finissero in quel ‘porto delle nebbie’, di cui anche in Italia conoscemmo tragedie e mistero. Era il 12 dicembre del 1980. 12 dicembre come la strage di Piazza Fontana…

Così, dopo anni di dispersione e silenzio, in una Spagna sempre più distratta e partecipe della crisi europea, nasce l’Associazione Culturale in Memoriam di Juan Ignacio. Tramite Ernesto, sono stato invitato a parlare sugli ‘anni di piombo’ in Italia. E, ogni anno, oltre la fiaccolata in ricordo dell’assassinio (nel dicembre 2014 vi hanno partecipato tremila persone), si tiene un incontro in una città, di volta in volta diversa, e in questo 2015 ‘la primavera madrilena’. Sono lo stesso Ernesto e José Luis a presentarmi ai presenti. Parole di stima; parole d’affetto da parte d’entrambi. (Siamo espressione simile a rottami di antichi naufragi, ostinati tardi di un tempo dissolto, oppure in noi parla l’eterna voce dei ‘conquistadores’ con gli occhi ancora impastati di Imperi oltre l’oceano le montagne le impenetrabili foreste?). Bandiere alle pareti, fra cui quella cara della Repubblica Sociale e due con la runa d’Avanguardia in campo nero; poster di un bel rosso raffigurano alcuni dei riferimenti culturali di un’altra e nobile Europa e non solo, fra cui Julius Evola i francesi Drieu la Rochelle e Brasillach con la katana sguainata MishimaYukio le figure storiche della Spagna della guerra civile; banchi di libri di cd di musica magliette (m’ero ripromesso di acquistare, al termine del convegno copia de I sette colori in spagnolo, poi mi sono attardato a parlare con tanti che mi interrogavano avevano piacere di salutarmi e la cosa è sfumata. Forse è il segno che devo tornare… ‘E, con le strade brulle e rosse, – ecco la nostra Spagna’).Alcune note del mio intervento, tralasciando quei riferimenti e immagini e citazioni utilizzate in precedenti occasioni su Ereticamente. Avanguardia Nazionale nasce il 25 aprile del 1960 (e la data, va da sé, non è casuale) con il preciso intento di svincolare i partiti nazionali e le varie organizzazioni giovanili dall’azione sterile e puramente nostalgica in cui si finiva per essere prigionieri (disegno strumentale, ci apparve chiaro nel tempo, per isolarci e finire per rappresentare logiche da ‘guerra fredda’).Non si trattava di rinnegare le nostre origini – Tolkien scrive ‘le radici profonde non gelano mai’ – o di paradossali e ipocriti camuffamenti, si trattava però di denunciare quella destra borghese, inquinata ormai dai compromessi dalle logiche dai sotterfugi della democrazia parlamentare, dedita ad un anticomunismo sterile e acritico. Era la coscienza di volere-potere-dover essere, nella tradizione del Fascismo più autentico e rivoluzionario (s’è detto più volte a quali echi eravamo all’ascolto!), forza proiettata a combattere l’esistente raccogliere le sfide del presente essere artefici del vento dei cambiamenti.

La lezione che ci veniva data – e va reso merito a Stefano, prioritariamente – era di saper distinguere tra gli strumenti della tattica e le finalità della strategia, i primi duttili nelle circostanze e nel tempo, le seconde a far sì che la barra del timone rimanesse in salde mani e in giusta direzione. Premessa questa opportuna per intendere quattro tappe, momenti che caratterizzarono l’esperienza di lotta rivoluzionaria. Il ’68 e dintorni, di cui il sottoscritto ha narrato scritto sbrodato in ogni occasione e in tutte le salse più gustose e piccanti. La rivolta di Reggio Calabria, a dimostrazione come si realizzi un progetto di guida di un popolo in lotta e che non è patrimonio esclusivo della sinistra, del marxismo. Il tentato golpe del Comandante Borghese, tappa e non punto d’arrivo, nella notte dell’8 dicembre del ’70, fallito perché in Italia il tradimento dell’8 settembre 1943 non è un avvenimento tragico vile ed episodico, ma sembra costituire quasi un connotato caratteriale di un certo tipo d’italiano. Infine la necessità di internazionalizzare la lotta per costituire una piattaforma ove lanciare nuove e reiterate sfide per il nostro paese, in Europa.

Quattro momenti di lotta su cui tanto vi sarebbe ancora da dire… Superare la logica dell’antifascismo (basti riportare un solo esempio, il Partito comunista d’Italia, l’unico riconosciuto dalla Cina popolare, distribuì nei primi mesi del ’68 un volantino che chiedeva con tanto di punti esclamativi di farla finita con l’antifascismo), dare alla nostra partecipazione quell’agibilità politica sempre negataci, creare in prospettiva un movimento di lotta fuori dagli schemi dettati dal sistema partitico, radicalizzare il momento dello scontro. A Reggio, la prova di come in armi idee e coinvolgimento della piazza si potesse raggiungere il controllo del territorio (quell’area franca da utilizzare a sistema di autodifesa, di protezione al momento in cui s’intendeva portare il conflitto su tutto il territorio nazionale. Nessuno di noi auspicava la costituzione di uno stato da caserma o imitare quanto s’era constatato di persona nella Grecia dei colonnelli (non è un caso come la definizione di ‘anarco-fascista’, tanto a me congeniale, trovi qui il suo esordio). Il primato della politica non si delega ai militari e un legionario non s’appiattisce nella divisa del soldato, semmai è il militare che deve acquisire la visione del combattente al servizio dell’Idea. ‘La guerra del sangue contro l’oro’ non è una felice e riuscita espressione di due campi di forze l’un contro le altre armate. E’ l’estensione del concetto di spazio – ogni luogo è terra di conflitto – e delle idee – esse non conoscono universi concentrazionari –.

Il mio intervento doveva incentrarsi sui cosiddetti ‘anni di piombo’. Il tempo a disposizione (un’ora circa con relativa traduzione va, però, restringendosi). Aggiungo come la mia generazione si senta responsabile, non certo delle accuse rivolte da solerti e politicizzati magistrati e questurini, ma perché volle essere parte del vento dei cambiamento ed altri se ne fecero sfregio per altri scopi. Così ricordo l’incontro, organizzato a scuola con Alberto Franceschini, fra i fondatori delle BR, che volle abbracciarmi davanti a professori (gonfi di rabbia) e studenti (applausi), proprio sul concetto di responsabilità politica e l’episodio di Franco Anselmi, subito dopo l’assassinio di Stefano Recchioni ad Acca Larentia, quando estrasse dal giaccone ed immerse il passamontagna di Mikis Mantakas nella pozza di sangue a simboleggiare che ora toccava anche a noi ‘la critica delle armi e non più soltanto l’uso delle armi della critica’. Pochi mesi dopo sarebbe caduto, con la pistola in pugno, nella tragedia della lotta armata – folle disperata nobile ma, anche e purtroppo, capace di annientare ogni progetto politico, la costituzione d’un concreto progetto rivoluzionario (la lotta armata, se e quando si necessita, non equivale al terrorismo)…

Poi la cena in un ristorante aperto solo per noi, fra fiamminghe di carne e canti di battaglia, poche le ore di sonno, di nuovo all’aeroporto e il ritorno a casa. E la certezza che s’è in piedi, ovunque e comunque…

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