11 Aprile 2024
Punte di Freccia

Lisbona, questa sconosciuta… – Mario Michele Merlino

Vi sono luoghi che non visiteremo mai e di cui, in fondo, non ce ne curiamo oltre. Ad esempio, Londra o New York (eppure vi nacque mia madre). Altri di cui avvertiamo il vago sentire di mancanza. Penso all’Irlanda, l’isola verde d’antiche saghe e di Belfast grigia e sporca, ove il sacrificio di Bobby Sands è raggio di vivida luce come lo furono i bagliori delle molotov contro le autoblinde dell’occupazione inglese. Troppo tardi e oggi non mi lagno di non esserci stato. Percorrere via Gallia m’è ormai fattosi arduo. Mio padre possedeva una collezione di libri vari di viaggi in tanta parte del mondo a cura di cronisti, all’epoca della sua giovinezza famosi, come Mario Appelius (notoria l’invettiva ‘Dio stramaledica gli inglesi’) e Arnaldo Cipolla. Gli era bastato leggerli; poi chiudere gli occhi. Come Emilio Salgari, di cui nutrì la mia infanzia. Nel 2006 pubblico con l’amico Rodolfo Strade d’Europa. Anch’io posso chiudere gli occhi.

Antònio de Oliveira Salazar dominò la scena politica del Portogallo dal 1932 fino al 1968 quando, invalidatosi, fu costretto a ritirarsi e morire il 27 luglio del 1970. Il suo regime sopravvisse fino al 1974 quando, con la cosiddetta ‘rivoluzione dei garofani’, il Paese si adeguò alle regole della democrazia parlamentare. Estado Novo, sorta di sistema corporativo (forte l’influenza della dottrina sociale della Chiesa) su modello del Fascismo italiano di cui Salazar fu estimatore. Attento, però, ad evitare eccessive collusioni che avrebbero compromesso, in politica estera, la neutralità, considerata l’unica possibile nel secolare ricatto ad opera della Gran Bretagna. Non priva di gesti nobili e significativi, almeno sul piano morale (in fondo, con il tracimare della storia, sono quelli che valgono oltre il vento del cambiamento).

Ne voglio ricordare due. Quando le sorti del conflitto si mostrarono favorevoli agli alleati e tanti Stati corsero alle armi, nel momento della vittoria annunciata (forme vili modello 8 settembre), egli tenne a precisare come ‘un sentimento di pudore, di dignità e di umanità non consentì che il nostro atteggiamento venisse cambiato’. Il pudore qui sta nelle parole usate non nel gesto, alto ed altro. Nel maggio 1945, con de Valera, presidente della Repubblica d’Irlanda, fu il solo capo di stato ad esprimere all’ammiraglio Karl Doenitz le condoglianze per la morte del cancelliere Adolf Hitler. Atto formale, di prassi diplomatica, ma in quelle circostanze anche qui gesto alto ed altro. Basterà confrontarlo con il silenzio di Franco…

Lisbona sorge sull’estuario del Tago e si affaccia sull’Oceano Atlantico. E’ un destino ove il senso dell’infinito – andare per mare sempre oltre – si armonizza con la storia e il suo radicarsi in un sistema collinare. Antico. Lo trascrivo dalle cognizioni di chi ha per circa quarant’anni insegnato e dalla lettura di autori quali Fernando Pessoa –

‘… amo il Tago perchè sulla sua riva c’è una grande città. Assaporo il cielo perchè lo vedo da un quarto piano di una strada della Baixa. Non c’è niente che la campagna o la natura mi possano dare che sia pari alla maestà irregolare della città tranquilla vista dal Graça o dal belvedere di S. Pedro de Alcantara sotto la luna. Non ci sono per me fiori che siano pari al cromatismo di Lisbona sotto il sole’.

Dovrei descrivere i suoi più celebri monumenti – la Torre di Belém da dove salpò Vasco de Gama alla conquista di nuove terre e vie di navigazione – e tanto altro ancora. Non sarebbero, però, che cartoline didascalie rubacchiate qua e là da riviste e album…

Lisbona è la città che non c’è e di cui ho saggiato il fascino come scrutare dal buco della serratura e costretto a ritrarsi rapido e scontento. L’unica, in fondo, che mi fa nostalgia. Da quei lontani anni ’60 non s’è più proposta l’eventualità di ritornarci e con maggiore fortuna. O, forse, inconsapevole ho rimosso ogni occasione perchè ne avrei alterato il ricordo, mancato. Vi sono sogni che ‘devono’ preservarsi tali. Santa Apòlonia è la stazione, già inaugurata nel 1865, ove arriviamo dopo un viaggio di notte su un treno da pendolari, non ricordo più le innumerevoli fermate, di corpi sudati il vocio ininterrotto una chitarra fette di pane cipolla cruda il vino aspro da bere direttamente alla bottiglia occhi curiosi. Cerchiamo di dormire rannicchiati sui sedili polverosi e sfilacciati. Impossibile. Abbiamo lasciato Toledo con gli zaini e la poca biancheria che possediamo di quella amara e felice e inquieta giovinezza che Robert Brasillach (il mio fratello più caro) aveva definito, con felice espressione ne La ruota del tempo, ‘l’eminente dignità del provvisorio’. In fondo, in modo radicale ed assoluto, già Charles Baudelaire aveva sentenziato: ‘La grande maladie: horreur du domicile’. (Anni dopo la lettura delle opere di Bruce Chatwin mi conforteranno sulla convinzione di appartenere alla razza dei nomadi, di tutti coloro cioè che avvertono ogni spazio una sorta di universo concentrazionario ed ogni orizzonte un confine da travalicare. E non si necessita il viaggio per essere sempre altrove).

Nella scatola di fiammiferi, ripiegato, un foglietto di carta con il nome del giornalista, che ci deve ospitare, il luogo dell’appuntamento, il caffè Martinho do Arcada, e l’ora. Non ci arriveremo mai. Lisbona rimarrà, appunto, un desiderio inappagato (come il vero amore, si legge nell’Hagakure), un percorso senza traguardo. Un sogno. Chiedo informazioni. Basta un quarto d’ora a piedi, mi spiegano, e si arriva alla Praça de Commerçio, meglio conosciuta come il Terreiro do Paco (qui sorgeva il palazzo reale Ribeira crollato durante il terremoto del 1755, reso celebre anche per l’invettiva di Voltaire contro il filosofo Leibniz e la tesi de ‘il migliore dei mondi possibili’), sotto i suoi portici, là dove ha inizio il quartiere della Baixa, il caffè noto per essere ritrovo degli intellettuali portoghesi. Prima, però, ci consentiamo un caffè con latte in tazza grande, alla francese, in un locale dalle pareti alte e coperte di specchi in cornici stile liberty. Ci basta poco e la felicità, ci diciamo, sta stretta in pugno. Come l’acqua, ce ne accorgeremo presto, sarà dispersa fra le dita…

In quella metà anni ’60 a Lisbona e in tutto il paese v’era un’atmosfera inquieta e di sospetto. Non risultava momento favorevole per andarci. Nel 1961, dopo un lungo contenzioso con l’Unione Indiana, il territorio di Goa veniva occupato e trasformato in stato federato con il tacito consenso delle Nazioni Unite. Intanto in Mozambico e Angola, il cosiddetto Oltremare portoghese, dilaga la guerriglia. Poco, dunque, era servito il gesto di Salazar, già nel 1934, di inserire nell’Atto Coloniale come gli antichi possedimenti partecipassero ad una ‘comunità di popoli, i quali, qualunque siano le differenze, si aiutano, si istruiscono e progrediscono, fieri del loro nome e della loro qualità di Portoghesi’. Eclatante il sequestro in mare del piroscafo Santa Maria ad opera del capitano Galvao, oppositore del regime, e condotta nel porto brasiliano di Resipe. Dunque la PIDE, la polizia segreta, era in allerta e non si lasciava sfuggire di controllare le persone sospette. Come noi.

Facciamo un breve tratto di strada; veniamo affiancati dalla classica auto nera; due energumeni ci costringono a salire; ci portano a strattoni in un anonimo ufficio. Qui, ad una risposta mia infelice (ho sempre avuto la pretesa del comico), due ceffoni mi rendono chiara la situazione. E tanto più chiara quando le mettono le mani addosso stringendole i piccoli seni. Mi gioco la carta del giornalista, confidando sia in buona con il Governo. Sono fortunato. Ci caricano di nuovo in macchina; di nuovo a Santa Apòlonia e, in stazione, un treno sembra lì ad attendere proprio noi. Verso il confine spagnolo e addio Lisbona. Per sempre. Ancora dei giorni errabondi, poi lei torna in Germania, io a Roma. A settembre, di sera tardi, un camionista ubriaco trascinerà la sua auto, con lei dentro, contro una cancellata della Ulmenstrasse. Questa, però, è il seguito di altra storia…

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