12 Aprile 2024
Punte di Freccia

Libri Monti Canti – Mario Michele Merlino

Rispolvero, anche in senso letterale, alcuni dei libri che mi riportano alla montagna, a lunghe passeggiate per prati erbosi, aria frizzante, cielo terso, qualche escursione con il fiato grosso e il sudore che cola lungo la schiena, raggiungere mete tutte tue, una radura, la sporgenza di una roccia, quell’albero che solitario svetta provocante sullo strapiombo. E il demone del piccolo borghese, che si annida maligno, a sussurrarmi come non ne valga la pena perchè in città c’è l’autobus e la metropolitana e il passo reiterato e piano sull’asfalto sicuro. Menzogne, lo so, ma allettanti quando i muscoli sembrano cedere e, viandante in sola compagnia di te stesso, ti dici che tanto nessuno ti vette_th[1]vede ti giudica ti disprezza… Ti metti in gioco, non è poco. Non ci sono i bastoni le barricate, lacrimogeni e molotov, adrenalina a mille, spalla a spalla, non si cede un passo, in alto i cuori e in alto minacciosa la spranga, l’urlo liberatorio in nome del dio ‘Odinooo! del ‘Boia chi molla!’. Non c’è specchio ove confrontare l’incalzare e la vittoria dell’anagrafe. Solo cielo e terra. Tu, asse del mondo, tra l’essere nell’eterno e il tuo divenire nel tempo…

Tra gli scritti di Julius Evola non può mancare Meditazioni delle vette, Edizioni del Tridente, edizione 1986, la raccolta di articoli apparsi su varie riviste negli anni Trenta. Qui l’ascesa si rende ascesi. Scrive lapidario:

‘E’ l’ora delle altezze solari e della grande solitudine’.

E, tramite la purezza e la libertà che si conquista e ci s’immedesima, ecco avvertire il soffio dello spirito a spazzare via i troppi –ismi della vita borghese e, ancora indistinta, percepire l’idea grandiosa e più autentica dell’Imperium… Divago, lo so, m’incarto, scadendo in retorica, e mi rituffo in atmosfere da lungo tempo abbandonate ad algidi panorami, mentre la mente ed il cuore mi suggerivano e mi ruggivano scene di lotta e di battaglia, di sbarre e chiavistelli. Eppure, qualora si scelga la montagna, non si può abbandonare la tentazione di percepirla sì come avventura, ma anche via di liberazione. Soprattutto quest’ultima.9788879724241_annapurna_i_primi_8000[1]

Ecco di Maurice Herzog Uomini sull’Annapurna, edizione Garzanti 1952, al quanto malconcio, un classico, appassionante e coinvolgente, direi, salgariano in alcune sue pagine, commosso e commovente nella sua conclusione.

‘La montagna è stata per noi una palestra naturale dove, giocando ai confini della vita e della morte, abbiamo trovato la libertà che oscuramente cercavamo e di cui avevamo bisogno come del pane.’

E, mentre lo portano sulla via del ritorno in una rudimentale lettiga, con le mani fasciate, le dita perse sangue pus, può continuare ad annotare:

‘La montagna ci ha elargito le sue bellezze che ammiriamo come ingenui fanciulli e che rispettiamo come un monaco l’idea divina’.

Lo confesso: prediligo questo far coabitare spirito d’avventura, il senso vivo della carne, pur se condannata dal congelamento alla putrefazione, ai sentimenti allo stupore allo smarrimento, questo esitare rispetto a risposte troppo ‘precise’ come se avessero richiesto scrittura e ripensamenti cancellature e bella copia (non è certo il caso di Evola, s’intenda bene, che fu della montagna partecipe sincero e dal ‘vivo’). I miei eroi sono un po’ cialtroni, forse, ma non possiedono nulla di costruito e di accomodato…

Nonostante quanto scritto qui sopra o proprio per questo, ritrovo – e rispolvero nel tentativo di dare ordine ai libri ammucchiati – Il monte analogo del francese René Daumal, Adelphi, 1968. Rimasto incompiuto per la morte dell’autore a causa d’infezione polmonare nella Parigi del ’44 ed edito postumo nel 1952. Una fiaba, forse. Alla ricerca di quel monte che è al di là d’ogni possibile montagna e che diviene simbolo di unione tra la Terra e il Cielo così com’è appunto l’uomo nella sua postura eretta con le braccia verso l’alto (la lettera ‘algiz’, ad esempio, nell’alfabeto runico). E la spedizione che si mette in cammino, pervenendo alle pendici, ha sua guida Peter Sogol che, letto all’incontrario, propone il termine ‘logos’. Quel Logos di cui già Eraclito riconosceva l’impossibilità di giungere al centro tanto vasti e profondi i suoi confini – e, allora, ci si chiede se il libro è rimasto interrotto perché vi è in questa ascensione, viaggio interiore, qualcosa di impraticabile oltre un certo limite. Quel limite, questo l’auspicio di Daumal, da superare per contemplare con occhi nuovi il proprio paesaggio interiore.

Cerco inutilmente di Ardito Desio, figura storica dell’esplorazione e dell’alpinismo italiano, La conquista del K2, in bella edizione Garzanti (ne ho fatto dono a Marco, amico e grafico di tanti miei libri). Trovo, invece, di Riccardo Cassin, altro nome storico di alpinista degli anni Trenta, Dove la parete strapiomba, acquistato alla cifra record di euro 1 su cartoni buttati sul marciapiede e libri accatastati in assoluto disordine. Forse dalla scrittura troppo asciutta e troppo tecnica – al lettore scoprire l’efficacia della narrazione –. Perso fra altri, la sua forma esile non gli giova, il libro di Werner Herzog, il regista tedesco di film singolari quali Fitzcarraldo e Aguirre, furore di Dio, la trasposizione – o vera e propria scenografia – del film Grido di pietra, nata dalla vicenda autentica di due alpinisti alla conquista della cima del Cerro Torre in Patagonia.

Da bambino poi divenuto adolescente ho trascorso i mesi estivi sulla costa della Romagna e il mio orizzonte era la linea sottile che univa il verde cupo dell’Adriatico con il cielo terso, sovente quando da terra soffia il garbino e sulla spiaggia porta le coccinelle e un’aria appiccicosa e soffocante. Poi, chissà perché, un giorno, il mare mi è venuto a noia. Ho imparato ad amare il fiato corto il sudore lungo la schiena il passo pesante il mettersi alla prova, soprattutto con se stessi. L’ho scritto. E, per alcuni anni, ho trovato rifugio – un rifugio non soltanto al rumore della città e alle sue nevrosi, un rifugio d’anime inquiete – in una elegante baita tra Feltre e Belluno, al limitare del bosco e dopo aver abbandonato, per un ripido sentiero, le ultime case del paese. Un luogo di affetti, bruschi e concreti di Emilia, e i ricordi tanti, la presenza silenziosa di Albert, come la tavoletta intagliata sulla porta con la scritta ‘Tout me fait rire’… No, non sono stato certo uno scalatore, un alpinista, solo un modesto vagabondo in cammino ora per prati erbosi ora risalendo e perdendomi tra il gioco delle ombre e delle radure ove il sole filtra e solo in compagnia del tuo folle essere contro. Dall’alto il campanile grigio e sottile della chiesa la barra per orientarti e mantenere la direzione. E, di notte, dopo una minestra d’aglio, quella ‘buona’ (è sempre l’ombra di Albert a parlare, qui conosciuto come Jean-Pierre), la finestra aperta e un ghiro che ti osserva con i suoi grandi occhi luminosi, ho scritto alcune delle pagine più belle di Inquieto Novecento e di Strade d’Europa. E, ancor prima, le esili paginette, Come fiori di ciliegio, in memoria di Mishima Yukio che si concludono, appunto on l’annotazione ‘Eremo di Sant’Agapito, 1999). Per divenire pubblicazione a più mani a cura degli amici di Raido.

Scriveva Adriano Romualdi (ritrovo il passo in Ricordo di Adriano, testimonianze raccolte dal padre Pino e che possiedo con dedica a Fede Arnaud, fondatrice del SAF della Decima MAS):

‘In linguaggio astronomico il solstizio d’inverno è il giorno in cui il sole tocca il punto più basso dell’ellittica, quasi come se si allontanasse e sprofondasse nella notte. All’epoca delle grandi glaciazioni, l’umanità di razza bianca rimasta sul continente europeo celebrava in questo giorno la morte e la resurrezione del sole. All’alba, dopo la notte più lunga dell’anno, fuochi a forma di ruota salutavano il sole invitto risorgente dall’abisso’.

Egli paragonava questo evento con la condizione vile e servile dell’Europa dopo il ‘45 e auspicava il momento della riscossa, l’inesorabile resurrezione… illuso, ma questa è altra storia. Fu suo tramite che imparammo a raccoglierci in luoghi isolati, aspri e in posizione elevata, intorno al fuoco, attenti e raccolti e partecipi per balzare verso la cresta, rivolti ad Oriente il braccio levato e i primi raggi del sole ad illuminarci. Sui monti Lepini, presso un vecchio fontanile e un edificio abbandonato e in rovina. Così la montagna mi offriva altro ed alto.

Trovo nel libro di Cassin, nelle prime pagine, ‘Le canzoni di montagna hanno quella certa cadenza per cui, se si è un po’ stonati, soddisfano sempre’. Vero. E noi, in quel magico momento, tra il calore del rogo e il gelo della notte si cantava ed erano belli i nostri canti e belli eravamo noi stessi e puri i nostri cuori. Memori di quanto ammoniva il Capitano, Corneliu Zelea Codreanu:

‘Per poter cantare occorre uno stato particolare dell’anima, un’armonia interiore… Sarà sempre il canto a stabilire il giusto criterio d’orientamento!’

e, in modo più compiuto:

‘Noi ci eravamo messi in marcia senza rimuginare in precedenza problemi, senza scervellarci notti intere su punti programmatici, senza accese discussioni durate ore e ore, senza profonde riflessioni filosofiche, senza riunioni di gruppo, ecc… Proprio perché avevamo lasciato da parte tutto questo, l’unica possibilità di manifestare il nostro stato interiore era il canto, e cantavamo quei canti che esprimevano appieno i nostri sentimenti, quei canti che ci davano forza…’.

Tentammo, anche qui illusi, perchè il demone della (bassa) politica travolse molti di noi, carriera e poltrone, sporcò molti di noi con usura e il denaro facile e corrotto, ci impantanò tra belle frasi intelletto libri simili a galletti tronfi nel pollaio… Eppure, fra questi libri, ritrovo il passo antico degli scarponi il sudore aspro l’erba calpestata la roccia spigolosa il freddo dell’inverno e la fiamma che disegna ombre da intendere quali sacri segni di divinità nascoste. E mi dico, forse di nuovo illuso, che non tutto s’è perduto…

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