12 Aprile 2024
Letteratura

Le possibilità di una scrittura: Michel Houellebecq – Stefano Eugenio Bona – Prima Parte

Le persone produttive funzionalmente per la nostra società sono una piccola classe di ingegneri e di tecnici. L’ideale sociale è solo questo: se è tecnicamente realizzabile, sarà tecnicamente realizzato.

(La ricerca della felicità)

In questa nostra trattazione prenderemo in esame tre momenti della produzione letteraria di Houellebecq: prima la poesia, poi i temi e l’humus del corpo dei suoi saggi e dei suoi romanzi e infine uno sguardo attento sull’ultima fatica, Sottomissione.

“Il poeta è un parassita sacro; simile agli scarabei dell’Antico Egitto, può prosperare sul corpo delle società ricche e in decomposizione. Ma ha ugualmente il proprio posto in seno alle società frugali e forti.”

I

Partiamo da una visuale abbastanza insolita, visto che i riflettori non sono certo per il lato aedico del Nostro. L’anarchico Houellebecq (non credo si possa parlare di anarca tout court) “rivendica” un ruolo marginale per il poeta (e quindi lo fa paradossalmente sopravvivere anche in una società che ne nega ogni funzionalità…): un parassita sacro per l’epoca in cui si situa. In-utile e adagiato sul ventre dell’ozio, come la sua poesia del quotidiano contrasto, con lo squallore del supermercato, della chat, della monotonia di un boulevard, degli sguardi bolsi dei passanti. Come poeta, il Nostro non porta seco quella carica dirompente, perché non ha spesso l’impeto veloce a collegare “mondi” e i rimandi intuitivi; si limita ad un fraseggio quasi corazziniano sugli avanzi del post-moderno, tra le macerie e le minuzie dell’io di eterni parvenu, sciatti mentecatti, bigotti, esistenzialismi tenui e viluppi di cascami borghesi. Questi i derelitti cittadini descritti con la perfezione dell’entomologo ghignante, questa la poesia dello sfibrarsi cittadino: “gli esseri umani che si incrociano al metrò Invalides/le cosce delle segretarie, il riso dei tecnici/gli sguardi che si lanciano come un combattimento di cani,/i movimenti che fanno attorno a un centro vuoto.”

Oppure un topos letterario incalzato dalla fanghiglia dell’esistenza, nelle coordinate dell’esserci, unitamente ad un tono espressionista alla Trakl, da luminoso abbandono alle forme ultime del trapasso: “L’agonia dei fiori è brutale/come il rovescio di un’esplosione,/l’avvizzire dei loro petali/fa pensare ai nostri stati di abbandono.// Sono cresciuto in mezzo a macchine da piacere/che attraversavano la vita senza amare, senza soffrire;/non ho rinunciato al mondo ideale/intravisto un tempo. E spesso sono stato male.//L’agonia dell’uomo è sordida/come una lenta crocifissione./Non si riesce a fare il vuoto;/si muore con le proprie illusioni.”

Al contempo vi è una linea di fuga, molto più che in Céline anche una porta aperta, un’auspicata risoluzione della realtà, via dalla miseria materiale, poiché:

“Il luogo in cui i nostri gesti si svolgono e si inseriscono armoniosamente nello spazio e suscitano la loro cronologia, il luogo in cui tutti i nostri esseri sparsi camminano affiancati e in cui è abolito ogni divario, il luogo magico dell’assoluto e della trascendenza in cui la parola è canto, in cui l’andatura è danza non esiste sulla Terra, ma noi camminiamo verso di esso.”

E ancora, per essere chiari sul fatto che la vivisezione sardonica dell’attuale non è la legge, ma una caduta, un qualcosa che manifesta l’avvertita assenza del mondo dei Numi: “È soltanto dopo parecchi giorni, parecchie notti di meditazione e di veglia/ che al centro dello spazio si rivela e prende forma qualcosa che somiglia a un sole…//…un punto la cui contemplazione prolungata conduce l’anima a un salto verso l’assolutamente identico.//Il nome di questo punto non esiste in alcuna lingua; ma da esso emanano la gioia, la luce e il bene.”

Nel vortice della sua ricerca non riesce ad approdare ad una visuale organica, la sua scrittura è confessione e segno di resa dopo il frammento in cui quasi agogna una ricerca metafisica e realmente fondativa, la sua inquietudine così lo fa esprimere: “Occidentale, sentimentale, primario, non riesco davvero a simpatizzare con il buddismo…In altri termini rimango un romantico, meravigliato dall’idea di volo (di puro volo, spirituale, distaccato dal corpo). Stimo la castità, la santità, l’innocenza; credo al dono delle lacrime e alla preghiera del cuore. Il buddismo è più intelligente, è più efficace; ciò non toglie che non riesca ad aderirvi.”

Ma c’è di più: persino la malinconia per la civilità dei padri, che ci ricorda un Emilio Praga…Accontentarsi di operare con il bisturi-penna non è per forza rinuncia all’Origine, nonostante l’Houellebecq in carne ed ossa sia la manifesta propensione per l’annichilimento; vi è questa scaturigine che si traduce in spleen macchiato di chiazze stinte d’idéal. Come in questi versi che sorprendono, pur da maneggiare con l’opzione a latere del sarcasmo, del doppio in ogni fissazione su carta: “Vogliamo ritornare all’antica dimora/ in cui i nostri padri sono vissuti sotto l’ala di un arcangelo,/ vogliamo ritrovare quella morale strana/ che santificava la vita fino all’ultimo istante.// Vogliamo qualcosa come una devozione,/ come una stretta di dolci dipendenze,/ qualcosa che superi e contenga l’esistenza;/ non possiamo più vivere lontano dall’eternità.”

II

La scelta primaria sarebbe davvero la poesia, perché l’autore la vede come il mezzo più naturale di tradurre l’intuizione di un istante (come tutte le poesie precedenti, l’affermazione è contenuta ne La ricerca della felicità, raccolta di poesie e articoli), invece nel romanzo quel che realmente conta è il montaggio delle parti: come al cinema, per sua stessa ammissione (riferendosi anche all’esperienza nei cortometraggi, ben prima di pubblicare). Urge qui trovare un mero tratto per unire, mentre la verità appartiene sempre al frammento. Nella dilatazione romanzesca il colpo d’occhio fulmineo sulla società guida sempre il lettore, e si rimane incantati dalla facilità con cui si dipana l’ordito; nella diegesi, nello sbocco distopico di cui si fa carico, nel menefreghismo, nella posa, nella prossemica, nel gesto sprezzante, l’assunzione di un comico traghettamento esistenziale rispecchia classicamente il grande baratro interiore; però si è refrattari a catalogare con il termine nichilista la genìa dei disillusi, dei grandi auto-emarginati. Poiché anche senza un impianto fondativo, in Hoellebecq c’è un’analisi del mondo contemporaneo talmente penetrante, da sbaragliare sociologi, politologi ed affini.

“Affondate il coltello negli argomenti di cui la gente non vuole sentire parlare. Il contrario del decoro. Insistete sulla malattia, l’angoscia, lo squallore. Parlate della morte e dell’oblio. Della gelosia, dell’indifferenza, della frustrazione, dell’assenza di amore. Siate abietti, e sarete veri”. In Rester vivant delinea i toni e la poetica del cinismo; il grande stile ottocentesco è sicuramente lontano, però per descrivere la vita vera, vissuta, della realtà contemporanea (lo hanno soprannominato anche il Baudelaire del Monoprix…), occorre l’affilatura estrema, come nel primo romanzo Estensione del dominio della lotta, ove a Véronique riferisce queste parole di Lacan: “Più spregevoli sarete e meglio andrà”. Questa frase che a suo dire delinea il programma di vita di una persona azzerata dalla psicanalisi: “Con l’alibi della ricostruzione dell’io, in realtà gli psicanalisti procedono a una scandalosa demolizione dell’essere umano. Innocenza, generosità, purezza…Tutto ciò viene rapidamente triturato dalle loro rozze mani…Meschinità, egoismo, arrogante ottusità, completa assenza di senso morale, cronica incapacità di amare: ecco il ritratto esaustivo di una donna analizzata”. I confessori laici che per Céline si masturbano il ben dell’intelletto giorno e notte…

Il lato che dall’esistenziale si sposta al letterario, per poi suscitare quesiti financo economici, è stato illustrato dal suo amico Bernard Maris, una delle vittime della strage nella redazione di Charlie Hebdo (e membro del consiglio scientifico di una delle associazioni che hanno dato vita al movimento anti-globalizzazione, Attac France). Questo il trittico per comprendere l’accerchiamento della vera libertà individuale, questi i tre nomi citati da Maris per respirare tra i veleni: “Come leggendo Kafka comprendete che il vostro mondo è una prigione e, leggendo Orwell, che il cibo che vi ammanniscono è la menzogna, leggendo l’aspetto economico di Houellebecq saprete che il vischio che frena il vostro passo, vi rammollisce, vi impedisce di muovervi e vi rende così tristi e così tristemente pietosi è di natura economica”. Come sono riempiti i grandi vuoti dell’homo oeconomicus? Senza dubbio con sesso meccanico, ripetitivo, con l’illusione della “trasgressione”. Le dinamiche dell’uomo nei romanzi di Houellebecq sono in “una ricerca della felicità” cieca che non sarà mai tale: un semplice farmaco, una cauterizzazione di un disastro spirituale. Sono soddisfazioni di un lampo, panacee che fanno in realtà rimanere i personaggi come in un torpore perenne; Houellebecq è un maestro nell’illuminare la scena di un lezzo di morte, proprio nella catena di montaggio e nel suo contraltare e sbocco finale: l’edonismo degli attimi di godimento fugace. Tutto talmente illusorio da andare oltre: a chi non riesce a procacciarsi le forme istantanee di piacere, si suggerirà altro: come succede in Estensione del dominio della lotta, il primo romanzo. Qui Tisserand, l’animale omega viene spinto “quantomeno” ad uccidere (senza poi effettivamente farlo, anzi morendo poco dopo) da parte del narratore, che gli suggerisce di compiere almeno un atto in cui si può considerare vincente, poiché l’”estensione del dominio della lotta” (prima economica e poi sessuale) lo esclude. Il sussulto da bestia ferita a morte, la voglia di riscatto di chi non riesce a rientrare nei rituali della società, pur volendovi partecipare, è dettato da questo scenario, da questo libero gioco tra le parti:

“Il capitalismo liberale ha allargato la propria presa sulle coscienze; di pari passo sono andati affermandosi il mercantilismo, la pubblicità, il culto bieco e grottesco dell’efficienza economica, l’appetito esclusivo per le ricchezze materiali. Peggio ancora, il liberalismo è passato dal campo economico al campo sessuale. Tutte le convenzioni sentimentali sono andate in pezzi…Oggigiorno il valore di un essere umano si misura tramite la sua utilità economica e il suo potenziale erotico: cioè esattamente le due cose che Lovecraft detestava più di ogni altra cosa.” Questo è un estratto da una delle prime opere, che sempre avrà un posto particolare: il tributo a Lovecraft, ove pone la quidditas già nel sottotitolo: “Contro il mondo, contro la vita”…I due fattori che il solitario di Providence detestava, sono le leve di questo mondo. In una vecchia intervista con Gian Paolo Serino, così invero la chiosa personale dello scrittore francese: “Non ho in odio la vita, ma l’organizzazione della vita”. H.P. Lovecraft. Contre le monde, contre la vie, Rester vivant e Interventions, si presentano come dei testi fondamentali per la comprensione della sua opera romanzesca. Le prime nuances della sua letteratura anti-umanistica e del suo titanismo nichilista: la dilatazione romanzesca viene dopo, qui c’è già il riflesso condensato di tutta la sua anima, il veicolo di tutto il suo universo narrativo. Nella prefazione, Houellebecq dichiara “di aver fatto esplodere l’impostazione del racconto tradizionale tramite l’utilizzo sistematico di termini e concetti scientifici”. In Lovecraft questo provoca un effetto di realtà concreta, di presenza ossessiva e opprimente, a cui segue una dilatazione “non esattamente letteraria” e un tipo di terrore «oggettivo», carattere che rende il suo fantastico unico e fisso. Houellebecq invece, sfrutta i concetti e il vocaboli scientifici come traduzione di alcuni aspetti fluidi del vissuto tragico, per divertissement e al contempo per dare ancor più il senso dell’ineluttabile (è il caso soprattutto in Les particules e in La possibilité d’une île). Il cinismo scoperchia l’orizzontalità del vivere, non giustifica niente, mentre le nozioni scientifiche sono spiegazioni funzionali, come elementi del tragico houellebecquiano, unitamente al determinismo stoico, alla nudità del sospiro della specie. Ecco un esempio da Le particelle elementari, la scena è tra Bruno e Christiane, nel campeggio: “Non ci siamo mai rivolti la parola…Non c’è stata nessuna componente di seduzione, è stato qualcosa di purissimo”. – “È per via dei corpuscoli di Krause..” Christiane sorrise. “Perdonami, il fatto è che insegno scienze naturali…Lo stelo del clitoride, la corona e il solco del glande sono rivestiti di corpuscoli di Krause, ricchissimi di terminazioni nervose. Quando vengono sollecitati, liberano nel cervello un potente flusso di endorfine. Gli uomini e le donne hanno il glande e il clitoride rivestiti di corpuscoli di Krause – in numero pressoché identico, visto che almeno in questo siamo uguali; ma c’è dell’altro, come tu ben sai. Io ero molto innamorata di mio marito. Gli carezzavo e gli leccavo il sesso quasi con venerazione; amavo sentirlo dentro di me. Ero fiera di provocare le sue erezioni, avevo una foto del suo sesso eretto e la conservavo nel portafoglio: per me era come un santino. Dargli piacere era la mia gioia più grande. Mi ha lasciato per una donna più giovane. Poco fa ho capito che la mia fica non ti attirava davvero; comincia a essere la fica di una donna vecchia. Nell’età avanzata, la diminuzione del collagene e la frammentazione dell’elastina durante le mitosi fanno progressivamente perdere ai tessuti la loro compatezza e la loro elasticità. A vent’anni avevo una vulva molto bella; oggi, mi rendo conto che le grandi e le piccole labbra sono un po’ cascanti.”

Dunque uno scetticismo in primis scientifico, poi empiricamente testato nella carne e nel sangue della società, infine traslato in letteratura. La corrosività non è soltanto figlia di un particolare taglio chirurgico, ma risiede nell’opposizione quotidiana al mondo dei tubi digerenti, ovvero l’ombra di Céline. Lo scontro successivo è sull’impossibiltià di trar fuori senso, la certezza della catastrofe; il Nostro porta le stigmate di un travaglio e la letteratura è il suo modo per non implodere: Cioran. Il solitario di Providence è quella proiezione che medica le vicende tra i propri simili. Nella misantropia c’è più amore di quel che si crede, un rivolo di ricerca in cui si cerca l’uomo. “Cerco l’uomo! Cerco l’uomo!”…Houellebecq, con la lanterna accesa, potrebbe forse continuare ad approfondire dopo aver visto di cosa si accontenta l’uomo meccanico? Quando contrappunta la narrazione con torniti appunti sui mezzi usati, piuttosto che sui capi d’abbigliamento, sulle marche di un vino o sulla scelta di un’abitazione, è sempre per la finalità assertiva, pertinente al campo dei bisogni soddisfatti. Primari o divenuti tali…Come se tutti gli altri si risolvessero nella scarica stessa di appagamento…Non c’è da micragnarsi oltre, nel dare le coordinate della piccola eudemonia moderna. La felicità materialistica è tutta lì.

Nichilismo vorticante e vitalismo amaro, lieto e acido movimento della ragione che non impone i nomi (Cusano) ma constata il tempus fugit: la vita comicia a cinquant’anni, è vero; a parte che finisce a quaranta (La possibilità di un’isola). Quando si vuole trovare un artifex e non un mero compilatore di dati da analizzare, in letteratura ci si dovrà sempre guardare da tutto ciò che non ha l’aura del vissuto tragico, soprattutto se si cerca lo sguardo sulla collettività. Perché il decifratore delle pozze di senso è equiparabile a chi traccia la storia superna degli avvenimenti? Ci viene incontro l’Hugo dei Miserabili: “nessuno è buon storico della vita patente, visibile, manifesta e pubblica dei popoli se non è in pari tempo, in certa misura, storico della loro vita profonda e nascosta, come nessuno è buon storico dell’interno se non sa essere all’occorrenza storico di quanto sta al di fuori….E poiché la vera storia si mescola a tutto, anche il vero storico si occupa di tutto. L’uomo non è un cerchio a un sol centro, ma un’ellisse a due fuochi, di cui l’uno sono i fatti, l’altro le idee”.

Chi inquadra i suoi romanzi in un’ottica meramente adeguata agli eventi dei tempi è però fuori strada. Lo scrittore qui adempie ad un compito ben più arduo, rispetto al giornalista d’attualità: si prende carico di un tracollo e lo descrive senza rigiri consolatori. Si va fino in fondo nel tastare l’odeur de la merde, nella tradizione antiumanistica di Céline. Da qui la traduzione dell’emozione del quotidiano come fosse l’unico setaccio, l’unica operazione che ci restituisce la freschezza dell’esistere: piccoli edonismi soddisfatti, grandi deserti spirituali. L’argot dell’immediato non è come in Céline la “gioia” dell’incoerenza da sottolineare coi tre puntini (simbolo d’indeterminatezza d’ogni proposito), ma comunque poetica del quotidiano che si sussume in un ghigno e in una rinunzia a seguitare a combattere: pilastri già decaduti che colgono le ultime testimonianze prima di scomparire. Quindi la nausea in senso tutt’altro che sartriano, ovviamente, la disperazione di chi non si attende più nulla, un forsennato, una molla.

Per ritornare all’Houellebecq poeta, possiamo fare qui una grande differenza, visto che si accomunano spesso i due scrittori: dai versi traspare pur una nostalgia, forse un anelito verso la distruzione come nuova ri-creazione, mentre in Céline non esistono fiochi barbagli di ritorno, il bipede è da mettere sul banco degli accusati, e tradurre la vita vera è arrivare ad osservare un confuso ammasso di trapassi e tentativi svuotati d’ogni finalità. L’asse del mondo è la sua stessa irriproducibilità tecnica; dall’inizio fino alla Trilogia del Nord l’allucinazione della sua scrittura ribolle d’una serie di immagini eternamente prive di senso, come balletti improvvisati e privi di un palco, abbozzati ognuno nella strada della propria solitudine. “Ognuno è solo” e anche irrimediabilmente privo di un copione, tutto è improvvisazione…Per Houellebecq, comunque l’uomo contemporaneo porta l’ansia d’infinito nel suo fondo, ma della legge kantiana rimane lo specchiarsi d’un vuoto interiore nei confronti del cielo stellato, fugata ogni legge morale interna…Vi è all’esterno l’urgenza di un piano regolatore, d’ordine superiore al gioco libero del mercato. In questo labirinto, la somiglianza con Céline è la camaleontica cavalcatura di tutto, senza indossare niente, che non declina in una potestà superiore ma in un ripegamento esistenziale.

Semi spuri di un sentimento d’abbandono dis-incarnato e dis-incantato dalla propria individualità si trovano in tutta la sua produzione, come in questo passaggio de La Carta e il Territorio: – “Tutto ciò che non è nulla è kitsch” “In fondo, è una questione di grado,” riprese. “Tutto è kitsch, se vogliamo. La musica nel suo insieme è kitsch; l’arte è kitsch, la letteratura stessa è kitsch. Ogni emozione è kitsch, praticamente per definizione; ma anche ogni riflessione, e in un certo senso persino ogni azione. La sola cosa che non sia assolutamente kitsch è il nulla”. Chiaramente la ricerca di un punto zero, declinata in una teologia negativa per nichilisti o in una tensione naïf verso il trascendente? Quando si approfondisce uno scrittore del genere, siamo come di fronte ad una terapia d’urto: troppo potente l’impatto con i nervi scoperti della zattera disanimata chiamata Occidente, troppo affilata la penna per non destare qualche interrogativo nascosto.

III

In Piattaforma accanto alla descrizione dell’industria del turismo sessuale con cui l’Occidente espande, sempre come nella teoresi lovecraftiana, il gioco del libero mercato, in una dimensione mercificante dei rapporti umani, il protagonista scorge pur una luce, unica nell’opera complessiva di Houellebecq: quella dell’amore. Valérie è un essere che ha la capacità di dedicare la propria vita alla felicità di qualcuno, poiché è l’unico personaggio che riesce ad operare un patto totale, non un arido scambio di solitudini, come nel resto dei rapporti umani descritti. Sul finale si rende conto che l’esistenza può qui aver il suo punto di sutura, dopo la scelta di restare in Thailandia: “era difficile credere che una società popolata di individui del mio genere potesse sopravvivere a lungo: io invece potevo sopravvivere grazie a una donna, una donna da amare e rendere felice…”. E in quell’istante di felicità idilliaca…Il suono del mitra…Valérie crivellata alla gola e al petto…L’esplosione assordante del centro ricreativo sotto i colpi dei terroristi islamici…Eclissare l’unico momento di riscatto equivale financo ad esprimere la convinzione di un’irrimediabile caduta, persino da accelerare.71FOImoJMHL

Anche questo elemento è già tutto in potenza nel primo romanzo (Estensione del dominio della lotta): l’amore come chiave per comprendere il delirio degli alienati di una casa di cura dove si ricovererà il protagonista…Iperbole o constatazione parziale? Fine intuito delle dinamiche occulte dietro i depressi e gli angosciati, probabilmente: “A poco a poco nella mia mente si formò l’idea che tutte quelle persone – uomini e donne – non fossero affatto disturbati, bensì, molto semplicemente, avessero bisogno di amore…”. D’altronde per autodiagnosticarsi la depressione, al protagonista basterà questa affermazione, ritenendo inutile ogni conforto della psicologa: “Vede, noi viviamo in un mondo enormemente semplice: da un lato c’è un sistema basato sulla dominazione, sul denaro e la paura – un sistema decisamente maschile, che chiameremo Marte; dall’altro c’è un sistema femminile basato sulla seduzione e sul sesso, che chiameremo Venere. È davvero possibile vivere e credere che non ci sia altro? Insieme ai realisti delle fine del XIX secolo, Maupassant ha creduto che non ci fosse nient’altro; e questo lo ha condotto alla pazzia furiosa”. La replica della psicologa verte sulle cause apparenti: “La follia di Maupassant era soltanto uno stadio dello sviluppo della sifilide. Tutti gli esseri umani normali accettano i due sistemi di cui lei parla.” – “E invece no. Se Maupassant è diventato pazzo, è stato perché aveva un’acuta consapevolezza della materia, del nulla e della morte – ma non ne aveva di nient’altro. Simile, in questo, ai nostri contemporanei, egli stabiliva una separazione assoluta tra la propria esistenza individuale e il resto del mondo”.

In questa sinossi di tutta l’opera posteriore, che è il primo romanzo stesso, il quadro in due righe: ”Il liberalismo economico è l’estensione del dominio della lotta, la sua estensione a tutte le età della vita e a tutte le classi della società. Altrettanto, il liberalismo sessuale è l’estensione del dominio della lotta, la sua estensione a tutte le età della vita e a tutte le classi della società. Si può vincere su un fronte e perdere sull’altro, vincere su entrambi, perdere su entrambi”. “Dal canto mio, non vedevo perché la sessualità dovesse essere esclusa dall’ambito dell’economia di mercato. Di modi per guadagnare soldi ce n’erano diversi, onesti e disonesti… Europeo benestante, per pochi soldi potevo acquistare in paesi stranieri cibo, servizi, donne; europeo decadente, conscio dell’imminenza della mia morte, e da sempre nutrito di egoismo, non vedevo alcuna ragione per negarmi tale opportunità. Ero tuttavia consapevole del fatto che la situazione non poteva durare, che quelli come me non erano in grado di garantire la sopravvivenza di una qualsivoglia società, ovvero, molto più semplicemente, che non erano degni di vivere…” – Queste le riflessioni del protagonista, visitando le rovine di Ayutthaya: “ la volontà di potenza esiste, e si manifesta in forma di storia; di per sé essa è radicalmente improduttiva.” – Il sarcasmo e la leggerezza: “mi figurai Chateaubriand gironzolare filmando il tutto con una Panasonic, fumando una sigaretta dietro l’altra – probabilmente più Benson che Gauloises Légères. Quella religione così radicale avrebbe leggermente modificato le sue posizioni; quantomeno avrebbe attenuato la sua ammirazione per Napoleone. Gli avrebbe consentito di scrivere un eccellente Il genio del buddismo.”

Passaggi di grande humour nero, in Piattaforma: le descrizioni degli spettacoli comici, fanno il verso all’uomo di spettacolo elemosinante e tronfio. Ovvero la trasformazione di tragedie in patè con cui ammansire le folle. Dal protagonista (comico di grande successo) le religioni del Libro venivano messe su un piano di parità, livellate e cotte in soda caustica, con sketch farciti di allusioni pesanti ed una ferocia verbale ben definita: “sempre sviluppavo naturalmente durante tutto lo show una vena anarchica di destra, del genere – un combattente messo fuori combattimento è un coglione di meno, che non avrà più l’occasione di battersi -, che da Céline a Audiard, aveva già reso celebre la comicità francese; ma inoltre, riattualizzando l’insegnamento di San Paolo secondo il quale ogni autorità viene da Dio, mi innalzavo talvolta fino a una meditazione cupa che ricordava l’apologetica cristiana. Lo facevo naturalmente eliminando ogni nozione teologica per sviluppare un’argomentazione strutturale e di natura quasi matematica, che poggiava particolarmente sul concetto di buon ordine. Mai la mia comicità si era librata così in alto (o non era mai caduta così in basso, era una variante, ma significava pressapoco la stessa cosa); mi vedevo spesso paragonato a Chamfort, addirittura a La Rochefoucauld”.

Stefano Eugenio Bona – Prima Parte

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