18 Luglio 2024
Jus Greco-Romano

La nascita dei diritti reali e la comproprietà nel diritto greco antico e nel diritto romano arcaico – Giuseppe Chiàntera

Introduzione

L’archetipo storico dei diritti reali è il diritto di proprietà, consistente nel potere di escludere i consociati da qualsivoglia attività di utilizzazione di un bene, e quindi, in pratica, nel potere di godere  e di disporre illimitatamente del bene stesso. Si considerano rapporti giuridici reali i rapporti giuridici assoluti che avessero per oggetto una res in senso lato (cosa inanimata, animale, schiavo).  Una possibile vicenda del diritto di proprietà era che esso potesse spettare a più titolari insieme (comproprietà). In tal caso ciascuno dei titolari poteva esercitare tutti i poteri sul bene, concretando l’unico diritto. Riconosciuta sul piano logico e storico la comproprietà, è agevole il passaggio alla ulteriore concezione secondo cui alcune determinate facoltà del proprietario possono essere separate, in perpetuo o a tempo, dal tutto per essere attribuite ad altro soggetto attivo; il che implica l’effetto di costituire a favore di questo secondo soggetto un diritto reale, sia pur limitato a specifiche facoltà di utilizzazione, diritto che egli può far valere contro tutti i consociati, compreso il proprietario. La differenza tra i rapporti giuridici reali limitati e quello di proprietà sta in ciò: mentre i primi sono per definizione circoscritti a determinate facoltà (anelastici), il secondo presenta la caratteristica della elasticità, cioè dell’attitudine a ricomprendere automaticamente ogni facoltà di esercizio che gli sia stata resecata non appena venga ad estinguersi il relativo diritto reale limitato.

 

Il diritto di proprietà e comunione dei beni nel diritto greco antico.

Lo studio del diritto greco antico (attico), secondo parte della dottrina[1],  è stato falsato ad opera degli studiosi del diritto romano, i quali partivano dal presupposto che le categorie entro cui si voleva inquadrare il diritto romano fossero applicabili a qualunque ordinamento giuridico, e che fra i vari diritti dell’antichità esistessero stretti legami.

Questa tesi, per la richiamata dottrina, si è rilevata ad una più attenta analisi quasi inesistente.

A differenza del sistema giuridico romano, agli ordinamenti greci antichi si adatta molto di più la dottrina istituzionalista che non quella normativistica.  Infatti, il diritto attico, e in particolare quello di Atene, considerato come paradigma del diritto di una polis, presenta stratificazioni di ordinamenti diversi.

Bisogna comunque tenere presente che nell’ordinamento delle città attiche, accanto al diritto proprio della polis, esisteva un diritto sacrale, indipendente dall’ordinamento della città-stato e preesistente ad esso, e un diritto familiare, il quale, antecedente all’istituzione della polis, ha origine dal rapporto fra i membri della famiglia e tra le famiglie stesse.

Questo diritto familiare si distingueva in un diritto familiare interno, che disciplinava i rapporti dei membri della famiglia, le sorti del patrimonio familiare e il culto, ed in un complesso di rapporti consuetudinari vigenti ab inizio fra gruppi familiari diversi[2].

Per quanto riguarda il diritto di proprietà, bisogna tener presente che presso i Greci manca una nozione specifica di proprietà, che è una conquista peculiare della giurisprudenza romana. Essi concepivano la proprietà nei termini di un possesso momentaneamente libero da pretese altrui[3] ; di guisa che, mentre alla stregua del diritto romano classico, o si è proprietari o non lo si è, secondo il ricorrere o meno di certi requisiti obiettivi, per i Greci, all’opposto, una medesima persona nella medesima situazione sarà proprietaria di una cosa se non vi siano altri pretendenti dotati di un diritto più forte al possesso, e, viceversa, non lo sarà se il suo diritto di possedere sia deteriore rispetto a quello di qualche altro pretendente.

 

La nascita dei diritti reali nel diritto romano arcaico.

Nel sito della futura città di Roma, nel periodo che va dal 1050 all’ 870 A.C., accanto al nucleo abitativo insediato sul Campidoglio (Saturnia), vi è la comparsa di un nuovo insediamento nella zona del Comizio, probabilmente presso la fonte del Tulliano (Carcere Mamertino). Sul Palatino i nuclei abitativi del Cermalus e Palatium insediano la zona a valle presso la fonte di Diuturna, zona precedentemente dedicata alla sepoltura (tombe a incinerazione).  La zona del Velabro (San Giorgio a Velabro, Arco di Giano) è, invece, rimasta come luogo di sepoltura. Da qui l’immagine del Velabro come palude infernale.

Per quanto riguarda la Velia (Chiesa di Santa Francesca Romana), non si hanno ancora reperti che attestino la presenza di insediamenti anteriori all’ottavo secolo A.C..

In questa epoca, trascorso il tempo di Saturno[4], caratterizzato dall’assenza di leggi e dalla proprietà comune, cioè dall’assenza di assegnazione durevole della terra resa possibile dalle semine che si rinnovano ogni anno, sembra svolgere un nuovo ruolo l’arboricoltura, forma sviluppata di coltivazione che dovette per la prima volta implicare un controllo stabile della terra da parte di primissime famiglie gentilizie pre-urbane, reso necessario dalla crescita lenta delle piante e dal conseguente sfruttamento graduale e di lunga durata degli alberi e degli arbusti.[5]

Da qui la necessità per le grandi famiglie dedite all’arboricoltura di poter disporre di confini certi, segnati da pietre terminali riconosciute dalla comunità e considerate inamovibili. Le prime pietre terminali stanno ad indicare l’emergere del primo concetto di inviolabilità dei confini e di sanzione[6]; quindi di una primissima forma di diritto e di sovranità.  Questo insieme di circostanze implica una organizzazione comunitaria più avanzata.  Ad una agricoltura più sviluppata deve aver corrisposto una pastorizia più rispettosa delle coltivazioni e una più specializzata produzione casearia.

Le circostanze descritte segnano un salto di qualità nel processo di civilizzazione.   In questo periodo, infatti, si conoscono coltivazioni pregiate, confini certi, una pastorizia più progredita e, conseguentemente, prime forme di possesso stabile della terra da parte di grandi famiglie, quelle che controllavano la redistribuzione delle terre.

In  questi tempi arcaici, il possesso era un diritto sovrano sul territorio inquadrato in un ordine sociale che era compreso nel più vasto potere del pater. [7]

La successiva fondazione dello Stato (Città di Roma) non ha alterato il diritto interno della famiglia e ha lasciato perdurare l’esclusività del dominio e la tendenza alla piena libertà del fondo, espressa nel limitato numero delle servitù rustiche[8].

A questa assoluta indipendenza arcaica del pater vanno ricondotti, al tempo della nascita della città,  il principio della libertà del potere di disposizione dei beni, la non natura reale dell’enfiteusi e della superficie, la tipicità delle servitù e la non conoscenza degli oneri reali.[9]

Successivamente, alla fine dell’età regia, alla proprietà fondiaria sono stati talvolta congiunti doveri di natura pubblicistica, che dimostrano come lo Stato iniziasse a subordinare i diritti dei privati a fini di interesse generale.

 

 La comproprietà familiare e la comproprietà iure civili nel diritto greco antico.

Agli inizi della sua storia giuridica, in una comunità la terra può essere sottoposta sia al regime della indivisione che a quello della proprietà privata. Aristotele nella Politica[10] riporta tre esempi di indivisione della terra diffusi presso i popoli antichi.

Un primo esempio può essere dato dalla terra divisa in modo che ciascun gruppo possa coltivare un appezzamento, mettendo in comune i prodotti  per la consumazione.

In secondo luogo, è possibile che la terra venga coltivata in comune e i frutti vengano divisi tra gli appartenenti dei gruppi.

Infine, può avvenire che la terra sia coltivata in comune e sempre in comune vengano consumati i prodotti.

In antica Grecia, secondo alcuni autori[11] vi era la situazione in cui la terra, pur restando di pertinenza della collettività, veniva divisa ed assegnata a ciascun gruppo familiare per la coltivazione; gruppo familiare che, poi, consumava i prodotti della terra assegnatagli.

Il fatto che, secondo il citato autore, ci fossero divisioni ed assegnazioni di lotti di terreno, consente di escludere che in antica Grecia vigesse il regime di comunione attuato attraverso la coltivazione in comune [12].

Comunque, risulta ancora incerto quale fosse il diritto che il gruppo, e per esso il suo capo, acquistava sul territorio assegnato;  cioè, se si trattasse di un semplice diritto di godimento revocabile o invece di un vero e proprio diritto di proprietà.

Probabilmente, secondo alcuni,[13]  i beni mobili e in particolare gli effetti personali sarebbero rientrati nella sfera di disponibilità dei singoli individui; i beni immobili, viceversa, almeno in epoca remota, sarebbero appartenuti alla collettività, che avrebbe potuto a suo piacimento sottrarli agli assegnatari.

In seguito, in una fase successiva, si sarebbe riconosciuto al gruppo familiare un diritto più forte, che potrebbe essere qualificato come diritto di proprietà familiare.[14]

Infine, vi sarebbe stata una terza fase nella quale sarebbe stata ammessa la possibilità che ai singoli individui di diventare titolari di un vero e proprio diritto di proprietà sugli immobili.[15]

Esaminiamo, ora, più da vicino, il fenomeno della comproprietà familiare.

In antica Grecia, il gruppo familiare si identificava con il suo capo. Nei rapporti esterni costui era considerato l’unico titolare del diritto di proprietà; nei rapporti interni, invece, il patrimonio era considerato di proprietà dell’intero gruppo.   Le fonti, comunque, ci mettono di fronte a numerose altre ipotesi in cui il diritto di proprietà appariva fissato in capo a due o più soggetti, dando luogo al fenomeno vero e proprio della comproprietà.[16]

Le fonti, infatti, attestano l’esistenza della comproprietà fraterna o parentale. Questa si verificava quando, alla morte del padre, gli eredi non manifestavano l’intenzione di procedere alla divisione dei beni facenti parte del gruppo familiare.[17]  Era poi possibile che due o più persone fossero comproprietari di singoli immobili ovvero di cose mobili di vario genere.

Infine, a differenza del diritto vigente in antica Roma, il diritto greco ammetteva la proprietà per parti materialmente distinte di uno stesso fondo e la divisione di uno stesso immobile per piani orizzontali o verticali.

Erano, inoltre, oggetto di comproprietà i beni appartenenti alle associazioni, che il diritto greco non arrivò mai a personificare, e il cui patrimonio, pertanto, era considerato proprietà di tutti gli associati, nonché ancora le parti indivisibili degli immobili oggetto di comproprietà pro diviso.

In ultimo, secondo una autorevole dottrina,[18]  si usava ricorrere con notevole frequenza alla comunione di capitali per esigenze di carattere commerciale.

In merito al regime giuridico della comproprietà, il diritto greco antico prevedeva due figure: quella della comproprietà solidale, che sta alla base della comproprietà familiare e di tutti i tipi di comproprietà ad essa ispirati, e quella della comproprietà per quote, che sta alla base della  comproprietà a scopi commerciali.   La comproprietà solidale si caratterizzava per il fatto che ciascun proprietario era considerato titolare dell’intero diritto di proprietà, e poteva compiere pertanto qualunque atto di disposizione, sia giuridica che materiale, della cosa. Ciò vuol dire che ogni partecipante poteva non solo servirsi dei frutti sino al soddisfacimento dei sui bisogni, ma anche alienare validamente la cosa, donarla o costituire su di essa diritti reali di garanzia.

Tutti gli altri comproprietari potevano opporsi all’atto compiuto da uno dei comproprietari, reagendo con una intimazione a non agire, fatta alla presenza di testimoni.

In questo caso, all’intimato si presentava un’alternativa: obbedire all’intimazione, astenendosi dal compiere l’atto o investire l’organo giurisdizionale del potere di decidere sulla opportunità dell’atto stesso.

Al regime di comproprietà solidale descritto, si contrapponeva la comunione di capitali.  In questa figura giuridica appariva funzionante in pieno il criterio della quota, che è l’inverso della solidarietà dominante nella comproprietà dei beni infungibili.

Rientrava in questo tipo di comunione il regime delle parti indivisibili dell’immobile nella communio pro diviso. Tale comproprietà, infatti, doveva essere disciplinata in tutto e per tutto come proprietà di quote afferenti alle porzioni materiali dell’immobile in rapporto alla loro entità. Infatti, negli atti di alienazione delle parti materiali, in cui l’immobile era suddiviso, veniva indicato spesso con una frazione matematica il diritto sulle parti accessorie indivisibili, con il conseguente trasferimento della proprietà sulle porzioni distinte.

La comunione si poteva sciogliere in due modi:  per accordo o per sentenza.

Alla divisione stragiudiziale i contitolari della proprietà  di una cosa o di un complesso patrimoniale potevano ricorrervi in qualunque ipotesi di condominio.

Per quanto riguarda la divisione per atto processuale, occorre distinguere se fra le parti vi fosse controversia intorno all’appartenenza del diritto o soltanto un conflitto di interessi circa il miglior modo di giungere alla determinazione delle porzioni materiali da aggiudicare ai singoli condividenti.

Nel primo caso, bisognava intentare un processo di rivendicazione parziale o di assegnazione di parte della coeredità; nel secondo caso, si ricorreva alla giurisdizione volontaria, anche se il procedimento incominciava con una citazione orale di colui o di coloro che assumevano l’iniziativa della divisione giudiziaria nell’interesse comune.

 

Il mancipium e lo sviluppo della proprietà nel diritto romano arcaico.

Nel diritto privato romano, il rapporto giuridico di proprietà prese il nome di dominium ex iure Quiritium. Il dominium derivò dall’antico mancipium familiare, cioè dal rapporto giuridico assoluto costituito a favore del pater familias sugli elementi della familia, il microrganismo politico-economico costituito da uomini liberi e schiavi, animali e cose materiali.

Quando i membri liberi della famiglia si furono separati dalle res in  senso lato, il mancipium rimase limitato a queste sole, che si dissero, ancora ai tempi delle XII tavole, familia o res mancipi.

Senonchè, con l’intensificarsi della vita economica, si accrebbe la ricchezza privata ed i patres si trovarono ad avere in piena disponibilità nuove categorie di beni che non erano quelle tradizionalmente rientranti nel concetto di famiglia. Si ritenne, pertanto, che su questi altri beni (cd: pecunia o res nec mancipi) i patres avessero un diritto soltanto analogo al mancipium. Più tardi ancora, ogni diritto assoluto relativo a res, sia mancipi che nec mancipi, fu unificato nel concetto di dominium ex iure Quiritium.

Quindi, nel sistema del ius civile il dominium ex iure Quiritium era un rapporto giuridico assoluto e illimitato, avente ad oggetto qualsiasi res animata o inanimata, inoltre, Il dominium ex iure sin verso la fine del III secolo D.C. era esente da tributi [19]

Il concetto di sovranità (manus) comprende, insieme all’elemento potestativo del comando, anche quello della protezione e si adegua al carattere ed alla funzionalità del gruppo, all’organizzazione ed agli elementi religiosi che vi si riconnettevano.   Questo dominio (mancipium) esprime il concetto di una attribuzione esclusiva dell’oggetto al soggetto, cioè il concetto di appartenenza.

Di fronte al concetto di mancipium si deve essere affermata, sin dai tempi antichi, una  disposizione di carattere economica della resRes era considerato quel bene che presentava un utile e a cui fosse riconosciuta la possibilità di essere oggetto di attribuzione strumentale ai fini umani. Questa attribuzione per lo sfruttamento economico ha rappresentato la prima forma di proprietà.[20]

Per intendere i particolari caratteri della proprietà romana occorre considerare la stessa in rapporto alla natura originaria del gruppo familiare, che era una piccola comunità sovrana al comando di uno solo, padrone delle persone e delle cose, con un piccolo territorio chiuso ad ogni estranea ingerenza e con un suo patrimonio di schiavi e di animali da lavoro. Pertanto la proprietà romana fu signoria assoluta, la quale non ebbe dapprima altri limiti che in motivi di religione, di tutela della indipendenza reciproca dei fondi e di interessi pubblici.[21]

La proprietà romana assorbiva necessariamente tutto ciò che comunque in essa s’incorporava, perché, data la sua assolutezza e la sua autonomia, non era immaginabile che altri si potesse affermare proprietario di una parte della cosa stessa.

 

Il consortium e la communio.

Nella Roma arcaica la prima manifestazione del fenomeno della comproprietà era rappresentata dal consortium.  Esso si costituiva automaticamente alla morte del pater familias tra i discendenti soggetti alla immediata potestas del defunto.

In questa figura giuridica arcaica, ciascun consorte poteva, pure senza il consenso degli altri, sia gestire e fruire delle cose comuni sia alienarle.  Poteva, comunque, disporre per l’intero, con effetti verso tutti gli appartenenti al consortium;  quindi, ciascun partecipante alla comunione era considerato proprietario dell’intero.

A partire dalle XII tavole, attraverso l’actio familiare erciscundae si realizza la divisione del consortium.

Tra gli estranei, invece, ai sensi della lex-Licinnia, la procedura per addivenire alla divisione era l’actio communi dividendo.   Infatti, anche tra gli estranei si poteva costituire il consortium mediante il ricorso ad una legis actio.

Vi era anche un altro tipo di comproprietà: la communio. Essa poteva essere volontaria o incidentale. la communio volontaria si costituiva per volontà degli stessi comproprietari; quella incidentale si costituiva prescindendo dalla volontà dei partecipanti alla communio.

In questa figura giuridica, a differenza del consortium, ciascun partecipante era titolare di una quota ideale del bene.   Infatti, i Romani, muovendo dal principio della impossibilità che più persone avessero per intero la piena signoria sopra la stessa cosa, affermavano che la cosa comune apparteneva  ai condomini non nel senso che fosse per intero di ciascuno di essi, né nel senso che di loro fossero parti materiali della cosa, ma nel senso che tutta la cosa era dei condomini per parti indivise.  E la parte indivisa non era che una  concezione giuridica per rappresentare il limite di ogni singolo diritto di proprietà, determinato dalla concorrenza degli altri diritti.

I Romani, dunque, ammettevano che a ciascun condomino spettasse un diritto di proprietà, limitato ad una parte intellettuale della cosa dalla concorrenza degli altri diritti.

La natura del condominio come pluralità di diritti di proprietà sopra una cosa è confermata dai frammenti di Gaio. Ma una più sicura conferma offrono le norme che regolavano il diritto di accrescimento fra condomini.

Questo diritto è attestato dalle fonti per il caso di abbandono della sua parte, fatto da uno dei condomini. Quanto alla manomissione, se uno dei condomini manometteva nelle forme prescritte il servo comune, perdeva la sua parte e lo schiavo diventava tutto, per diritto di accrescimento, dell’altro condomino; vale a dire che il diritto di proprietà di costui era stato limitato dal concorso del diritto di proprietà dell’altro e che, estinto il diritto concorrente, si espandeva nella sua pienezza

Nella communio il comproprietario poteva, senza il consenso degli altri, alienare la propria quota, ma nulla di più; poteva su di essa costituire usufrutto e pegno; partecipava alle spese nella misura corrispondente alla sua quota e, nella stessa misura, faceva suoi i frutti; pure pro quota rispondeva dei danni che la  cosa comune avesse provocato a terzi.

L’eco del regime dell’antico consortium si coglie nella regola per cui ciascun comproprietario poteva da solo, senza il consenso preventivo degli altri, operare nella gestione e fruizione della cosa comune, e nel principio per cui, trattandosi di innovazioni, spettava a ciascuno dei contitolari il diritto di veto.

Attraverso lo ius proibendi, infatti, uno solo dei condomini poteva impedire con la forza, di sua autorità[22] qualsiasi azione iniziata dagli altri sulla cosa e distruggere l’opera compiuta senza il suo consenso. Tale figura risulta informata alla concezione del condominio come pluralità di diritti di proprietà.  Ogni condomino aveva il diritto di fare sulla cosa comune le spese occorrenti perché fosse possibile l’amministrazione della propria parte e di chiedere agli altri condomini il rimborso delle spese sostenute per le quote loro spettanti.

Ogni condomino, infine, poteva chiedere la divisione della cosa comune e a tale diritto non era lecito rinunciare che per un tempo determinato.  Serviva a tal uopo l’actio communi dividendo.  In essa si teneva conto di tutto ciò che l’un condomino doveva all’altro, ripartendosi equamente gli utili della cosa, i danni a causa di essa, le spese fatte sulla cosa o a causa della medesima per il comune vantaggio.

 

Genesi della proprietà fondiaria.

In merito ai beni immobili fondiari, le comunità preciviche che concorsero alla formazione della città non  riconoscevano la proprietà privata su tali beni. Le terre appartenevano alla collettività ed erano prevalentemente adibite a  pascolo. Queste terre costituivano l’ager publicus. Esse venivano in buona parte lasciate in godimento esclusivo a privati per estensioni talora notevoli, dapprima in forza di provvedimenti a carattere generale che ne consentissero l’occupazione nei limiti delle possibilità di sfruttamento dell’occupante, più tardi, in forza di concessioni individuali revocabili.

In epoca regia, altre porzioni di ager publicus cominciarono ad essere oggetto di assegnazioni a carattere definitivo, cosicché i beni in tal modo acquistati divenivano propri dei privati ex iure Quiritium.

In  epoca storica, la proprietà privata traeva consistenza e si alimentava a mezzo della proprietà pubblica, l’ager publicus, dal quale soltanto a mezzo di formali atti d’investitura si potevano distaccare delle porzioni per convertirle in fondi o agri privati. A sua volta, l’agro pubblico era costituito e si ampliava con le terre di conquista.

Le terre confiscate venivano in parte assegnate in pieno dominio fra privati, sia collettivamente, con la costituzione di colonie, sia mediante assegnazioni individuali per capi.

Altre porzioni erano, invece, vendute a privati non in pieno dominio ma a titolo di possesso stabile e irrevocabile. Su queste terre lo Stato riscuoteva, a volte solo nominalmente, un canone..

Restavano, infine, i terreni incolti che venivano lasciati alla libera occupazione dei privati, perché li coltivassero verso pagamento allo Stato di una parte del prodotto (di solito la decima parte ovvero un quinto del frutto degli alberi). Anche il dominio di queste terre rimaneva sempre allo Stato e inoltre non poteva legalmente verificarsi alcuna usucapione, giacché il loro possesso si considerava come precario e soggetto a revoca in qualsiasi momento.

Plinio (lib. 18, c.II) afferma che con questo sistema si distribuiva la terra anche durante il regno di Romolo, all’origine stessa dell’Urbe.

Fino alla prima guerra punica, come attesta anche Varrone, le assegnazioni non eccedevano i due jugeri a persona. Fondi assai modesti giacchè, essendo lo jugero pari a circa un quarto di ettaro, si raggiungeva appena il mezzo ettaro.

Questa terra (heredium) nei primi secoli di Roma, quando la più gran parte dei mezzi di sussistenza traeva origine dalla pastorizia, aveva lo scopo di assicurare quel tanto di proprietà privata sufficiente per il ricovero delle persone e degli animali, per la coltura ed altro strettamente indispensabile ai bisogni di ciascuna famiglia.

Successivamente, le dimensioni delle assegnazioni subì continui incrementi: 5, poi 8 jugeri, poi da 30 a 40 jugeri, fino al massimo consentito dalla legge Licinia (367 A.C.), in virtù della quale nessun cittadino poteva possedere più di 500 jugeri di terra.

All’assegnazione di porzioni di ager publicus in proprietà privata si procedeva mediante limitatio, un rito che aveva connotazioni sacrali e che si compiva con l’intervento del magistrato e di un agrimensore. Nel contempo, si aveva cura di lasciare attorno a ciascun apprezzamento uno spazio libero, largo non meno di cinque piedi (30 cm.), il quale era detto limes, e non poteva essere usucapito.

Roma 18 maggio 2012
Giuseppe Chiàntera

NOTE

[1] Louis Genet, Diritto e civiltà in Grecia antica, La nuova Italia, 2000;  Arnaldo Biscardi, diritto greco antico, Giuffrè, 1982.

 

[2]  A. Biscardi, op. cit., pag 10

 

[3] Paoli, La difesa del possesso in diritto attico, Studi Albertoni, Padova 1937, pag 311

[4] Il Mito racconta che Saturno spodestato dal figlio Giove si rifugia nella Terra chiamata Italia sulla quale, a quel tempo, regnava Giano. Saturno fu un Re-Sacro il quale nel periodo del suo regno darà al regno il nome di Saturnia. È un mito antichissimo e molto importante per le genti italiche; fu uno dei Re degli arcaici tempi dell’Età dell’Oro, l’Età “del miele che stillava libero dalle querce”.

 

[5] Andrea Carandini, La nascita di Roma, Einaudi.

 

[6] A. Magdelain, De la royaute et du droit de Romulus a Sabinus (Saggi di storia antica), 1995

 

[7] Andrea Carandini, op. cit.

[8] Bonfante, Corso di diritto romano. La proprietà. II, I 205

[9] Grosso, l’evoluzione storica delle servitù nel diritto romano e il problema delle tipicità, Studia et Doc. III, 1937, 265 e ss.

 

[10] Aristotele,  Politica II, 1262b.

 

[11]  A. Biscardi, op. cit., pag. 178.

 

[12] Platone, leggi, 740.

 

[13] Asheri, Attribuzione di terre nell’antica Grecia, in Memorie Accad. Scienze Torino, 4°, X, 1966.

 

[14] Brunk, Totenteil und Seelgerat im griechischen Recht. Eine entwicklungsgeschichtliche Untersuchung zum Verhaltnis von Recht und Religion mit Beitragen zur Geschichte des Eigentums und des Erbrechts, Munchen, 1970.

 

[15]  Guiraud, La propriété fonciere en Grèce jusqu’à la consuete romaine, Paris 1893.

 

[16] Biscardi, Sul regime della comproprietà in diritto attico, 1955.

[17]  Biscardi, Sul regime della comproprietà in diritto attico, 1955, citato, pag. 108.

[18]  Biscardi, Sul regime della comproprietà in diritto attico, 1955 ,citato, pagg. 115-118.

[19] M. Marrone, lineamenti di diritto privato romano, Torino pag. 166.

 

[20] G. Grosso,Problemi generali del diritto attraverso il diritto romano, Torino, 1967, 143 e ss..

 

[21] S. Di  Marzo, Istituzioni di Diritto Romano, Milano, pag. 197.

 

[22]  Riccobono, Communio e comproprietà, Essays in legal history, Oxford, 1913, pag.39, che è studio fondamentale.

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CHIANTERA GIUSEPPE, nato a Napoli e residente in Roma è laureato in giurisprudenza (Roma, La Sapienza); specializzazione post-laurea (SSPA); docente  presso la  Scuola Centrale Tributaria  E. Vanoni. Direttore tributario presso il Ministero dell’Economia e delle Finanze – Dipartimento delle Finanze.  

PUBBLICAZIONI sulle riviste: I TRIBUTI;  IL FORO AMMINISTRATIVO;  IL CONTO;  Diritto & Diritti su carta; GIUSTIZIA AMMINISTRATIVA;  www.diritto.it;   www.amministrativo.it; www.giust..it;; www.Filodiritto.it; www.LexItalia.it; Diritto&Formazione; www.Altalex.it;  La Pratica Forense-in Diritto dei servizi pubblici.

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