10 Aprile 2024
Storia delle Religioni

L’idea religiosa come soffio ispiratore della città antica – Giuseppe Chiàntera

Abstract

Nessuno può dire quando i primi insediamenti della Mesopotamia meridionale si trasformarono in città. Qualche accenno si ebbe forse già prima dell’arrivo dei Sumeri; è il caso di Eridu. Si conoscono tuttavia le premesse della nascita della città: essa ruota intorno al dio protettore, cui già la gente di Obeid erigeva un luogo sacrificale nell’abitato. Se la forza della divinità tutelare si rivelava tanto potente da guadagnare influenza e prestigio oltre i limiti dell’insediamento, ciò costituiva il miglior fondamento per il prosperare della comunità. Si poneva mano a progetti di costruzione e irrigazione di maggiore mole. Il trapasso da villaggio a città si compì nel momento in cui la popolazione cessò di essere una comunità di agricoltori. Il servizio del tempio esigeva sacerdoti e assistenti. Il culto della divinità richiedeva edifici, simulacri, sacrifici e strumenti sacrificali. La crescita del tempio e della sua influenza comportò il formarsi dell’amministrazione Il centro vitale di tale società fu così la città-tempio. Supremo amministratore fu il sacerdote, in quanto rappresentante del dio tutelare della città. La città intera e tutto ciò che ad essa apparteneva – territorio, campagne, greggi, acque – era di proprietà del dio e perciò del tempio. Il sacerdote non era altro, quindi, che un semplice amministratore del dio protettore della città.

Dietro v’era però l’aspetto sociale, che fu all’origine di quello religioso. La fondazione di una città non avveniva in base a una idea, ma si imponeva come una necessità. La città nasceva come conseguenza di compiti più grandi. Ogni popolo arrivò a rendersene conto in maniera indipendente. E nessun popolo poté evitarne la fondazione una volta accertati due fatti: la minaccia rappresentata dalla natura e dai nemici, e la necessità di fronteggiarla. Il primo impulso alla civiltà fu dettato dal bisogno. La figura immaginaria di questo bisogno fu chiamata dio.

L’idea di considerare la città antica come grandezza sui generis risale al XIX secolo e si cristallizza attorno a La citè antique, di Numa Denis Fustel de Coulanges. L’autore avverte che il respiro profondo del passato sfugge al culto archeologico del documento, che pretende di risolvere l’uomo soltanto nell’erudizione epigrafica e nella compulsazione delle fonti. L’uomo è fondamentalmente un perché, una domanda religiosa rivolta al cosmo che lo circonda. Nella La cité antique, pubblicato a Parigi nel 1864, De Coulanges manifesta affinità con il pensiero di Giambattista Vico (1668-1744). In entrambi gli autori mito e leggenda sono, infatti, ritenuti «veri» nel senso sapienziale del termine. La verità in essi contenuta non è certamente quella dei moderni, che sottopongono il mondo alla ragione degli illuministi. Anzi, è proprio la religione, modo d’essere connaturale all’uomo antico, a esprimere, con i suoi miti, quanto egli ha fatto e quindi ritiene vero: «verum et factum convertuntur», «il vero e il fatto coincidono».

Da questo presupposto si muove la riflessione storica ne La cité antique. Le istituzioni del mondo antico devono essere ricondotte alla religione e, in particolare, a quella speciale religione che è il culto dei defunti. Nasce così fra vivi e morti un legame profondo, che non solo dà origine alla famiglia, prima comunità naturale.

Poste queste premesse, non riesce difficile a Fustel de Coulanges mostrare la medesima origine anche per i villaggi.

In questo modo la città antica viene a configurarsi come un organismo sociale che ha le proprie radici nella religione familiare.

Quella di Fustel de Coulanges si tratta, dunque, di una lettura che tenta di confutare le tesi materialistico-evoluzionistiche, le quali negavano alla famiglia un ruolo originario nell’ambito della società umana.

 

 

 

∼ L’idea religiosa come soffio ispiratore della città antica ∼

 

Prefazione

Il pensiero dell’uomo mesopotamico

La civiltà del Vicino oriente Antico ravvisa nell’obbedienza e nell’accettazione indiscussa dell’autorità la virtù essenziale al mantenimento dell’ordine. Ne consegue, pertanto, che in Mesopotamia la “buona vita” corrisponda alla «vita obbediente». L’individuo si trova al centro di concentrici e sempre più vasti cerchi di autorità che ne irretiscono la libertà d’azione. I circoli più vicini e più stretti sono quelli dell’autorità familiare. L’obbedienza ai membri più anziani della famiglia però segna appena l’inizio. Oltre la famiglia si delineano altre cerchie, altre autorità: lo Stato e la società. C’è il capomastro sotto il quale si lavora, c’è il sovrintendente che sorveglia i lavori agricoli, c’è il re. Tutti costoro possono e debbono esigere un’obbedienza assoluta. Il mesopotamico guarda con disapprovazione, ma anche con paura, alla folla senza condottiero. Una folla priva di capo può essere una forza distruttiva come le acque che rompono gli argini sommergendo campi e giardini se l’ispettore ai canali non è presente a tener le dighe in buon ordine. Infine, una folla disorganizzata e senza capo è inutile e improduttiva, come un campo che non genera nulla se non viene arato. Perciò un mondo ordinato è inconcepibile senza un’autorità superiore che imponga la sua volontà. Il mesopotamico è convinto che le autorità abbiano sempre ragione. L’ordine che viene dal palazzo, come il comando di Anu, non può essere mutato. La parola del re è giusta, ciò che egli dice è simile al verbo di un dio, non può essere mutato. Come a circoscrivere la libertà dell’individuo ci sono cerchi concentrici di autorità umane nella famiglia, nella società, nello Stato, così vi sono cerchie di autorità divine che non possono essere violate. I vincoli fra l’uomo ed i grandi dei sono alquanto remoti: l’uomo serve gli dei in quanto membro della comunità piuttosto che come individuo. Ma come il servo ha di rado rapporti intimi con il signore del maniero, così l’individuo in Mesopotamia guarda ai grandi dei come a forze remote alle quali soltanto in qualche grande crisi è possibile fare appello e anche allora soltanto per il tramite di intermediari. Rapporti stretti e personali l’individuo può intrattenere con una sola divinità: il dio personale. Il dio personale è per lo più qualche divinità minore del pantheon (o, in origine, un antenato). Poiché il dio personale è la potenza che dà successo all’azione dell’uomo, è naturale che sia esso a portare la responsabilità morale di quelle azioni.

Quando Lugalzaggisi, il capo di Umma, aveva attaccato e parzialmente distrutta la città di Lagash, gli uomini di Lagash diedero la colpa alla divinità di Lugalzaggisi: “Che la sua dea personale, Nidaba, porti sul collo il suo delitto! “, cioè: che le autorità divine che reggono il cosmo la possano ritenere responsabile di ciò che ella ha agevolato e favorito[1].

Rivoluzione Urbana

La questione dell’origine della città è stata al centro dell’attenzione di sociologi, di storici e di economisti, da almeno un secolo e mezzo[2]. Negli anni ’50[3] del secolo scorso, il paletnologo britannico Vere Gordon Childe elaborò il concetto di «rivoluzione urbana»; egli aveva un’ispirazione marxista della rivoluzione urbana. Il concetto chiave è quello della cosiddetta “accumulazione primaria”: Perché si dia luogo ad un salto (quantitativo e qualitativo) tale da coniugare una rivoluzione nel modo di produzione, occorre che la società sia innanzitutto in grado di produrre e accumulare una sostanziosa eccedenza, e, secondariamente che essa decida di utilizzare tale eccedenza non già per maggiori consumi familiari, ma per costituire le infrastrutture e per mantenere gli specialisti e i dirigenti artefici della rivoluzione stessa[4].

La necessità di un’accumulazione primaria di capitale, che la società possa investire nella conversione strutturale del suo modo di produzione, non era una teoria soltanto marxista, ma un presupposto generale e basilare dell’economia politica «classica». Negli anni stessi in cui Childe formulò la sua rivoluzione urbana, il concetto dell’accumulazione primaria del capitale venne utilizzato anche da uno studioso diverso per formazione e competenza: Fritz Heichelheim[5]. La storia economica di Heichelheim è impostata sui reciproci rapporti di tre fattori: le risorse, il lavoro, il capitale. Heichelheim individua nel capitale la molla del progresso; ma egli intende il capitale in senso monetaristico, come una ricchezza circolante in vista di un impiego differito. La grande rivoluzione, secondo lui, sarebbe stata l’introduzione del prestito a interesse, che avrebbe consentito il costituirsi di capitale concentrato nelle mani degli usurai. Dalla documentazione mesopotamica di carattere giuridico ed amministrativo, risulta però come il fattore dell’usura, dell’indebitamento, del capitalismo privato sia uno sviluppo secondario che nulla ha a che vedere con l’origine prima della città e della società stratificata. In sostanza il limite della proposta di Heichelheim stava nella sua matrice «modernista»[6].

Un chiarimento teorico essenziale per il superamento del modernismo venne dall’opera di Karl Polanyi che evidenziò il carattere storicamente datato e socialmente motivato delle teorie liberali classiche[7].

In un successivo contributo, al convegno di Chicago sull’urbanizzazione (nel 1960), Polanyi introdusse il concetto di staple finance (cioè «finanza delle derrate», ossia dei beni di consumo essenziale), concetto che andava a chiarire e ad integrare il meccanismo della redistribuzione. In un’economia come quella della Mesopotamia proto-urbana, e poi ancora per due millenni e mezzo, il capitale di cui dispone il tempio non è un capitale monetario ma un accumulo di materie prime e soprattutto di cibo.

La «finanza» proto-storica è dunque una gestione amministrativa di materiali quali orzo, lana, olio, tessuti: gestione impostata sui momenti dell’accumulo e della redistribuzione.

Negli anni Sessanta si affermò, soprattutto in America, una corrente di neo-evoluzionismo che, mentre riprendeva dall’evoluzionismo ottocentesco alcuni concetti fondamentali, apportava importanti correttivi che andavano a modificare il paradigma Childiano in aspetti tutt’altro che secondari. Il neo-evoluzionismo americano è più basato sugli aspetti socio-politici che non su quelli tecnologici ed economici.

Inoltre, questa corrente di pensiero privilegia la continuità rispetto alle rotture rivoluzionarie. I casi di transizione sono posti su una scala di complessità crescente, secondo lo schema “banda – tribù – chiefdom[8] – stato ” (nella terminologia di Elman Service), o lo schema” egualitario società – società gerarchica – società stratificata – stato ” (Morton Fried). I passaggi da una fase all’altra sono sfocati, e soprattutto ogni fase trova nel precedente il suo presupposto.

Seconda questa corrente di studio, problema dell’origine della città è stato risolto nel contesto di uno sviluppo dal “chiefdom”, un politico organismo guidato da un capo e un accumulo di risorse, ma senza una struttura amministrativa permanente: la città succede al chiefdom ma vi trova le sue basi e prende direzione da esso. Il concetto chiave della ricerca contemporanea è quello pertanto di “complessità”. Le società complesse erano in contrasto con società semplici ed egualitarie, nelle quali le cellule che compongono la società sono tutte omologhe.

Nascita della città antica: l’idea religiosa[9]

L’idea di considerare la città antica come grandezza sui generis risale al XIX secolo e si cristallizza attorno a La citè antique, di Numa Denis Fustel de Coulanges[10]. Quest’opera, apparsa nel 1864, è per certi aspetti molto innovativa. Lo studio di Fustel de Coulanges e impostato sulla necessità di riconoscere la profonda differenza che separa l’antichità dalla società moderna; solo prendendo coscienza di questa diversità e, secondo lui, possibile percepire il funzionamento della città antica[11].

Fustel de Coulanges rivisita le società antiche partendo dalle regole che ne determinano il funzionamento. La sua concezione di città antica deriva da questa premessa: essa viene vista come risultato di uno sviluppo graduale nell’organizzazione delle società antiche; dalla famiglia, vista come forma originaria di comunità, si passa al gruppo del villaggio che porta alla fondazione della città. Questa evoluzione da forme semplici a forme più complesse è sostenuta e mediata dalla religione.

De Coulanges avverte che il respiro profondo del passato sfugge al culto archeologico del documento, che pretende di risolvere l’uomo soltanto nell’erudizione epigrafica e nella compulsazione delle fonti. L’uomo è fondamentalmente un perché, una domanda religiosa rivolta al cosmo che lo circonda.

Nel testo La cité antique si manifestano affinità fra Fustel de Coulanges e Giambattista Vico. In entrambi gli autori mito e leggenda sono, infatti, ritenuti «veri» nel senso sapienziale del termine. La verità in essi contenuta non è quella dei moderni (la ragione degli illuministi). Anzi, è proprio la religione, modo d’essere connaturale all’uomo antico, ad esprimere, con i suoi miti, quanto egli ha fatto e quindi ritiene vero: «verum et factum convertuntur», «il vero e il fatto coincidono».

Da questo presupposto si muove la riflessione storica nel La cité antique. Le istituzioni del mondo antico devono essere ricondotte alla religione e, in particolare, a quella speciale religione che è il culto dei defunti:[12] gli avi proteggono i propri discendenti sulla terra e questi ultimi, con i sacrifici propiziatori, compiuti sulle pietre sepolcrali, assicurano a quelli la felicità dell’oltretomba. Nasce così fra vivi e morti un legame profondo, che non solo dà origine alla famiglia, prima comunità naturale, ma fonda, al tempo stesso, la proprietà privata. E la proprietà privata è dunque, in origine, solamente l’inviolabilità della terra dove sono le tombe degli avi.

Poste queste premesse, non riesce difficile a Fustel de Coulanges mostrare la medesima origine anche per il villaggio.

In questo modo la città antica viene a configurarsi come un organismo sociale che ha le proprie radici nella religione familiare: radici a tal punto intrecciate che sarebbe stato impossibile distinguere fra singolo e popolo, fra doveri etico-religiosi del cittadino e doveri etico-religiosi della collettività.

il pensiero di Fustel de Coulanges è ripreso da padre Agostino Gemelli (1878-1959) nel testo “L’origine della famiglia”[13].

Secondo il pensiero di Fustel De Coulanges,[14] l’uomo antico non ha mai creduto che dopo questa corta vita tutto fosse finito. Le più antiche generazioni, molto prima che ci fossero i filosofi, credettero a una seconda esistenza dopo questa, e considerarono la morte non come una dissoluzione dell’essere, ma come un semplice cambiamento di vita.

Secondo le più antiche credenze, non in un mondo estraneo a questo l’anima andava a passare la sua seconda esistenza; essa restava vicino agli uomini e continuava a vivere sulla terra.

Si credette anche a lungo che in questa seconda esistenza l’anima restasse unita con il corpo. Nata con esso, da esso non la separava la morte; con esso era chiusa nella tomba. Per quanto antiche siano queste credenze, ce ne son restate testimonianze autentiche. Queste testimonianze sono i riti della sepoltura[15].

Nell’antichità si credeva tanto fermamente che un uomo continuasse a vivere nella tomba che non si mancava mai di seppellire con lui gli oggetti di cui si supponeva avesse bisogno: vestiti, vasi, armi; si sgozzavano cavalli e schiavi, ritenendo che questi esseri, sotterrati col morto, l’avrebbero servito nella tomba, come durante la sua vita.

Queste credenze hanno governato le anime, hanno retto le società.

Queste credenze dettero luogo assai per tempo a regole di condotta; poiché il morto aveva bisogno di cibo e di bevanda, si concepì come un dovere per i vivi soddisfare a questo bisogno. La cura di portare gli alimenti ai morti non fu abbandonata al capriccio o ai sentimenti variabili degli uomini: fu obbligatoria. Così si stabilì una completa religione della morte.

I morti passavano per esseri sacri. I familiari avevano per essi tutta la venerazione che l’uomo può avere per la divinità che ama o teme: nel loro pensiero, ogni morto era un dio[16].

Secondo il De Coulanges, sembra che il sentimento religioso sia cominciato di qui. Forse in presenza della morte, l’uomo ha avuto per la prima volta l’idea del soprannaturale e ha voluto sperare oltre quel che credeva. La morte fu il primo mistero e mise l’uomo sulla via degli altri misteri. Esso innalzò il suo pensiero dal visibile all’invisibile, dal passeggero all’eterno, dall’umano al divino[17].

L’idea religiosa e la società umana dovevano ingrandirsi di pari passo; parecchie famiglie, senza sacrificare niente della loro religione particolare, si riunirono per la celebrazione d’un altro culto che fosse loro comune. Un certo numero di famiglie formarono così un gruppo, il villaggio.

Questa nuova associazione non si formò senza un certo ampliarsi dell’idea religiosa. Nel momento stesso in cui si univano, queste famiglie concepirono una divinità superiore alle loro divinità domestiche, che era comune a tutte e che vegliava sul gruppo intero; esse le elevarono un altare, e le istituirono un culto.

Ma questo popolo ebbe pure un’altra religione. L’uomo dei tempi primitivi era continuamente in presenza della natura; se il sentimento della forza attiva e della coscienza ch’egli ha in sé aveva ispirato all’uomo la prima idea del divino, la vista dell’immensità che lo circonda e lo schiaccia diede al suo sentimento religioso un’altra piega. Sentiva ad ogni momento la propria debolezza e la forza incomparabile di quanto lo circondava

Questo sentimento non condusse subito l’uomo alla concezione d’un Dio unico che regge l’universo: egli, infatti, non aveva ancora l’idea dell’universo. Non sapeva che la terra, il sole, gli astri, sono parti d’uno stesso corpo; non gli veniva in mente ch’essi potessero esser governati da uno stesso Essere. Ai primi sguardi che gettò sul mondo esterno, l’uomo se lo raffigurò come una specie di repubblica confusa, in cui forze rivali si facessero la guerra. Poiché giudicava le cose esterne misurandole da se stesso, e sentiva in se stesso una persona libera, vide in ogni parte della creazione, nel suolo, nell’albero, nella nube, nell’acqua del fiume, nel sole, altrettante persone somiglianti a lui; attribuì loro il pensiero, la volontà, il libero arbitrio; poiché li sentiva potenti e ne subiva il dominio, confessò la sua dipendenza da loro: ne fece degli dèi[18].

Così l’idea religiosa si presentò sotto due forme differenti; da una parte, l’uomo dette l’attributo divino al principio invisibile, all’intelligenza, a quello che sentiva di sacro in sé stesso: dall’altra parte, applicò la sua idea del divino agli oggetti esterni che contemplava, agli agenti fisici che erano i padroni della sua felicità e della sua vita.

Queste due diverse specie di credenze dettero origine a due religioni. Di queste, quella dei morti, essendo stata fissata in un tempo molto remoto, restò sempre immutata nelle sue pratiche; l’altra, quella della natura fisica, progredì di più e si sviluppò liberamente attraverso le età, modificando a poco a poco le sue leggende e le sue dottrine, e aumentando continuamente la sua autorità sull’uomo.

Fra tutti gli dèi di questa seconda religione ci furono rassomiglianze, perché le idee si formavano nell’uomo secondo un modo presso a poco uniforme. Infatti, gli elementi che si potevano divinizzare, non erano molto numerosi: il sole che feconda, la terra che dà il nutrimento, la nuvola, a volta a volta benefica o funesta. Questa seconda religione ebbe per culla la famiglia, ma si prestava meglio del culto dei morti ai futuri progressi dell’associazione umana. Infatti, gli antenati, per la loro stessa natura, non potevano essere adorati che da un piccolissimo numero d’uomini, mentre la religione degli dèi della natura era più larga: non era nella natura di questi dei di essere adorati che da una famiglia sola e di respingere l’estraneo. Così gli uomini dovevano arrivare ad accorgersi che il dio Sole era, in fondo, lo stesso essere o la stessa concezione del dio Sole di un altra. A mano a mano che questa seconda religione s’andò sviluppando, la società dovette ingrandirsi, il dio della natura, infatti, lasciò il focolare domestico; ebbe una dimora propria e sacrifici propri. Questa dimora fu, d’altra parte, costruita a immagine dell’antico santuario domestico: fu, come prima, una cella davanti ad un focolare; ma la cella s’ampliò, s’abbellì, diventò un tempio[19].

Seguendo la tesi del De Coulenges [20], la società umana non si ingrandì quando si stabilì un culto comune. Una volta che le famiglie e i villaggi s’erano messe d’accordo di unirsi per avere uno stesso culto, allora si fondava la città perché fosse costruito il santuario del culto comune. La fondazione d’una città era, unque, sempre un atto religioso.[21] De Coulanges, in proposito, fa due considerazioni: l’una è che la città sorse da una federazione di gruppi, che s’erano formati prima di essa; l’altra è che la società si sviluppò solo a mano a mano che s’allargava la religione. “Non si potrebbe dire se proprio il progresso religioso sia stata la causa del progresso sociale; ma è certo che essi sono venuti tutti e due nello stesso tempo e in un accordo degno di nota” [22].

Per dare regole comuni, per istituire il governo e fare accettare l’obbedienza, per far cedere la passione alla ragione e la ragione individuale alla ragione pubblica, ci vuole qualche cosa di più forte della forza materiale, di più rispettabile dell’interesse, di più immutabile d’un patto: qualche cosa che sia in fondo a tutti gli uomini. Questo qualche cosa è una credenza: non vi è nulla di più potente sull’anima. “Una credenza è l’opera del nostro spirito; ma noi non siamo liberi di modificarla a piacere nostro. Essa è una nostra creazione; ma noi non lo sappiamo; è umana, e la crediamo un dio; è l’effetto della nostra potenza, ed è più forte di noi; è in noi; non ci abbandona mai; ci parla in tutti i momenti. Se essa ci dice d’obbedire, obbediamo; se c’indica dei doveri, ci sottomettiamo. L’uomo può dominare, è vero, la natura, ma è soggetto al proprio pensiero”[23].

Riassumiamo il pensiero di De Coulanges. Un’antica credenza comandava all’uomo d’onorare l’antenato; il culto dell’antenato ha raggruppato la famiglia attorno a un altare. Di qui, la prima religione, la prima idea del dovere e la prima morale; di qui anche la proprietà stabilità, l’ordine fisso della successione; di qui, il diritto privato e tutte le regole dell’organizzazione domestica. Poi la credenza si allargò, e così pure, nel tempo stesso, l’associazione: a mano a mano che gli uomini sentono che ci sono per loro divinità comuni, s’uniscono in gruppi sempre più estesi. Le stesse regole, trovate e stabilite per la famiglia, s’applicano successivamente al villaggio, alla città.

Alla gerarchia delle credenze corrisponde la gerarchia delle associazioni; l’idea religiosa fu, presso gli antichi, il soffio ispiratore e organizzatore della città.

 

Giuseppe Chiàntera

 

NOTE

[1] T. Jacobsen, in H e H. A.Frankfort, J Wilson, T. Jacobsen, W. A. Irwin, La filosofia prima dei Greci, 1963, Torino, pag. 237 e segg.

[2] M. Liverani, Uruk: dalla “rivoluzione urbana” alla teoria dei sistemi, Dispensa dell’Università di Roma – La Sapienza.

 

[3] The urban revolution”, apparso nel 1950 sulla rivista “Town planning review”. Si tratta di un vero e proprio classico dell’urbanistica che ha costituito un punto di svolta in merito alla questione trattata.

 

[4] V. Gordon Childe, stilò una famosa lista dei criteri dell’urbanizzazione. Le caratteristiche di questa rivoluzione urbana sono state da lui così sintetizzate:

  • crescita della grandezza degli insediamenti a proporzioni “urbane”, sopra i 20 ettari, e concentrazione, in un’area ristretta, di gruppi relativamente numerosi;
  • opere pubbliche monumentali e un habitat differenziato con la coesistenza di diverse formule architettoniche;
  • specializzazione di agricoltori e artigiani;
  • stratificazione sociale e una classe dirigente mantenuta da un surplus;
  • “invenzione” della scrittura;
  • sviluppo su grande distanza del commercio per procurare materie prime;
  • pagamento di tasse al dio o al re;
  • nascita di scienze esatte;
  • espressioni artistiche;
  • distinzioni per classi invece che per gruppi parentali.

In realtà, tutti questi sviluppi sembrano da collegarsi a tre essenziali elementi nati dall’avvento dell’agricoltura e dell’allevamento. Il primo è la sedentarizzazione con la nascita dei primi insediamenti stabili; il secondo è una produzione di cibo che supera, anche di molto, le necessità della mera sopravvivenza, creando un surplus da impiegare in attività nuove, sia per la realizzazione di opere pubbliche e di interesse collettivo, sia per la fabbricazione di prodotti artigianali. A queste attività, infatti, potevano ora dedicarsi specialisti liberati dal bisogno di produrre il proprio sostentamento e mantenuti dall’eccedenza alimentare della comunità mediante lo scambio di cibo con i propri prodotti. Così, il terzo e fondamentale fenomeno che si lega alla nascita delle prime comunità agricole di villaggio è l’inizio della specializzazione del lavoro e l’istituzionalizzazione di figure nuove di capi e governanti, di sacerdoti, di responsabili e sorveglianti, anch’essi da considerare categorie di ‘specialisti’.

 

[5] F. Heichelheim, An Ancient economic history .

 

[6] M. Liverani, Uruk: dalla “rivoluzione urbana” alla teoria dei sistemi, Dispensa dell’Università di Roma – La Sapienza, pag. 96.

 

[7] K. Polanyi, La Grande Trasformazione. Le origini economiche e politiche della nostra epoca. Pubblicato per la prima volta nel 1944, l’opera tratta delle conseguenze sociali e politiche dell’affermazione della teoria liberista del mercato auto-regolantesi. Secondo l’autore, che utilizzava una prospettiva antropologica nello studio dei fenomeni economici, prima della grande trasformazione l’economia era integrata nella società e le persone basavano i loro scambi non esclusivamente sul profitto ma sulla redistribuzione dei beni fondata su relazioni personali e comunitarie e su rapporti di reciprocità.

 

[8] Un chiefdom è una forma di organizzazione politica gerarchica nelle società non industriali di solito basata sulla parentela e in cui la leadership formale è monopolizzata dai legittimi membri anziani di determinate famiglie o “case”. Queste élite formano un’aristocrazia politico-ideologica rispetto al gruppo generale.

 

[9] Daria Pezzoli-Olgiati, lmmagini urbane interpretazioni religiose della città antica, Vandenhoeck & Ruprecht Gmbh & Co (12 agosto 2002).

 

[10] F. De Coulanges, La città antica, tradotta in italiano da Giorgio Perrotta con introduzione di Giorgio Pasquali, 1024, Firenze.

 

[11]F. De Coulanges, La città antica: Per sapere la verità su questi popoli antichi e saggio studiarli senza pensare a noi, come se ci fossero completamente estranei, con il medesimo disinteresse e lo spirito libero………..Non c’e niente di paragonabile a loro nei tempi moderni.

 

[12] Numa-Denis Fustel de Coulanges 27 Ottobre 2018 in https://alleanzacattolica.org/numa-denis-fustel-de-coulanges/

 

[13] A. Gemelli, L’origine della famiglia. Critica della dottrina evoluzionista del socialismo, Milano, 1921

 

[14] F. De Coulanges, La città antica, pag. 3

[15] L’esistenza di un rituale funerario è documentata nel Vicino Oriente a partire dal periodo neolitico (8500 a.C. ca.), com’è esemplificato successivamente dai notissimi crani modellati, sepolti separatamente dai corpi sotto i pavimenti delle abitazioni del Neolitico aceramico B (6500-6000 a.C.) a Gerico in Palestina e a Ramad in Siria ( L. Nigro – Il Mondo dell’Archeologia (2002) L’archeologia delle pratiche funerarie. Vicino Oriente, in Treccani, https://www.treccani.it/enciclopedia/l-archeologia-delle-pratiche-funerarie-vicino-oriente_%28Il-Mondo-dell%27Archeologia%29)

 

[16] F. De Coulanges, La città antica, pag. 12

 

[17] F. De Coulanges, La città antica, pag. 18

 

[18] T. Jacobsen, in H e H. A.Frankfort, J Wilson, T. Jacobsen, W. A. Irwin, La filosofia prima dei Greci, 1963, Torino, pag. 237 e segg.

[19] F. De Coulanges, La città antica, pag. 151 e ss.

 

[20] F. De Coulanges, La città antica, cap. III, La città si forma, pag. 159 e ss.

 

[21] F. De Coulanges, La città antica, cap. IV, La città, pag. 168 e ss. (Critico, Giorgio Pasquali, “Tradizione contemporanea sul divenire delle città più antiche non si è conservata, cosicché qualsiasi asserzione è fantastica.” In nota)

[22] F. De Coulanges, La città antica, pag. 165

 

[23] F. De Coulanges, La città antica, pag. 166

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