12 Aprile 2024
Punte di Freccia

La fine ed il principio – Mario Michele Merlino

I soldati tedeschi di guardia ai due pesanti autoveicoli militari tirano lunghe boccate di fumo, lenti nei movimenti scarni nelle parole. Nella notte che si prepara a svanire, dall’estrema periferia Sud della Capitale, arriva il brontolio continuo del cannone, il bagliore rossastro della vampa.

‘Sie kommen…’, sussurra uno di loro, sollevando la testa. ‘Noch ein Paar Tagen… spaetestens’.

Nessuna emozione nella voce, tremore o quant’altro. Sono contadini, strappati alla terra, e alla vanga hanno sostituito il moschetto, indossato la divisa feldgrau. Uno di loro, il più anziano, ventidue anni e già considerato un veterano, proviene dal fronte russo; gli altri due, sedici anni, sono l’ultima leva di una Germania esangue e ridotta a grattare il fondo della bottiglia.

Hanno imparato presto cosa voglia dire battersi contro una potenza di fuoco tanto a loro superiore, in tane ricavate tra le macerie dell’Abbazia di Montecassino e lungo il canale Mussolini, in buche di sabbia e fango. Simile al gelo e alla grandine e alla neve che danneggiano il raccolto d’inverno o la siccità della zolla quando d’estate picchia il sole e si spera nella pioggia. Blut und Boden gli hanno detto. A rendere feconda la terra dei padri, ora al fronte per difenderne i confini la casa le donne.

Il tenente, sedutosi in disparte sullo zaino, già laureando di filosofia alla prestigiosa università di Heidelberg, strappato ai libri e alla ricerca sugli gnostici, affascinanti ed oscuri, per un corso rapido e sommario da ufficiale, sorride amaro mentre si pulisce le lenti rotonde. Reminiscenze. Pensa come si adatti troppo bene quell’Amor fati di Nietzsche, più che un filosofo un veggente, al suo popolo all’immensa tragedia che sconvolge l’Europa e il suo paese…

‘Ancora una volta da soli, soli contro tutti. E’ il prezzo, l’alto costo delle grandi idee, dei sogni…’, riflette. ‘Qui, tra il Colosseo e gli Archi di Tito e Costantino, da dove è partita tanta parte della civiltà, s’è annidato il tradimento’. Ricorda quando avevano, armi alla mano, rastrellato gli sbandati i fuggitivi i dispersi dell’esercito italiano dopo l’annuncio dell’armistizio dell’8 settembre, meno di un anno prima. Uomini sudati stanchi umiliati con le divise a brandelli disarmati ammassati come pecore senza più traccia di valore e virtù militari.

Scuote la testa. Sa come, a questo punto, le idee i sogni sono alibi, ombre fugaci, e solo l’orrore e la barbarie rimangono, orbite vuote su un mondo di macerie sotto un cielo immoto e indifferente. La guerra è perduta. Ostinazione folle e teutonico senso del dovere per ulteriori lutti. Il socialismo prussiano, da caserma, fin da quando il re Federico aveva scatenato la guerra contro la Grande Coalizione delle teste coronate – Austria e Russia e Francia –. E in fila, per essere falciati dalla Morte, avida del loro sangue. E’ questo il senso della storia, l’unica legge dell’esistenza?

In questa alba del 2 giugno 1944, le truppe germaniche si apprestano a ritirarsi verso il Settentrione, incalzate dagli alleati e dopo che costoro hanno sfondato le ultime resistenze. In cielo il dominio incontrastato dei caccia e dei bombardieri americani e inglesi; sul terreno colonne di carri armati e blindati e camion e uomini d’ogni razza e paese del mondo. Ciò che conta è entrare in Roma e farsi riprendere e diffondere immagini rasserenanti tutte trionfanti e sorridenti della vittoria ormai prossima. Roma rimane pur sempre un bel palcoscenico…

Anche i due autoveicoli, a ridosso della Basilica di Santa Maria Maggiore, attendono i soldati che attraversano la città, sottili colonne di uomini impolverati e sfiniti. Sono lì dalla sera precedente, con la razione di cinque sigarette a testa, uguale per ufficiali e soldati, lo stesso tozzo di pane di segale marmellata insipida e sintetica l’acqua della fontana nelle borracce.

Nelle stesse ore, d’angolo alla piazza, al terzo piano di un palazzo del Cinquecento, si va rinnovando il rito antico della vita, della nascita. La levatrice, una donna, energica e scontrosa, s’è fatta prendere in piazza San Silvestro dalla camionetta della PAI, i cui militi, timorosi, hanno sostituito i regi carabinieri dileguatisi dopo l’8 settembre, troppo compromessi tetragoni e fedeli alla monarchia. Veramente anche costoro si preparano a cambiare casacca meglio a mettersi in borghese. L’Italia di Pulcinella e di Arlecchino, dell’eterno carnevale, feste in maschera, celebra i suoi fasti mentre gli ingenui gli sprovveduti gli idealisti, insomma i più nobili i più puri, hanno cominciato a scannarsi fra loro – i ‘repubblichini’ gli uni, i partigiani gli altri.

Mentre Vanda, la moglie, si contorce nel letto spinge allarga le gambe suda si morde il labbro piange geme urla, sorretta dalla levatrice, il marito, nella stanza accanto, si muove avanti e indietro si passa le dita nervose fra i capelli radi la sigaretta spenta in bocca e, in cuor suo, porta la segreta speranza che, al fine, dopo due bambine, sia la volta del maschio. Già ha riflettuto sul nome, quello di suo padre, come è tradizione, che tutti chiamavano – chissà perché – Mario, ma il cui vero era Michele. Nulla ha da ridire la moglie, donna volitiva e solo in apparenza fragile e docile, nell’unire e l’uno e l’altro – quel doppio nome fa lustro e certo non è usuale – e, sebbene non si affidi all’astrologia o alla Cabala o alla corrispondenza del carattere del destino con il suo significato, gli dà l’idea di un certo blasone, di un tocco di aristocratico distinguo.

Nel silenzio, spettrale e carico di incognite, di quelle prime ore del nuovo giorno, si sentono i passi cadenzati di uomini in marcia.

Cauto sbircia tra le fessure delle persiane rigidamente chiuse.

Una sottile fila di soldati, l’uno dietro l’altro, con i fucili puntati contro le finestre e verso i tetti nel timore di un possibile attacco partigiano, gli elmetti che riverberano le prime luci dell’alba, discende da via dell’Olmata. Obiettivo, i due veicoli in attesa. Sono una ventina, tedeschi dalle divise sdrucite e sporche dagli stivali impolverati, si sono trascinati, gran parte della ritirata a piedi, lungo la via Casilina l’Agro romano la campagna intorno all’Urbe, sfuggendo ai mitragliamenti aerei all’avanzata dei carri Sherman americani. Occhi vigili inquieti da animali braccati il volto segnato scavato dalla fatica da giorni insonni dal cibo scarso.

Li comanda un Feldwebel, uno di quei sergenti che sono l’ossatura della Wehrmacht, una quarantina d’anni, in prima linea fin dal settembre del ’39, quando le armate del Reich vittorioso erano dilagate in Polonia e poi sulla costa atlantica e, orgogliose, a riscattare il diktat di Versailles entrando a Parigi, all’ombra dell’Arco di Trionfo, muto e sconfitto. Ne avrebbe di storie da raccontare… Sul petto, visibile, la Croce di ferro di I^ Classe, lo scudetto dei cacciatori di carri – ne ha centrati due nello stesso giorno colpendoli con il Panzerfaust –, dalla manica sinistra della giacca la protesi di gomma sostituisce la mano strappatagli di netto da una scheggia di mortaio, regalo durante la caccia ai partigiani slavi nei Balcani. Si può combattere anche con una sola, hanno deciso all’ospedale militare, e, dopo la riabilitazione e una breve licenza, di nuovo al fronte, d’esempio per i più giovani, ragazzini della HJ.

‘Che ci faccio ancora qui? E’ tempo, caro Wolfram, di dire addio alle armi…’.

Al soldato Wolfram Schmidt fanno male i piedi il sudore gli cola per la schiena nello stomaco da due giorni un tozzo di pane duro ammollato nell’acqua delle fontanelle. ‘No. La partita è perduta e solo i fessi possono credere ancora nella vittoria finale nel Fuehrer e alle sue promesse… Io ho dato, ora basta…’.

Volutamente s’è messo in fondo. Conosce Roma. C’è stato da prima del conflitto, in pellegrinaggio turistico con i parrocchiani del suo paese. E l’idea s’è concretizzata nel momento in cui, accompagnando dei camerati feriti sul fronte di Anzio, vi è rimasto per tre giorni. E sa come, proprio in via dell’Olmata, vi è il convento di S. Elisabetta, la cui congregazione è retta da suore tedesche e polacche. Sono una garanzia, sicuro rifugio. Altri prima di lui l’hanno sperimentato.

‘Quale migliore occasione Ora o mai più!’, si dice.

Il fucile appoggiato al muro l’elmetto a terra e con un balzo all’interno dell’androne dove il cancello si apre e svelto il soldato che sparisce. Per lui la guerra è finita… Tutto questo, in rapida successione, avviene sotto gli occhi stupiti di Aldo, mentre nella stanza attigua prorompe il vagito liberatorio del nuovo nato.

Finalmente! E’ un maschio!

La scena a cui ha assistito si perde in qualche angolino della memoria. Rimane, quel fucile abbandonato, simbolo di un’Europa in agonia; rimane quel grido alla vita e, chissà, se si incontreranno simili a passaggio del testimone, fine di una stagione e sua possibile resurrezione…

2 Comments

  • Daniele 25 Giugno 2016

    Bella storia, anche se…….forse io i miei camerati non li avrei abbandonati. Certo è che non possiamo essere tutti eroi.
    Daniele
    p.S. Mio padre è rimasto vivo perché ,sebbene ferito , 2 suoi soldati se lo sono trascinato a spalla attraverso il deserto libico. Erano 2 contadini sardi , di poca istruzione , ma con un gran senso dell’ onore e hanno salvato mio padre.

  • Daniele 25 Giugno 2016

    Bella storia, anche se…….forse io i miei camerati non li avrei abbandonati. Certo è che non possiamo essere tutti eroi.
    Daniele
    p.S. Mio padre è rimasto vivo perché ,sebbene ferito , 2 suoi soldati se lo sono trascinato a spalla attraverso il deserto libico. Erano 2 contadini sardi , di poca istruzione , ma con un gran senso dell’ onore e hanno salvato mio padre.

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