12 Aprile 2024
Punte di Freccia

Intellettuali d’oggi, idioti di domani – Mario Michele Merlino

Era il primo pomeriggio del 15 ottobre 1960. Dopo alcune mattine di manifestazioni per l’italianità dell’Alto Adige, sciopero nelle scuole, tricolori e striscioni, corteo per le vie del centro, la celere in azione, camionette e manganelli al Parco dei Daini, villa Borghese. Residui di nazionalismo, trincee del Carso e Vittorio Veneto, battaglia di retroguardia, mentre il mondo s’incendiava in Estremo Oriente nelle colonie d’Africa in tumulti nell’America Latina. Noi, sedicenni, in giacca e cravatta, con cartella resa pesante dal vocabolario di greco e di latino. Figli della piccola e media borghesia con addosso il decoro da mantenere e un Risorgimento esangue da difendere. Ondate ormonali da scaricare, chiusi nel cesso, e idealizzate mani levate e, in Piazza Venezia, sotto il ‘fatidico’ Balcone urlate a squarciagola, irriverenti e irosi ‘Duce! Duce!’. In via Quattro Fontane, all’interno di Palazzo del Drago. Salire una rampa in metallo e così accedere ad una struttura, abusiva, sospesa sul cortile interno. Sede della Giovane Italia, l’associazione degli studenti medi, realtà autonoma solo nominale ma di fatto creatura del Movimento Sociale. Quanti volti, più generazioni. Entusiasmi energie e delusioni. Quanti sono rimasti in quegli anni? Pochi. Quanti hanno cercato altri percorsi o ritiratisi a vita privata? I più. Sulla tessera il motto, fascinoso, che recitava: ‘Noi abbiamo ancora una bandiera da levare al sole e una canzone da gettare al vento’. La mia prima tessera. Una bandiera che ho raccolto in me, nel cuore e nella mente, e una canzone da sussurrare a denti stretti chè l’una e l’altra – di pubblico dominio – s’era stinta la prima e stonata la seconda. E, allora, o il ritorno a casa, deluso e sconfitto, o essere di passo sostenuto e lontano lo sguardo e – ‘immenso e rosso’ – essere in cammino, essere contro… Tante battaglie intraprese, tutte perse (forse), la più importante – la finale e totale – però vinta: esserci. Senza il sapore amaro della resa, senza alcun rimpianto rimorso alcuno. Eravamo in tre (‘tre briganti, tre somari’, cantava Domenico Modugno), pomeriggio di metà ottobre, ottobrata romana, quasi una estate lenta a dissiparsi: con Roberto (il Postino) e con Girolamo (il Mercenario).

Roberto, un giorno, ha raccolto moglie e figli e se n’è andato in Venezuela. Dieci quindici anni. Era al mio fianco a Valle Giulia e in tante altre occasioni meno eclatanti, in politica come nella vita privata. Quando è rientrato, non i chilometri hanno posto la distanza. La geografia, quella dell’anima, ha raccolto lontananze senza come e senza perché. Forse simili alle piante i rapporti umani abbisognano d’essere curati, linfa vitale, dissetati di continuo. Di Girolamo il richiamo all’avventura – il Katanga in rivolta, Bukavu nei pressi del lago Tanganica -, rari i ritorni, un libro (bello!), l’America Latina – ne so poco delle sue inquietudini. E, in una giornata di sole vento mare, noi in vacanza in Calabria (agosto 1990), vi fu la sua visita improvvisa e inaspettata. Anche se cauto – e noi non lo comprendemmo -, era il suo accomiatarsi il dirci ‘addio’. Poco dopo, rientrato in Argentina, s’è volto incontro alla morte per evitare che il suo corpo fosse preda e devastato dal male che gli era cresciuto dentro. Di recente l’amico Giacinto Reale ha postato sul suo diario la copertina de Il bottino del mercenario e con una citazione. Nostalgia di ciò che, in fondo, ognuno di noi s’è sognato di poter essere e fare. Sbattere la porta sulla quotidianità, in fondo troppo e sempre borghese, raggiungere il bar Le Fantassin, Bruxelles, arruolarsi e ‘con la sua fedele 12,7’ (mitragliatrice pesante montata su camionetta Ford) raggiungere la città di Stanleyville in mano ai ribelli di Antoine Gizenga e Pierre Mulele, ubriachi di droga e armati con modernissimi mitragliatori cinesi, nelle colonne di mercenari guidati da Jean Schramme e insieme ai katanghesi, fedeli a Moisè Ciombè, deposto presidente e in esilio in Spagna. Africa addio, documentario di Gualtiero Jacopetti, tanto inviso e alla sinistra e ai suoi ‘utili idioti’, ha reso in modo magistrale la corsa della colonna su sentieri sterrati la folta vegetazione i ‘simba’ in agguato e messi in fuga. Ben misera cosa restano nelle memoria le ‘mie’ Strade d’Europa… Venezuela Africa una, faticosamente ottenuta, cattedra da professore di filosofia – i ‘tre briganti’ hanno sciolto i lacci originari di una giovinezza da sedicenni irrequieti e irriverenti. Il tempo e le circostanze ne sono la causa, se vogliamo dar retta al libro dell’Ecclesiaste. Non mi basta, però. ‘Intellettuali d’oggi, idioti di domani – ridatemi il cervello che bastan le mie mani – profeti molto acrobati della rivoluzione – oggi farò da me senza lezione’, cantava Fabrizio de Andrè ne Il bombarolo, negli anni ’70. (Mi verrebbe la tentazione di dare nome e volto ad uno dei tanti di questi idioti, boccaccia mia…, diciamo solo come, idealmente, queste noterelle gli si adattano bene).

E’ accaduto qualcosa con il 1945. Una mutazione antropologica, quasi. (I dotti ‘colleghi’, che masticano e digitano di cose alte e nobili m’insegnano come ad Atene, tramite i sofisti e Socrate, la filosofia ha sterzato dalla ricerca della ‘physis’ all’’àntropos’, dando vita ai grandi sistemi di Platone ed Aristotele e secoli a venire… Solo quel folle di Nietzsche scuote la testa!). Come affermava Ugo Franzolin, in una delle usuali passeggiate nei pressi della fontana di Trevi: ‘Crede veramente, professore, che con il nostro anacronistico modello 91 pensassimo di poter fermare la potenza di acciaio e di fuoco della V e dell’VIII Armate alleate? E’ che intuivamo, magari ancora in modo incerto e confuso, come alle loro spalle avanzasse qualcosa che avrebbe spazzato via il nostro mondo, la civiltà con cui per secoli s’era retta l’Europa, il nostro insieme di valori’. E così è stato… Un tempo gli uomini e le idee erano un tutt’uno inscindibile, vi era un nesso per cui le idee vivevano incarnate negli uomini e costoro davano un senso a se stessi loro tramite. Lavorando al capitolo dedicato a Goffredo Coppola, in Rappresentazioni in nero, mi sono imbattuto e ne sono rimasto colpito come sia Bruno Spampanato sia Giorgio Pini, incontratolo con un mese di distanza – marzo 1945 ed aprile – ricordino la serenità con cui affermava loro che, se il Fascismo dovesse crollare, non gli era da-to sopravvivere visto che ad esso aveva dedicato tutto se stesso. Con serenità, pochi giorni dopo, il 28 aprile, lungo la spalletta del lago di Como, si colloca insieme agli ultimi fedelissimi del Duce e Pavolini e Bombacci e Mezzasoma per essere fucilato. E, allora, conta poco se Mussolini si stava recando in Valtellina per essere con i suoi nel Ridotto Alpino oppure cercasse scampo in Svizzera. Essi sono il Fascismo, come quel franco tiratore, anonimo, a Torino di cui ho scritto recentemente. Gli intellettuali erano in primo luogo dei militanti al servizio dell’Idea e la fedeltà ad essa, l’onore con cui la si viveva e per essa ci si batteva, era il metro primo di giudizio forse l’unico a cui attenersi. Non contava il ruolo, la fede sì. Non contava sacrificarsi, ma come. Dopo la stagione servile dei cosiddetti ‘utili idioti’ (intellettuali al servizio della causa comunista perché, in caso contrario, chiuse tutte le porte dei giornali e case editrici della critica benevola nessuna presentazione e sponsorizzazioni varie), crollato quel mondo – e così miseramente -, le anime servili si sono rese ‘baldracche’ dei salotti dell’industria cartacea della televisione cinema interviste. E l’intellettuale, quando si atteggia a militante, sa di miserabile e di patetico (arrogante, boccaccia mia tieniti cucita…).

Pretende che non lo si interrompa – come un juke-box, se gli si stacca la spina – perché s’incorre nel reato di lesa maestà… fingendo di ignorare che ai sovrani fu tagliata la testa e gli attuali sono macchiette da varietà. Meglio Peppe il Matto – il portiere de Il Secolo d’Italia, un omaccione rozzo e grasso – che, stritolandomi un braccio, mi fermò una mattina chiedendomi, essendo io uno studente, i libri di Nietzsche, aggiungendo, io reso tacito e stupito, ‘perché mi hanno detto che parla bene di Mussolini!’… O il Piccolotto, altra figura di picchiatore duro e puro, che se ne fregava dei miei prossimi esami del freddo della notte di quanto ero stufo, chè se ne andava anche da solo ad attaccare manifesti. E quella stessa notte, aggrediti da un folto gruppo di zecche, si beccò una coltellata ed io dovetti prendere un treno per la Germania ‘a cambiare aria’. Poi, non sono io a negarlo, ben vengano i libri, tanto meglio se miei (ahahah), le conferenze gli articoli i saggi. Sempre, però, in consapevolezza d’essere prima militanti e poi intellettuali. Venezuela Africa cattedra di storia e filosofia da quel 15 ottobre 1960. Strade. Allora mi consolo mi giustifico mi difendo: anch’io ho – forse – speso bene la mia esistenza e un frammento d’Idea, straccio di seta, con me…

Mario Michele Merlino

8 Comments

  • Gianfranco Cuguttu 23 Settembre 2017

    …..Professore , è sempre un piacere leggerti.

  • Gianfranco Cuguttu 23 Settembre 2017

    …..Professore , è sempre un piacere leggerti.

  • mario michele merlino 25 Settembre 2017

    grazie…

  • mario michele merlino 25 Settembre 2017

    grazie…

  • andrea 26 Settembre 2017

    Caro Michele, è sempre emozionante leggere i suoi pezzi.
    Quando parla di strade/piazze a me salgono la commozione e la rabbia per come oggi sono ridotte. Vuote. Deserte. Le piazze e le strade occupate da tavolini, eventi, palchi, concerti. Con lo sponsor al seguito.
    Ho sempre pensato che letture, riflessioni, studio debbano trovare ossigeno, ospitalità, coinvolgimento/sconvolgimento, lotta nelle piazze e nelle strade dove esplodono i corpi, il sudore, l’ebbrezza, l’incontro e lo scontro. Fisico e spirituale. E da li’ un nuovo rinascere. Di cos’altro siamo fatti?
    E invece oggi camminare per le strade crea sconforto.

  • andrea 26 Settembre 2017

    Caro Michele, è sempre emozionante leggere i suoi pezzi.
    Quando parla di strade/piazze a me salgono la commozione e la rabbia per come oggi sono ridotte. Vuote. Deserte. Le piazze e le strade occupate da tavolini, eventi, palchi, concerti. Con lo sponsor al seguito.
    Ho sempre pensato che letture, riflessioni, studio debbano trovare ossigeno, ospitalità, coinvolgimento/sconvolgimento, lotta nelle piazze e nelle strade dove esplodono i corpi, il sudore, l’ebbrezza, l’incontro e lo scontro. Fisico e spirituale. E da li’ un nuovo rinascere. Di cos’altro siamo fatti?
    E invece oggi camminare per le strade crea sconforto.

  • mario michele merlino 27 Settembre 2017

    caro andrea, molto bello quanto scrivi. hai presente i primi quadri di mario sironi sull’isolamento urbano edifici squadrati strade larghe e vuote un solitario tram? oggi dobbiamo quasi rimpiangerli soffocati da un via-vai cialtrone e clownesco… la solitudine della mente e del cuore è argine troppo fragile…

  • mario michele merlino 27 Settembre 2017

    caro andrea, molto bello quanto scrivi. hai presente i primi quadri di mario sironi sull’isolamento urbano edifici squadrati strade larghe e vuote un solitario tram? oggi dobbiamo quasi rimpiangerli soffocati da un via-vai cialtrone e clownesco… la solitudine della mente e del cuore è argine troppo fragile…

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