18 Luglio 2024
Cinema

Il “Ribelle” nella società dell’anestetizzazione di massa: i messaggi della cinematografia – Stefano Sogari

Tempi addietro, mi addentrai in una lettura definita come “classica” ma che funzionò come un ordigno a scoppio ritardato: “Il Trattato del ribelle” di E. Jungher. L’autore non ha bisogno di presentazioni: figura vasta e poliedrica di filosofo, ricercatore sulle Vie dello Spirito ma anche aristocratico soldato dell’antica Germania post-romantica, scrisse quel testo nel Dopoguerra quando ancora non erano evidenti alcune storture della società odierna nella sua illusione totalitaria basata sulla Tecnica ed il suo dominio. La lettura fu difficile non tanto per ciò che vi era scritto ma per capirne la “ratio” dato che sembrava un testo elaborato in tempi assolutamente non corrispondenti a quelli della sua effettiva redazione. Ne “L’Operaio” , scritto decadi prima, era ben diversa la visione dell’Uomo circa la possibilità di adire ai segreti delle macchine per superare i propri limiti e costruire una nuova civiltà preterumana. Decenni dopo è evidente la disillusione,

forse dovuta ad un pessimismo storico dell’autore viste le tremende vicissitudini della sua Germania e dell’Europa in generale. L’uomo si ritrova in pieno boom economico: una espansione di beni e servizi portata avanti proprio dalla Scienza, ma qualcosa non quadra, inizia un sentore di oscurità che sarà poi definito meglio e nitidamente in anni successivi e che, adesso a vedersi, diventa palpabile. L’Uomo si ritrova schiavo di un Sistema molto più complesso di un semplice Regime di occupazione:

essendo il Ribelle uomo d’azione, azione libera ed indipendente. Abbiamo constatato che questa tipologia può comprendere solo una frazione delle masse, e tuttavia è qui che si forma la piccola èlite capace di resistere all’automatismo e di far fallire l’esercizio della forza bruta. È l’antica libertà in veste moderna: la libertà sostanziale, elementare, che si ridesta nei popoli sani ogniqualvolta la tirannide dei partiti o dei conquistatori stranieri opprime il paese. Non è una libertà che si limita a protestare o emigrare: è una libertà decisa alla lotta” .

Jungher non fu l’unico a delineare una nuova trincea di conflitto ma definisce un’antinomia irriducibile nell’evo contemporaneo: Libertà contro Totalitarismo moderno, Uomo Organico contro Uomo automatizzato. Ma l’automa non è solo ed eminentemente una macchina, anzi: l’automa è il dominatore delle macchine, la mente diabolica che teorizza e costruisce in serie procedimenti automatizzati per inserire la vita dell’uomo in uno schema prefissato che, via via, diventa scadenzario per poi assumere le funzioni di un pezzo, di un bullone di un meccanismo. E’ la cosìdetta alienazione incosciente, quella che portò il poco studiato Ned Ludd a esplodere, quel dì in Inghilterra, in una fabbrica tessile dove gli operai oramai dovevano seguire i ritmi delle macchine, sfasciando le macchine industriali in un’assalto disperato contro il Nulla; un Nulla più oscuro e malvagio di ogni tirannide. Ma è la Macchina che domina l’Uomo o è l’Uomo che si fa interprete del male oscuro in sè presente diventando fautore di un sistema disumano? La domanda è legittima ma in questa la sede non ci sarebbe spazio per rispondere.

Giova ricordare che di Ned Ludd abbiamo perso le tracce: dopo tutta la teoria social-marxista dello sfruttamento che ha sfornato testi da riempire biblioteche e che ha creato carriere su carriere e dinastie politiche, di questo oscuro operaio disperato non si parlò più. Ma cambiamo epoca, proviamo a saltare di almeno cent’anni e più tutto ciò che va dal Luddismo al pensiero antimoderno di autori come Jungher, Evola o Pasolini e Ungaretti e finiamo nella contemporaneità. Lo scenario è, oramai, aberrante. La “Macchina” ha preso il sopravvento sul genere umano creando un sistema simile ad una ragnatela raffinata e inestricabile dove tutto rimane avvolto, anche invisibilmente. L’alienazione è giunta a livelli sovrumani in tutti i campi incluso la sfera più intima della persona ed i suoi recessi fatti di amore, sesso, sentimenti, legami. I sogni rivoluzionari sono falliti, le guerre proseguono nel migliore dei mondi possibili o nell’unico mondo rimasto (vedasi Fukuyama quando teorizzava la Fine della Storia) e non sono solo guerre nel senso “bellico” con invasioni, azioni militari su territori stranieri, mobilitazione di uomini e mezzi sempre più sofisticati. Si tratta di un concetto di guerra che travalica i confini e che invade le nostre società e che rimbalza tramite il sogno-incubo della Globalizzazione. Proprio per questo l’argomento dei reduci di guerra negli USA, specificatamente, è un imbarazzante problema: è noto che divennero una categoria a rischio perché alcuni di essi manifestano il loro essere schegge impazzite in una società che ha relegato il dominio di Marte nella distruzione automatizzata per finalità di sfruttamento economico.

Il Guerriero diventato Soldato e poi “operaio bellico” di una sempre più complessa e acefala macchina, mostra la sua alienazione al pari di disagiati operai di fabbriche o di impiegati di società. Lungi dallo scrivente l’attribuire ad alcune categorie dei sentimenti coscienti di tipo filosofico e politico circa la giustezza o meno di un assetto di potere; semplicemente è accaduto che gli uomini non essendo macchine ed in quanto ancora umani si accorgono di essere “estranei” al ritorno in Patria; lungi dall’essere cani da guardia il cui destino è una polpetta ed il rientro nel recinto di una specie di Luna Park sempre più finto, essi diventano “imbarazzanti”. Non tutti hanno chi li attende, non tutti riescono a mettersi a riposo: in alcuni di essi degenera lo stress post-traumatico e, torniamo sempre lì, l’alienazione ed il disagio, l’orror vacui della società consumistica e capitalistica che, ai loro occhi, ha perso di senso.

Nella filmografia, vero specchio della nostra società come una volta lo furono altre Arti di tenore diverso, si colgono dei segnali di tutto questo in quanto essa legge e traduce in spettacolo e, forse, in psicodramma collettivo, gli accadimenti ed i movimenti delle correnti psichiche nelle masse. Ritengo che sia interessante analizzarne le pulsioni ed i messaggi, al di là del messaggio effettivo che alcuni registi abbiano voluto lanciare: sovente un messaggio si forma come si può formare una prova processuale nell’ambito di un procedimento: gli effetti possono essere sorprendenti. Ma bisogna uscire dagli schemi ed andare sotto la superficie, tra le righe della sceneggiatura. Il simpatico “Gunny” di Clint Eastwood, ad esempio, ne è la versione in positivo, seppur border-line ed ancora ben irreggimentato, di questo dissidio tra “normale” sul piano dell’Uomo fedele alla sua natura intima e arcaica, ed il “legale” sul piano delle regole e delle consuetudini di una società in evoluzione. Quando una società è espressione di un sistema di valori essa procede lungo una tratta armonica, rimanendo ancorata al suo Ethos e producendo un certo tipo umano. Quando la medesima diventa fondata su astrazioni si crea il dissidio, l’antinomia, lo scontro ed il rifiuto di una parte dei suoi presunti difensori, perché non c’è identificazione e manca il riconoscimento. Gunny è un duro, un eroe per molti, una scocciature per i suoi superiori, una mina vagante per il sistema che, progressivamente, trasforma i soldati in tecnici della Guerra, dove il valore individuale ed il carattere diventano “ingombranti”, quasi. Ma Gunny trova la sua dimensione, alla fine la spunta lui perché riesce ancora a maneggiare ed a gestire un reparto “immondizia” dove viene scaricato onde farlo morire come persona. Trasforma quei ragazzi, indisciplinati e figli di un’America oramai totalmente diversa da quella di generazioni precedenti, in veri soldati che lo amano e lo rispettano. La favola finisce a lieto fine. Ma Gunny è un uomo solo, non parla con molti, in pochi lo capiscono, ai più sembra un bizzarro relitto di un passato glorioso ma inutile. Un superiore glielo dice senza mezzi termini: “sei come quegli arnesi messi dietro una vetrata con su scritto <rompere in caso di guerra>, qui stiamo creando un nuovo tipo di Marine, tu sei fuori tempo”. Ma Gunny, come abbiamo detto, la spunta perché forse non è vero che non c’è spazio per uomini come lui; alla bisogna dell’azione in pochi si porrebbero sotto i comandi del burocrate, a differenza del nostro spaccone sergente obbiettivamente un po’ svitato.

Ma lo scenario non è sempre così positivo, spesso invece viene registrata una inquietitudine diversa ed a più livelli, non solo quello militare.
Eppure l’elemento che prende forma è sempre lo stesso: la ribellione di uomini ormai soli, senza meta, senza più possibilità di riscatto; non è un’epopea da rivoluzionari, è un Don Chisciotte moderno anzi, a volte, è un Sancho Panza senza Don Chisciotte vicino. Eppure tutti questi personaggi sembrano tornare a Jungher quando dice: “In un’orgia furiosa l’uomo vero si ricompensa della sua continenza. I suoi istinti troppo a lungo repressi dalla società e dalle sue leggi ridiventano l’essenziale, la cosa santa e la ragione suprema.

Chi sono questi personaggi e come mai hanno colpito la fantasia di scrittori, registi, giornalisti e documentaristi?

La Cronaca nera ne è una risposta spontanea: negli USA è sempre più piena di storie di reduci in disgrazia, per molti l’emarginazione e l’abisso psichico che colpisce, ondata dopo ondata, tutti i rientrati delle varie guerre coloniali del sistema America, diventano una costante tra vecchie e nuove forme devianti. Ma non sono gli unici a diventare mine vaganti: è tutta una società che periodicamente viene percossa da fenomeni di pazzia collettiva o individuale o, semplicemente, da gruppi umani che non si riconoscono nel sistema ma che non hanno altro da dire o fare, nei confronti del medesimo che federarsi tra di loro in gruppi criminali di stampo tribale. Si formano delle società di fatto, del tutto immerse nella società ordinaria ma non obbedienti alla stessa. Sono le Comunità fuorilegge che variano tra gangs etniche o tribali, motociclisti, abitanti liminali di aree ai margini o del tutto fuori i centri urbani come descritto dal film “Non è un paese per vecchi”, del 2007. In Europa il fenomeno prende corpo più tardi, in quelle forme, ma è già evidente in alcuni prodromi. In più riscopriamo l’odore della paura ad opera di chi viene da terre lontane, agito da correnti psichiche a noi incomprensibili, proveniente da sistemi che pensavamo esauriti in epoche preistoriche. O, differentemente, per via della temperie delle guerre mediorientali, ad opera di assassini veri e propri e tagliagole misti a guerriglieri di varia natura: veri e propri predatori che si ritrovano in giro per l’Europa Occidentale dove si discute, con comiche elucubrazioni costituzionali, se si possa espellere o meno un richiedente asilo che spacci droga per le strade o che aggredisca un uomo in uniforme.

Lo scenario è quindi scisso tra una ebollizione di veleni da una parte ed una quota maggioritaria di persone che vivono nel solco dell’ormai ben noto “produci, consuma, crepa”, senza porsi altre domande che cosa mettere in foto su Instagram o cosa scrivere su Facebook per commentare le proprie vacanze rispetto a quelle dell’amica del cuore. Un ritorno all’animale che si divide tra predatori e sciacalli da una parte e greggi di ovini e banchi di pesci. Uno scenario del tutto imprevedibile eppure molto ben descritto dalla parte più tormentata della filmografia d’Oltreoceano, anche quella d’autore. In tempi non sospetti iniziò il mitico Taxi Driver di Robert De Niro, immortalato come capolavoro ma di cui pochi hanno colto alcuni aspetti sociali assolutamente anticipatori dei tempi che viviamo.  Anche qui un reduce del Vietnam, solo e stordito, totalmente decontestualizzato circa la società di una megalopoli come NYC dove lui vagabonda in notturna alla guida di un Taxi, ancora di salvezza nel mare magnum della solitudine subita più che cercata. In lui si nasconde un eroe, latente e stravagante, ma un tipo di eroe che lo rende estraneo alla società a prescindere di ogni sua qualità di coraggio e abnegazione. La sua ribellione è altruistica ma quasi ingenua, non servirà a tirarlo fuori dal buio della sua prigione mentale e sociale. Un aspetto che rimane stabile in queste inquietanti descrizioni di “uomini contro” è che essi, senza una vera prospettiva realizzativa che sia di stampo politico che metapolitico o spirituale, rimangono fermi nella loro palude.

Nel caso di Taxi Driver il protagonista, alla fine dell’avventura, rimane esattamente dove stava: a guidare un Taxi di notte al cospetto del brulicare delle vite degli altri. Si aggiunga che il film, molto significativo, è permeato di dimensione esistenzialista e crepuscolare e quindi non lascia intendere ai più un ragionamento che focalizzi dimensioni più critiche circa i problemi sociali per come si stanno inverando nella società delle Metropoli americane. Eppure tutta la storia di questo personaggio è un affresco di una società parcellizzata e densa di malesseri. Un messaggio più forte, più specifico, invece, già prende forma nel famosissimo “Rambo” di un po’ di anni dopo: “Non sarebbe successo niente senza quello stronzo di poliziotto, io volevo soltanto qualcosa da mangiare” – “lasciami stare, in città sei tu la legge qui la legge sono io” – “In Vietnam ero responsabile per apparecchiature da milioni di dollari, qui non riesco nemmeno a trovare un lavoro come posteggiatore”.

Rambo non è un film qualsiasi, Rambo è una pietra miliare che avrà sempre qualcosa da dire per via dell’indovinata narrazione del regista Ted Kotcheff, la quale andrà a toccare dei punti molto dolorosi in una società ancora inebriata dal boom reaganiano dei fantastici anni dorati dell’economia in crescita perenne e dell’ottimismo da pubblicità dei dentifrici. Rambo sfuggì ai più proprio nei suoi dettagli più scabrosi, forse per via del grande successo tra gli amanti del genere bellico più focalizzati sulle tecniche militari e sulla precisione della descrizione dei modus operandi di questo personaggio, destinato a divenitare un’icona Pop. Ma c’era molto di più in lui: un anticipazione di tempi oscuri che iniziavano a prendere forma nelle menti più avvedute. Rambo è vittima del suo passato ma più ancora del suo passato è vittima del suo presente e di una società che lo rifiuta, che lo teme, che non lo vuole manco vedere in quanto Rambo è lo specchio di una generazione che si divide tra Baby Boomer arricchiti ed ex Hippies benestanti, entrambi dediti a quella cavalcata verso le radiose sorti del Capitalismo come unico dei mondi possibili. Chi disturba il manovratore è visto come un poco di buono, come un pazzo o un eversore, nella migliore delle ipotesi come uno svitato. Ovviamente la storia è romanzata ed è esasperata ma il marchio dell’azione non mancherà a tanti “squilibrati” vittime di stress post-traumatico, destinati a esplodere per suicidarsi o per disseminare morte e distruzione nelle file di un nemico immaginario che è la società intera. Non si può non pensare ad una critica a tutto tondo della società americana che si presenta vittima di pulsioni “law and order” quanto impegnata a spazzare sotto il tappeto i rifiuti sociali che il proprio sistema crea, incluso le guerre. Le quali guerre però, in qualche maniera, sono parte ineludibile di un sistema di benessere diffuso che permettono alla popolazione americana di vivere in una specie di sogno borghese consumistico e spensierato. Ma Rambo è la loro cattiva coscienza, per questo il sistema lo vuole fermare, non riuscendo a zittirlo. Quel film diventerà epocale, molto più dei suoi spettacolari sequel, probabilmente manovrati e opportunamente rielaborati da consulenti governativi che hanno redirezionato la saga del ribelle solitario in più utili direzioni.

In altri casi la ribellione è più insidiosa, perché nasce dal vicino di casa ordinato e tranquillo, all’apparenza cittadino modello, il tipico uomo di cui ci si fida a prima vista. E qui nasce un altro filone che è quello delle “mine vaganti” ignote che il sistema coltiva e costruisce all’interno di una società disomogenea e disarticolata, dove il cittadino non è parte di una Polis ma è solo un individuo che si trova sgangiato dai suoi simili per finire in una tenaglia tra collasso psichico causato da una insopportabile pressione famigliare e da una spirale di incontri sfortunati ai margini della Jungla urbana che è la società reale che il buon padre di famiglia borghese e benestante non riconosce. E’ William Foster de “Un giorno di ordinaria follia”: un ordinario e benestante cittadino modello americano bianco e anglosassone che, un giorno, scopre che la società non è fatta per lui né lui per la società. Il corto circuito è inevitabile e inizia da una sorta di luddismo spontaneo fino a giungere alla dimensione del Lupo Solitario che ha deciso di combattere il prossimo, il nemico vero o presunto o casualmente identificato come tale. Nella discesa agli inferi del protagonista non se ne salva uno: il ricco e grasso borghese del Golf Club, avvinghiato ad una vita da vecchio tirchio, il gruppo di banditi di strada, dei Latinos convinti di esistere grazie alla loro delinquenza per bande, persino una ditta per lavori stradali, che non è abituata a scusarsi per il pubblico disservizio, ma non manca il fast food con i dipendenti maleducati.

“ dovrà lasciare per sempre il suo campo da golf, eh si, morire con quello stupido cappello in testa che effetto fa?”.

“Questa è una contesa territoriale, io ho invaso la vostra terra di merda e voi vi siete offesi ed io lo rispetto”.

“Ora ci sono io, sull’altra faccia della luna, ho perduto i contatti con il mondo e tutti dovranno stare col fiato sospeso aspettando che sbuchi”.

Foster non sente ragioni, lui vuole solo tornare a casa dalla sua famiglia ma una sorta di congiura degli elementi lo pone di fronte alla scelta di restare “umano” o di “diventare un guerriero” e dichiarare guerra al mondo che non lo h compreso ed adesso lo teme. Anche qui tutto l’apparato sistemico si mobilita automaticamente contro di lui, contro il pazzo, contro l’Io puro seppur malato che non riequilibra il suo solipsismo nel panteismo di una realtà con cui entrare in dialettica feconda. Non c’è spazio per Fichte ma solo per il Nichilismo nella Jungla urbana a Los Angeles. Foster è un sacco da pugile dove tutto ciò che agita in negativo la società scarica i suoi pugni: la moglie che gli fa vedere la figlia con il contagocce, un lavoro che lo emargina fino al licenziamento, un tessuto urbano dove si è costretti e convivere con persone sgradevoli se non pericolose di cui non si colgono i linguaggi specifici, con le “pandillas” criminali, con alienati vari. Ed anche il suo “cacciatore”, il Sergente Prendergast, non è un gagliardo combattente in uniforme ma una persona che ha dovuto discendere in una specie di purgatorio immeritato per via di un rapporto matrimoniale totalmente squilibrato, gestito da una moglie castrante e infantile. Una vita che avrebbe dovuto essere “eroica” con tutti i crismi e che, invece, diventa caricaturale e che, alla fine richiederà una rimescolata di carte in nome del servizio, per fermare il Lupo Solitario, al di là della Grande Madre coniugale, per finire la carriera ma da Uomini.

E’ evidente che la Cinematografia ha percorso un cammino parallelo all’evoluzione sociale della società americana, paradigma della post-reaganiana modernità. Si sta delineando un concetto ben descritto: nella società dell’alienazione consumistica e dell’”uomo massa” numerizzato chi si ribella o, semplicemente, chi scoppia unisce alla solitudine naturale della sua condizione una successiva qualità di “schegga impazzita” senza più coordinate spazio-temporali. Il film è ricco di spunti, questa volta abbastanza chiari, nel descrivere una fase sociale già critica e avviata nel periodo post-reaganiano di cui si coglieranno gli aspetti sempre più deteriori molto rapidamente. A questo punto, il quadro è chiaro e non è più nascosto o frammisto con altri richiami di bontà tipici della filmografia Hollywoodiana; oramai non si può nascondere il lato oscuro del mondo in cui viviamo ed i film ne colgono perfettamente dei dettagli forse precedentemente nascosti per ragioni politiche. E’ il caso della brutale storia raccontata nel film “La Fratellanza” del regista Rick Roman Vaugh, siamo nella contemporaneità più coeva, è un film del 2017: un vero pugno nello stomaco per non dire un incubo ad occhi aperti in cui una tranquilla e ben assortita famiglia americana, bianca e benestante, si ritrova catapultata in un Inferno legale e sociale senza mezzi termini.

E’ il classico ascensore sociale che, ad un certo punto, si rompe e precipita portando tutti i suoi membri in un sotterraneo da cui non si uscirà mai più. Ed il “bello” è che il film colpisce per la sua veridicità perché se abbiamo memoria del caso Parlanti che riguardò un cittadino italiano, fortunosamente uscito dal supercarcere di Fresno in Arizona ma non prima di molti anni di sofferenze, ci rendiamo conto che veramente la storia illustrata è una possibilissima storia di cronaca. Basta poco, nel film come nella realtà, per chi conosca quel sistema: una serata tra amici, una bella moglie e tanta spensieratezza, una disattenzione derivante dal bere. Basta poco, una disattenzione: un incidente mortale, tutto finito, tutto distrutto. Jacob Harlon, un promettente e giovane uomo d’affari ha davanti a sé la prospettiva di una rovina economica totale, spese legali che non si riescono a sostenere, il carcere dove termina ogni possibile mediazione e dove inizia l’Inferno dantesco moderno; un luogo dove puoi durare pochi giorni, intero, o anni ed anni, ma solo a patto qualora si comprenda che esiste una parte di sé che la società moderna ha omesso di farti scoprire ma che sarà l’unica ancora di salvezza possibile nel contesto di un vero e proprio campo di battaglia. Il lato oscuro dell’uomo, il ricordo di epoche primitive, diventare ciò che non vorresti mai essere, oppure soccombere e fare una fine da schiavo doppiamente prigioniero: del sistema penitenziario e dei suoi gruppi dominanti ufficiosamente al comando dei detenuti in un gioco di “vedo e non vedo” con le Autorità Penitenziarie che hanno tutto l’interesse al Divide et Impera. Jacob Harlon ha poco tempo per decidere ma nel suo cuore ha già deciso: si unisce alla Fratellanza Ariana, una sotterranea struttura criminale caratterizzata da regole precise e spietate e dall’appartenenza razziale esibita con simboli e tatuaggi per far capire ai branchi degli altri detenuti di altre razze che c’è una parte del carcere che non è più cosa loro.

“Nessuno tocca la mia famiglia”.

“progettano posti come questo per distruggere uomini come noi, glielo permetterai?”.

“Voi avete le vostre regole noi quelle della Fratellanza, per noi contano di più”.

Nella realtà penitenziaria USA quel tipo di organizzazioni esistono veramente e possiamo immaginare che una persona qualsiasi, estranea al mondo criminale ma, per pura sfortuna e disattenzione, ci possa finire a contatto senza alcuna mediazione. Negli USA si passa dall’oro al piombo senza fasi intermedie, e lì una società totalmente selvaggia come fu l’origine di quella società, torna a rimanifestarsi in modo palese ma ovviamente in un modo distorto, perché stiamo cmq parlando di un sistema alienato, dominato da forze brutali sia sul piano economico che sul piano della realtà ai piani bassi. Il protagonista del film diventa parte del branco, poi diventa capo-branco, ed entra nel mondo non riconosciuto dei “guerrieri senza ideali” che vivono nella pura sopravvivenza, che si ribellano alla “non scelta”. Da questi film emergono delle verità, se vogliamo già ampiamente descritte in altri scenari molto più elaborati culturalmente e spiritualmente, da soggetti differenziati verso l’alto. Eppure il tema della ribellione è quanto di più variegato ed al contempo adattabile possa esistere perché come esiste una scintilla interiore in ognuno di noi, è anche vero che la società moderna offre occasioni di manifestare la propria natura ribelle in modo totalmente diverso a seconda dei contesti. Il momento della ribellione è liberatorio per tutti gli uomini che si rendano conto di essere sottoposti ad una tirannia da parte di un sistema, qualsiasi esso sia. Nell’ambito immaginativo di questa filmografia non ci sono dubbi che ognuno di noi possa ritrovare accenni ad autori nominalmente molto distanti dai mondi descritti: si va dallo Jungher a Pasolini nel famoso e verista “Una vita violenta”. L’alienazione è il tratto comune dei personaggi raccontati ed è una condizione oramai ale che i soggetti coinvolti non hanno più gli strumenti per sviluppare altra strategia che non un nichilistico “assalto alle mura” di una Gerusalemme che non sarà mai “celeste” ma forse neppure terrena su piani realistici.

E’ il risultato di un percorso di demolizione di ogni possibile percorso sociopolitico complesso il quale viene precluso lasciando il ribelle solo e, spesso senza causa, prigioniero di una palude, di una selva comuni ai suoi nemici. La selva è, però, soprattutto interiore ed è la tangibile prova che il nichilismo è l’unica dimensione rimasta per i nostri “antieroi”, un nichilismo post-Nitzscheano e sicuramente non rivoluzionario seppur si prenda questo termine nell’accezione che ne diede la letteratura russa che affibiò questo termine spregiativo ad una categoria molto problematica di rivoluzionari. Nulla di tutto ciò: la selva oscura in cui l’animo umano è stato smarrito dalla Tecnica e dalla Società di massa non ha spazi di luce e non concede messaggeri simbolici come fu in Dante; solo un mercuriale istinto di sopravvivenza porta i ribelli a iniziare la loro caccia selvaggia negli scenari che essi si ritrovano a vivere, che siano di loro scelta o meno. La prospettiva è divisa tra una solitaria lotta fino all’ultimo secondo di energia, oppure un pactum sceleris con delle belve più consimili per costruire un progetto di sopravvivenza predatoria: il tutto in una discesa nel Purgatorio che potrebbe diventare un semplice Inferno.

Forse il compito dell’uomo odierno è proprio questo: riscoprire la propria Wildnis da una parte e sposarla con una Sophia che ricrei un percorso di reintegrazione nella vera libertà, in un atto di rifondazione dell’umano che non termini il proprio percorso in una sorta di Risiko esistenziale su un tavolo da gioco deciso dal Sistema, un sottobanco per i disgraziati. Ma un Nuovo Ordine Cavalleresco o Legionario di uomini e donne differenziati ma reintegrati in Principii superiori sia sul piano etico che, di concerto, sul piano di una Metafisica dell’Umano/Oltreumano che proietti il ribelle nell’Empireo, al di là delle trappole del sistema e dei suoi schemi alienanti. La sfida sarà imprescindibile per essere uomini e donne liberi e per rifondare una società dove ai ribelli sia dato vivere con prospettive superiori e, forse, rivoluzionarie.

Stefano Sogari

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