10 Aprile 2024
Tradizione

Il mito dell’uomo selvaggio (Parte I^) – Walter Venchiarutti

Le derivazioni del mito alpino. Dalle lontane origini al medioevo

In questi ultimi decenni parecchi studi antropologici si sono prodigati a far luce e focalizzare la figura di un indiscusso protagonista della cultura popolare montana, non solo italiana, un soggetto quanto mai misterioso, multiforme e contraddittorio genericamente definito con il termine di “uomo selvatico”.

Numerosi interventi chiarificatori si sono succeduti e due importanti mostre hanno contribuito a metterne in evidenza le caratteristiche stabilendo veri e presunti predecessori, individuando le funzioni che possono aver chiarito le ragioni di una così curiosa e inquietante presenza. Soprattutto è apparsa evidente l’importanza di un mito comunitario che, pur nelle rispettive varianti e peculiarità locali è riuscito a coinvolgere intere aree interessando latitudini lontane tanto da assumere contorni intercontinentali.

Seguendo le tracce di questo personaggio abbiamo cercato di ripercorrere le tappe temporali che hanno contraddistinto le sue fugaci apparizioni. Di queste comparse, alcune meno appariscenti ma indubbiamente intriganti, hanno coinvolto anche la cultura e gli abitanti della Pianura Padana. Dallo studio antropologico e dalle iniziative condotte in seno ad alcune organizzazioni attente allo studio delle identità è derivato un capillare e prezioso corpus di notizie. Tale strategia ha contribuito, come nella composizione di un puzzle, al recupero di testimonianze orali e visive disseminate negli sperduti paesini rupestri o raccolte presso i romitori sparsi tra le valli.

Foto 1

Di per sé il tema del fantomatico “homo selvadego” è di quelli che si prestano a trattazioni interculturali e la cui universalità ha saputo superare le più anguste frontiere montane. Talune sorprendenti dinamiche e alcune consistenti analogie, nel considerare la plausibile internazionalità di questo “diverso”, sembrano portate ad equiparare l’ “uomo dei boschi” ai racconti del fantastico uomo delle nevi, dello Yeti imalaiano (A. Mordini, Il mistero dello yeti alla luce della tradizione biblica, Siena 2012) quale ipotetico discendente della tradizione biblica, ai rapsodici avvistamenti dello Sasquatch (altrimenti detto anche Big Foot, Momo), il timido piedone delle Montagne Rocciose, all’Alma, primate leggendario dell’antica Mongolia. I distinguo sono comunque d’obbligo poiché nell’ambito delle tradizioni mitteleuropee sembra prevalere a grandi linee la natura di un essere umano che, volontariamente o casualmente trattosi fuori dal consorzio civile nell’isolamento ambientale, ha assimilato ed è portatore di primordiali elementi animaleschi e naturalistici. Negli altri casi si tratterebbe invece di un essere genericamente catalogabile come pre-umano, di una specie ferma allo stato scimmiesco, la cui evoluzione pare esser rimasta incompiuta.

Nonostante l’esistenza di un ampio dibattito e di una sterminata bibliografia è sorprendente scoprire insospettate tracce di questo mito anche nelle tradizioni culturali della pianura. Si tratta comunque di indizi labili che documentano particolari forme di romitaggio, decifrabili anche nelle forme dialettali dell’attività ludica infantile. A volte questi segni affiorano suffragati dai contorni dell’iconografia nostrana.

Alcuni spunti sono riconducibili alla nascita di consuetudini oggi considerate tipiche, oppure possono riguardare le tipologie umane di recente inglobate nel folclore carnevalesco ma riconducibili ad esempi che trovano origine in remote conflittualità sociali. La figura del selvatico che si muove nella contemporaneità può esser decifrata dietro un look ammodernato, consono alle attuali esigenze esotiche, che è stato offerto dalla propaganda dei mezzi di comunicazione. Sintomatica risulta essere la fortuna acquisita dal personaggio di Tarzan, uomo scimmia, diffuso attraverso i programmi televisivi e cinematografici.

Il ritratto del domestico “om pelùs” o “bàarba” chiamato nella tradizione cremasco-cremonese (M. Centini, L’uomo selvatico. Dalla creatura silvestre dei miti alpini allo yeti nepalese, Cles 1992), essere silvestre e asociale è riscontrabile nei nomi di antichi casati gentilizi[1], nei disegni degli scudi lasciati dalla tradizione aristocratica (foto n 1).

Guardingo custode decora l’ingresso delle fortezze medioevali, come nel caso dell’affresco posto all’entrata della rocca S. Giorgio a Orzinuovi (Bs). La sua ombra metallica svetta ancora sui tetti come banderuola appesa al comignolo di vecchi palazzi, in una produzione di lavori uscita dalle operose botteghe artigianali. Una infinita gamma di “selvadeghi” costituisce il motivo conduttore che decora le grottesche nel refettorio agostiniano di Crema affrescato da Pietro da Cemmo (foto gruppo n. 2a e 2b).

Questo pantheon costituito da figure umane che assommano morfologicamente sembianze animali e vegetali è derivato al pittore bergamasco da un mixage che oscilla tra la riscoperta del mondo classico e le leggende popolari sviluppate in tutto l’arco delle vallate alpine.

foto 2b
foto 2a

Il complesso di tutte queste “coincidenze” viene a comporre un insieme di testimonianze affatto marginale e costituisce una raccolta che si fa eco di una epopea trascorsa ma non del tutto spenta nella memoria delle tradizioni locali. Tali reminiscenze sono giunte sorprendentemente fino a noi anche se in modo frammentario, hanno resistito e non sono ancora state completamente sopraffatte dalla prorompente invasione dei nuovi miti offerti dalla modernità. Quest’ultima pur lasciando poco spazio alle ereditate elaborazioni immaginifiche non potendole completamente ignorare le ha fagocitate, disperse, riproponendole magari attraverso un adattamento grossolano con superficiali finalità scaramantiche. Spesso vengono ignorati i significati iniziali, le valenze primarie da cui sono dedotti gli attuali segni che a ben guardare derivano dalle logiche storiche ma che oggi permangono allo stato di lacerti culturali. Districarsi nel vasto quadro delle diverse funzioni narrative, ognuna delle quali sottintende un ruolo specifico svolto dal protagonista, non è facile. Può tuttavia essere proficuo considerare tali testimonianze alla luce degli effetti che possono aver prodotto nel tempo sulla realtà locale. La leggenda dell’uomo selvatico si basa su una tradizione viva, non è una superstizione imbalsamata, così si è andata modificando negli anni e può esser recepita in modo diverso da luogo a luogo.

 

La derivazione preistorica: uomo selvaggio/uomo primordiale

Le più recenti scoperte paleoantropologiche ci informano che circa 30.000 anni fa per un periodo di 4000 anni, tempo relativamente breve nella storia dell’umanità, Homo Sapiens e Uomo di Neanderthal hanno avuto modo di coabitare. È difficile ma suggestivo stabilire se dall’ancestrale ricordo di questa convivenza preistorica possa essere nato il mito legato alla leggenda dell’Uomo Selvaggio. Nonostante lo stereotipo negativo derivante dal suo aspetto peloso, dalla marcata cresta ciliare, dalla corporatura massiccia, dalla grossolana struttura ossea, il coinquilino di Neanderthal era esperto nella fabbricazione di utensili, usava pelli di animali, intratteneva rapporti di intesa solidale con i suoi simili e praticava alcune forme rituali come la sepoltura.

Recentemente le indagini in campo antropologico hanno accertato fin nella protostoria dell’uomo gli innumerevoli esempi evidenziati come possibili prove atte a confermare una indiscutibile antichissima provenienza da cui sarebbe derivata la ricca aneddotica che ha finito per tipicizzare l’uomo silvestre. Tali considerazioni supportano le lontane origini di questo personaggio che in veste di compagno di strada, come un’ombra ha seguito l’evoluzione dell’umanità fin dai suoi albori.

Già nella mitologia sumera l’epopea di Gilgamês (L’epopea di Gilgamês, Milano 1986), scritta a Babilonia più di trentacinque secoli fa, descrive con precisione Enkidu, partner d’avventure del protagonista, dove esercita una forte seduzione l’uomo selvaggio allevato nel mondo degli animali. Tra le più antiche citazioni compare quella del peloso Esaù che nel richiamo biblico viene descritto tutto coperto da un mantello di peli (Bibbia, Genesi XXV, 19)..

La derivazione classica: l’uomo selvaggio/divinità consacrate alla natura

Alcuni studiosi hanno esaminato e dato una definizione all’ “uomo dei boschi”, dietro al quale si celerebbe l’impronta tratta a piè pari dalla cultura classica

La scarmigliata chioma, la clava, la pelle ferina, la forza sovraumana sono elementi di un convenzionale bagaglio descrittivo che rende questo solitario personaggio identificabile con l’eroe pagano Ercole. Nei racconti rituali e nell’iconografia la creatura silvestre si distingue per l’atteggiamento incoerente, timida e nel contempo aggressiva, nei momenti di impaccio timorosa. Quando viene provocata reagisce dimostrando tutta la sua forza strabiliante e l’ira irrefrenabile e improvvisa, sovente l’assale senza apparente motivo.

Migliaia di anni trascorsi dalle comunità nomadi in simbiosi con il mondo animale (R. Dal Ponte, Dei e miti italici, Genova 1985) giustificano simili comportamenti. A tal fine dagli studiosi sono state scomodate la divinità celtica Cernumno e gli dei del pantheon greco-romano legati al mondo agreste. Anche i signori degli animali hanno sembianze semianimalesche (corna, zoccoli, vello peloso ecc), dimorano nel profondo dei boschi e offrono vari spunti per plausibili derivazioni:

–  Pan (Silvano è il suo corrispettivo romano), venerato dalla gente di montagna e dai pastori. A lui sono sacri i boschi ed è metà uomo e metà animale. Con la sua sola presenza terrorizza i viandanti (terror panico). Silvano veniva considerato protettore degli ingressi e custode delle inviolabilità domestica e cittadina; il suo simulacro figurava sui portali, sulle antefisse o in prossimità delle entrate, come nel caso del “Salvadego” affrescato alla parete della camera picta di Sacco in Val Gerola, nei due “Salvanchi” della Porta Poschiavina di Tirano (N. Perego, L’Homo Salvadego in Val Gerola, Missaglia 2001-. M.Rovaris, N. Canetta, Tirano da scoprire, Sondrio 2009) o sulla cappa del camino di casa Besta a Teglio.

La cratofania, o manifestazione di forza e potenza è spesso usata per esprimere la superiorità divina di una presenza che incute apprensione e paura. L’inconsueta potenza se provocata può diventare incontenibile e scatenarsi in modo irrefrenabile (M. Eliade, Trattato di storia delle religioni, Torino 1972). Questa forza va addomesticata e trasformata in genius loci, tema che si svilupperà nelle raffigurazioni del difensore delle porte cittadine, scrutatore e controllore degli incroci pubblici o più semplicemente guardiano della soglia privata, tutore dell’incolumità domestica.

  • Satiri e Sileni, selvatici e lascivi abitatori dei boschi ma anche maestri di sapienza e impareggiabili educatori,
  • Dioniso, raffigurato con bastone e pelle di leopardo. Divinità preposta alla vegetazione che attende alla cura dei frutti. Insegna l’arte della viticoltura e a lavorar la terra. Dio del vino, quindi dell’ebbrezza e dell’estasi, facile ai cambiamenti di umore e alla collera.

In questo ambito prende consistenza una valutazione al negativo del protagonista, una interpretazione che ne sottolinea le malvagie caratteristiche.

La derivazione medioevale, l’uomo selvaggio in negativo: longobardi, ungari, saraceni.

Già i costruttori delle cattedrali romaniche e gotiche avevano ampiamente utilizzato le fattezze del “salvadego” inserendolo ripetutamente tra la miriade di personaggi grotteschi e altamente simbolici che popolano il pantheon delle più illustri facciate (ad esempio nel Duomo di Milano).

Secondo la funzione narrativa nel medioevo il silvano assurge ad una duplice personificazione del male o del bene (R. Togni, L’uomo selvatico nelle immagini artistiche e letterarie, in Annali S. Michele n 1, Trento 1988). Il peccato prodotto dalle irrefrenabili sregolatezze (antropofagia, rapimento – uccisione di bambini, violenza alle fanciulle, instabilità psichica), incute timore negli esseri umani. Tali comportamenti costituiscono gli ingredienti derivati da un passato pagano ed hanno ricevuto alimento dalle tragedie storiche. L’essere silvestre viene allora identificato con la figura sanguinaria del pagano e a seconda dei casi assume i ruoli dell’ariano longobardo (G. Cortani, I pagani delle leggende, in Pagine Friulane VII 1894-1895), o l’uomo nero infanticida, ricordo delle incursioni saracene (C. Bocca, M. Centini, Saraceni nelle Alpi, storia, miti e tradizioni di una invasione medievale nelle regioni alpine occidentali, Scarmagno 2006).

La comparazione con questi crudeli predoni è supportata dal loro modo di vivere separati nei boschi e dallo strano linguaggio, simile a quello dei lupi e dei gufi. Tra le altre possibili paternità è stata fatta quella con la “ferocissima e nefandissima gens ungara” a causa delle devastanti incursioni a cui sottoposero il Nord Italia nel X° secolo. A queste orde vengono collegate dal punto di vista semantico le crudeli figure dell’orco che si nutre di carne umana“…La fantasia popolare adombrò negli stivali delle sette leghe gli spostamenti prodigiosamente rapidi degli invasori e dal loro nome e dal loro aspetto creò e mantenne in vita fino al tempo della nostra infanzia la truculenta figura dell’orco che si nutre di carne umana: la derivazione è più evidente nella parola francese ogre (Fasoli G., Le incursioni ungare in Europa nel secolo X, Bologna 1945).

Tali mostri antropofagi affollano i racconti di fate di Perrault, dei fratelli Grimm e compaiono da imputati nei processi carnevaleschi. Frequentemente queste feste si concludevano con la pubblica ed esemplare condanna a morte dei terrificanti personaggi che nell’età di mezzo avevano martoriato le città e distrutto le campagne.

Le diverse memorie hanno concorso indirettamente a delineare in modo sfavorevole la tipologia dell’uomo selvatico. Il “Wilder Mann” o uomo verde ha ereditato nelle contrade tutte o parte delle valenze negative. È il rappresentante di forze che possono scatenarsi improvvisamente, per questo la comunità con riti appropriati è chiamata a circoscriverle e se occorre a debellarle.

La derivazione religiosa, l’uomo selvaggio in positivo: santi, anacoreti

Al fianco dei primitivi cattivi attributi mai completamente persi e sempre latenti compaiono le qualità positive che confermano mistero e ambiguità del soggetto. I contorni di questo bipolarismo comportamentale si riscontrano attraverso il desiderio di solitudine entro cui si muove “l’om del bosch” nell’ambiguità del mondo noto/ignoto entro cui compare.

Il polimorfico signore delle foreste e degli animali si trova a svolgere anche il ruolo di eroe positivo e civilizzatore. Assume in questo caso le sembianze del santo cristiano, eremita, rinunciatario del mondo e dei piaceri terreni. Il mito prosegue attraverso la sequela di leggende che offrono una immagine dell’essere selvatico addomesticata, addolcita, riflesso di un ingentilimento dei costumi.

In seno al cristianesimo la gamma di confronto con la folta schiera dei santi è quanto mai nutrita e la somiglianza delle rappresentazioni sorprendente. Con S. Onofrio e S. Giovanni Battista, S. Giovanni Crisostomo, S. Girolamo, S. Vito, S Francesco vengono condivisi l’aspetto rozzo e selvaggio; di S. Antonio Abate è ricalcata la vita ascetica ed eremitica, mentre l’aspetto gigantesco, la potenza, la bruttezza e il bastone fanno del silvano un emulo di S. Cristoforo. Quest’ultimo rispecchia il prototipo del gigante classico, spesso preso come riferimento e equiparato per le analogie che mostra con quello dell’uomo selvatico. Infatti nell’Odissea Il ciclope monocolo Polifemo compare nelle vesti di premuroso pastore.

La tradizione religiosa del buon anacoreta è proseguita fino al XIX° sec. grazie alla presenza dei remet (eremita), laici o terziari di ordini mendicanti. Vivevano da scapoli, anziani e in solitudine, in uno stato di estrema povertà, esercitando la custodia dei santuari sparsi nella campagna. Si muovevano “andando a capo scoperto e a piedi scalzi ostentando una barba lunga e incolta. Facevano inoltre aspre penitenze e venivano tenuti in concetto di santità… alcuni si specializzavano nella raccolta di erbe medicinali dalle quali traevano misture e decotti” (M. Lunghi, L’ambiente sociale della cascina cremasca, in Gruppo Antropologico Cremasco – La Cascina Cremasca, Crema, 1987).

Le differenze e analogie tra il sant’uomo ed il briccone dei boschi sono state chiaramente sottolineate: “Se il selvatico è il sapiente del bosco, l’eremita è il sapiente nel bosco” (V. Nichilo, L’uomo selvatico e gli eremiti, Sant’Onofrio della valle del Garza, Fondazione Civiltà Bresciana, Brescia 2009).

Il primo è il risultato di leggende, tradizioni popolari, derivato da credenze precristiane mentre il secondo è un volontario religioso che pratica l’eremitaggio ed ha per prototipo San Giovanni Battista.

Anche sul versante laico non sono mancati i battistrada illustri. La letteratura romanzata da Wilder Mann, a Robin Hood e a Robinson Crusoe, è stata impegnata a sviluppare problematiche differenti (giustizia sociale, comprensione per il diverso) è ricca di esempi.

(continua…)

note

  1. Sul confine tra Cremonese e Lodigiano occupa un posto di primo piano la famiglia Selvatici, feudatari nel XII-XIII sec.del territorio compreso intorno alla rocca di Castelnuovo Bocca d’Adda ( cfr. G. Pisati, Dalla villa Roncarioli al borgo fortificato di Castelnuovo Bocca d’Adda: evoluzioni toponomastiche e dell’insediamento dal X al XIII sec. in Bollettino Storico Cremonese n XV-XVI, Cremona 2010, p. 31. Anche l’onomastica cremasca annovera la famiglia Selvatico di cui Angioletta Selvatico, prima presidente diocesana della U.F.G.I (1919).

1 Comment

  • Ale Marz 23 Ottobre 2020

    Ottimo in attesa di leggere la 2′ parte!

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