11 Aprile 2024
Antropologia Scienza

Il “Manifesto della diversità umana”: una “reductio a Friends”? – Michele Ruzzai

Commento all’articolo di Le Scienze “Per un manifesto della diversità umana”, link: http://www.lescienze.it/news/2018/11/29/news/manifesto_diversita_umana-4209193/?ref=nl-Le-Scienze_30-11-2018

Ogni tanto consulto il sito de Le Scienze per tenermi informato soprattutto sulle novità di carattere paleoantropologico e sulle linee fondamentali della preistoria umana. Confesso infatti che non è tanto la storia più recente ad appassionarmi, quanto piuttosto un approccio rivolto alle sue correnti più profonde: quelle connesse ai nostri architravi costitutivi fondamentali che ci accompagnano pur nell’inesorabile procedere del tempo. Non mi sono mai fatto particolari illusioni sulla totale imparzialità “scientifica” della testata in questione e la prendo solo come fonte di informazioni che poi cerco di rileggere cum grano salis: ma devo dire che il recente articolo “Per un manifesto della diversità umana” mi ha fatto credere di essere finito sul sito di una “Repubblica” qualsiasi… A dispetto del taglio, più asettico, che secondo me il sito dovrebbe sforzarsi di mantenere nelle sue pubblicazioni, il pezzo in questione si rivela infatti come una vera e propria costruzione ideologica, i cui punti che mi sono sembrati più rilevanti ho provato a sottoporre ad un personale vaglio critico. Un vaglio, beninteso, né “dotto” né specialistico, ma che risponde ad una logica molto “terra terra”, quella di ogni lettore di livello medio che provi ad esercitare almeno un minimo di autonomia di pensiero rispetto alla “vulgata” oggi imperante.

Iniziamo, allora. L’articolo già parte con il pomposo riferimento a “un gruppo di scienziati” dal quale dovrebbero giungerci quelli che, nelle probabili intenzioni della Redazione, sarebbero elementi di riflessione antropologica di chissà quale portata esplicativa… Speranza immediatamente delusa: il tema, per me interessantissimo, della diversità umana viene immediatamente accostato – già nel sottotitolo! – a concetti di “odio ideologico”, “sopraffazione” e “disumanità”. Per fare un esempio, è come se per spiegare la ricetta delle melanzane alla parmigiana, partissimo subito soffermandoci sull’eventualità di poterle bruciare. Perfettamente logico, no? Ma continuo a leggere, sperando di incontrare spunti interessanti e almeno un po’ originali.

Nuova delusione: il successivo richiamo “ai fatti di Macerata e San Lorenzo” conferma di nuovo che quello che ho sotto gli occhi non è un articolo “scientifico”, pur con tutti i limiti ai quali la stessa “Scienza” viene molto spesso piegata, ma pura ideologia. Si menzionano fatti numericamente isolati, messi sotto la luce di un tetro ed incombente pericolo razzista ma ignorando del tutto il retroterra scatenante di questi, molto spesso da ricercare nella stessa criminosità degli allogeni che è sicuramente ben più consistente dei primi: ma anche qualora parlassimo di episodi quantitativamente equivalenti, è ben chiaro che concettualmente un pugno “razzista” di un italiano a un immigrato “pesa” molto di più di un identico pugno dato da un immigrato a un italiano. Come dire: non si processa l’atto, ma si processa l’intenzione. Se ricevete uno sganassone in ufficio perché un cliente si è stufato di stare in fila allo sportello, o perché tifate per la squadra sbagliata, o perché avete parcheggiato male l’auto, o perché secondo il vicino di casa tenete la musica a volume troppo alto, sappiate che il regalino ricevuto è ben poca cosa a confronto dello stesso – identico – sganassone che magari, un giorno, per mille motivi vi potrebbe malauguratamente scappare in direzione dell’allogeno di turno. Quest’ultimo è razzismo, il resto no. Nemmeno se, a parti invertite, il vostro aggressore fosse un immigrato: avete mai sentito parlare di “aggravante razzista” contestata, che so, a un nigeriano o a un bengalese? Io no, mai. Insomma: processo alle intenzioni e non al puro atto, in sé stesso egualmente censurabile in tutti i casi.

La linea totalmente ideologica dell’articolo di Le Scienze si conferma anche più sotto, quando si parla di “blocco delle attività di soccorso dei migranti” (o degli scafisti?) e lo “smantellamento del modello di integrazione di Riace in Calabria” (con il sindaco che combinava matrimoni di comodo, in qualche caso anche di prostitute nigeriane, e sul quale l’inchiesta è partita già ai tempi del governo PD…). Si arriva poi all’immancabile richiamo della pubblicazione del “Manifesto della razza” del 1938 perché…è ben chiaro che ciò che è avvenuto 80 anni fa deve ovviamente illuminarci nell’interpretazione dei fenomeni che si verificano oggi: tempi, notoriamente, dalle dinamiche sociali assolutamente identiche a quelle degli anni ’30… La logica sottintesa è stringente, non c’è che dire. Comunque l’articolo menziona, pur senza entrare nel merito, il “Manifesto degli scienziati antirazzisti” del 2008. Un documento, per inciso, che sono andato a riguardarmi sul web e che è davvero rivelatore di un certo tipo di mentalità: già al suo primo punto definisce come “astrazioni” le razze umane (ci si riferisce alle conclusioni di Lewontin ancora degli anni ’70? Parrebbe di sì, a leggere il punto 3) ed immediatamente ne collega il riconoscimento con la possibilità che ciò porti per forza ad una discriminazione. Come se discutere delle diverse case automobilistiche dovesse, in primis, farci pensare all’incidente stradale… Per non parlare, ai punti 4 e 8, dell’uso perfettamente strumentale, a fini “antirazzisti”, della teoria dell’origine africana dell’uomo (c’erano dubbi?) o del riferimento al punto 6 a soggetti quali “i “folli”, i “poveri di spirito”, i gay e le lesbiche, i poeti, gli artisti, gli scrittori alternativi” (ma che c’entra tutto ciò con il concetto di razza?), o infine all’utilizzo, francamente sorprendente per un tale parterre di firmatari, dell’espressione “razza umana”, quando invece è assodato che la nostra è una specie biologica (concetto che si ritrova persino alla voce “Homo Sapiens” di un sito chiaramente xenofobo come…Wikipedia). Se queste sono le premesse, partiamo bene…

Ma lasciamo da parte questi punti legati all’attualità, o al massimo alla storia recente, che come detto in premessa non mi appassionano eccessivamente e vengono già sviscerati da articolisti ben più competenti ed informati del sottoscritto. Veniamo piuttosto agli aspetti più teorico-concettuali e, mi si conceda, “socio-antropologici” del discorso, seppure vagliati senza pesanti citazioni, ma solo sulla base di alcuni elementari ragionamenti di carattere logico-deduttivo. Innanzitutto viene da chiedersi in quale modo un articolo che, nel suo stesso titolo, richiama il tema della “diversità umana” possa poi coerentemente rifarsi, nel testo, anche a quello di “uguaglianza tra gli esseri umani”. Non c’è qualcosa di incongruo, di stonato? Una contraddizione che anche la foglia di fico della comoda formuletta, dal vago sapore democristiano (ricordate le “convergenze parallele”?) “unità nella diversità” non riesce per nulla a mascherare. Dopo altre banalità che accostano sempre, tendenziosamente, il tema della “diversità umana” con quello di una gerarchizzazione morale e dell’odio per l’altro, si arriva finalmente – ma purtroppo, dopo tanta melina, ormai in vista della conclusione – al punto in cui si parla finalmente della “straordinaria ricchezza delle diversità culturali”. Finalmente! E chi le nega?

Io personalmente sono un accanito sostenitore della “straordinaria ricchezza delle diversità culturali” dell’umanità: così accanito che vorrei che non si perdessero. E nemmeno si annacquassero.  Ricordiamoci però che, nel mondo, di “diversità culturali”, pur essendocene tante, non arrivano al numero di 7,6 miliardi – cioè una per persona – ma sono molte di meno. Perché? Perché il “veicolo” di queste diversità non è costituito dall’individuo singolo. E’ invece costituito da gruppi di individui, certamente anche intercorrelati e sovrapposti tra loro: da comunità, etnie, religioni e financo, sissignori, da razze. E dunque non riesco proprio a non vedere contraddizione tra questa bellissima petizione di principio e quanto l’articolo scrive poche righe più sotto: dove razza ed etnia vengono considerate… “categorie astratte”! Ma come? Si elevano inni alla “straordinaria ricchezza delle diversità culturali” e però, allo stesso tempo, si nega l’esistenza di ciò che, ad un livello collettivo, ne fa chiaramente da vettore?

Prima di giurare sull’astrattezza di quanto vi è di intermedio tra individuo e umanità, inviterei a fare qualche verifica empirica: tipo una merenda a pane e mortadella in una moschea saudita o quattro passi sulla spiaggia di North Sentinel. E’ probabile che le randellate ricevute saranno sufficienti a ricordare, al contrario, l’estrema concretezza di tali categorie. Sempre che se ne esca vivi, ovviamente. Oppure ci si faccia borseggiare da un individuo qualsiasi nella metropolitana di una grande città, e si provi a vedere che tipo di domande farà la polizia. Scommettiamo che una sarà: che aspetto aveva il ladro? Sembrava un europeo, un africano, un sudamericano, un orientale? E per avere qualche – remotissima – speranza di ritrovare il portafoglio, mi sa che ci si dovrà fare coraggio, ingoiare il rospo di apparire “razzisti” e, ad esempio, ammettere che, sì, il ladro “sembrava” proprio un africano (o di una delle altre categorie: magari con la piccola differenza che, in caso di caucasoide, forse si proverà meno disagio a mostrare tanta retrograda attenzione per il fenotipo).

Perché, cari cantori dell’antirazzismo, qui l’unico concetto veramente astratto che aleggia in tutto questo discorso è proprio quello di “persona” come lo intendete voi: cioè come un’entità completamente sganciata da quelle che, solo per voi, sono categorie inesistenti. Ovvero razze ed etnie, e poi a scendere comunità di varia grandezza, fino a tribù e famiglie. La “persona” al di fuori di tali contesti – che certo non la rinchiudono, ma le conferiscono un orizzonte entro il quale esprimersi – non ha un senso, nel vero…senso della parola. Esiste a livello puramente biologico, ma è come se non esistesse. E’ in pratica un animale; anzi ancora meno, perché almeno questo ha un branco nell’ambito del quale svolge una funzione e viene riconosciuto come parte di un tutto. Appartenenza, quindi. E possiamo anche spingerci a dire che la dimensione dell’appartenenza è fortemente correlata a quella della nostra identità.

Facciamoci caso: quando per un attimo ci fermiamo a chiederci “chi sono io?”, oltre al nome personale molte risposte che ci si presentano davanti hanno una stretta attinenza con il nostro “appartenere” ad una serie di gruppi, di collettività: sono della famiglia Brambilla, ma anche un milanese, però pure un lombardo… un italiano… un europeo… un “bianco”, oltre che, ovviamente, un rappresentante di sesso maschile (si può ancora dire?) della specie Homo Sapiens. Naturalmente nessuno nega che vi siano anche molti altri “ordini” di affiliazione: la religione, il tifo calcistico, il segno zodiacale, il partito politico, la condivisione di qualche hobby “di nicchia” con altri appassionati, la classe sociale (anzi: scommettiamo che per quest’ultima si fa una tremenda fatica a definirla “categoria astratta”?)… Ma tutto ciò sta a significare che non esiste soltanto l’individuo, da un lato, e l’umanità, dall’altro. E, anzi, è forse quel vero e proprio oceano di possibilità che si trova in mezzo tra questi due poli ad essere un “quid” fondamentale dell’umano (qui non voglio affrontare aspetti di carattere “trascendente” sul reale “Sé” che alberga in noi), almeno nel suo senso comune ed ordinario di auto-identità: quindi anche quegli organismi “viventi” che sono la comunità locale, l’etnia, la lingua, la razza. E se non piace quest’ultima parola, sostituiamola con un’altra (la più biologica “sotto-specie”? O una più demografico-statistica “popolazione”?), ma il concetto di fondo rimane.

Ecco perché suona stonato ed ipocrita qualsiasi richiamo alla “straordinaria ricchezza delle diversità culturali” quando l’unico orizzonte nel quale tale ricchezza, secondo qualcuno, dovrebbe esprimersi sarebbe quello da “cittadini del mondo”. Altro punto fondamentale: di quale mondo stiamo parlando? Quando penso al “mondo” a me viene in mente ad un ecumene che continui ad essere colorato proprio da quella “diversità umana” che sta nel titolo dell’articolo qui commentato. Quindi – di nuovo – da culture, etnie, stirpi e razze che, ad ogni latitudine, hanno la loro ragion d’essere proprio nel Luogo che, forse, ha visto nascere per la prima volta la loro coscienza di essere qualcosa di più di un mero ammasso di individui. Sopra quella particolare Terra e sotto quel particolare Cielo. Affermare ciò è lontano anni luce dal fare la “hit-parade” dei gruppi umani, sebbene sia chiaro che, all’interno di ciascuno di questi, il “nostro” sarà sempre avvertito come più prossimo, più rassicurante, meno potenzialmente pericoloso, dell’altro in quanto “non conosciuto”. Ma, inutile negarlo, è sempre stato così e ciò non ha necessariamente portato solo a guerre e conflitti, ma anzi, molto più frequentemente, non ha di certo ostacolato l’instaurazione sia rapporti di buon vicinato tra prossimi, che di contatti a lungo raggio tra comunità più lontane. Ovviamente, a patto di essere rispettose ciascuna delle specificità altrui proprio perché consapevoli del preciso contesto storico-geografico dell’altra, esattamente come del proprio.

Ma il “mondo”, così concepito – veramente plurale, soprattutto nelle genti e nei valori che queste hanno eretto a propria regola – non è certo quello al quale si allude nell’espressione “cittadini del mondo”. Condannando infatti all’astrattezza ogni organismo collettivo che si colloca tra l’individuo e l’umanità nel suo complesso, ciò che rimane – il mondo che rimane – è ben poca cosa. Non quindi ai “cittadini del mondo” si mira, bensì solamente a “cittadini di un mondo”: ovviamente quello occidentale, che da semplice “parte” pretende di farsi totalità. E nel quale, già elevando ad assioma il principio dell’eguaglianza umana ci si avvita, senza nemmeno rendersene conto, in una lacerante aporìa nel momento in cui si sventola, contemporaneamente, anche la bandiera della “diversità umana”. Però una tale “diversità”, così concepita, non è altro che un ridicolo paravento per fare, in fondo, tutti le stesse cose: gli stessi lavori, gli stessi vestiti, gli stessi passatempi, votare più o meno gli stessi partiti (preferibilmente progressisti ed antirazzisti) e magari osare la diversità più spinta e libidinosa andando ogni tanto a mangiare “etnico”. Insomma tutti bravi, tutti felici, tutti democratici. Tutti Friends. Come in quelle stupide “sit com” americane dove c’è il giallo, il nero, il bianco, il gay o la lesbica (sempre), che nella vita pare non abbiano null’altro da fare se non battibeccare tra di loro: il tutto tra una risata di sottofondo e l’altra, a indicare quali, in teoria, dovrebbero essere i momenti comici a un pubblico evidentemente ritenuto incapace di arrivarci da solo.
Abbastanza triste, come dover spiegare una barzelletta all’idiota che non l’ha capita…

Michele Ruzzai

2 Comments

  • Pier Ferreri 6 Dicembre 2018

    Un assioma ‘sacro’ dell’universo di Star Trek, ideato dal regista americano Gene Roddenberry, è “Nella Diversità è insita la Ricchezza” e, naturalmente, come giustamente sottolinei, queste diversità devono essere tutelate e non massificate nell’amorfo grigiore dei ‘cittadini del mondo’.
    Ottima analisi, bravo Michele.

  • Michele Ruzzai 6 Dicembre 2018

    Grazie, caro Pier!

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *