12 Aprile 2024
Punte di Freccia

I Valori dei Vinti incisi nella pelle

Nel 1949 a Parigi, l’anno successivo a Milano, Curzio Malaparte pubblica La pelle. Il titolo nasce da ciò che rimane di un cittadino romano, corso a festeggiare l’entrata degli Alleati in città e, scivolando sul sanpietrino, schiacciato sotto i cingoli dei carri armati. Insieme ad una folla soprattutto di donne che, leste e ridenti, si sarebbero donate per una stecca di cioccolata, un pacchetto di sigarette, l’illusione di divenire amanti e poi mogli americane. Mia madre, che era nata a New York e di quel ‘vizio’ d’origine aveva orrore, all’arrivo dei ‘liberatori’ in Romagna impedì alle mie sorelle più grandi di prendere una tavoletta di cioccolata, gettata loro come le noccioline al giardino zoologico davanti la gabbia delle scimmie. (Ne ho raccontato l’episodio, mi sembra, già più volte).

Già, ‘… quella bandiera di pelle umana era la nostra bandiera, la vera bandiera di noi tutti, vincitori e vinti, la sola bandiera degna di sventolare, quella sera, sulla torre del Campidoglio’. Per i morti, forse, è stato così; non per coloro che, si fossero schierati con i vincitori o avessero scelto l’estrema linea dei vinti, avevano offerto carne ossa e sangue, armi in pugno, fieri e disperati. Tutti ‘vitam pro vita exponimus’. Perché, a noi felicemente orfani dell’ideologia – gabbia dorata sempre alibi la radio spenta e la saracinesca abbassata – contano gli uomini quando si esprimono in forti emozioni – Céline docet -, in passioni sanguigne, in ciò che Filippo T. Marinetti definiva, in quel 2 dicembre del ’44, lo stesso giorno in cui il cuore cedette dopo lungo soffrire, ‘musica di sentimenti’ (sottotitolo a Quarto d’ora di poesia della X MAS).

Con un accento in più, un non so che di coinvolto e commosso, un groppo alla gola, nostalgia di non essere stato al loro fianco, verso i vinti – non tutti, certamente, ma attenti a non cadere in manicheismi, rigide censure, vocazione segreta da boia. Non ci piace, credo in fondo sia questa l’intima ragione, quando tutto è troppo facile, le bandiere al vento i canti beceri e avvinazzati mortaretti i balli e la forca in piazza. Ci siamo allontanati, d’istinto, dagli Achei sotto le mura di Troia quando, al liceo, se ne leggevano ‘l’ira funesta’ di Achille l’arroganza di Agamennone l’astuzia subdola di Ulisse. Troppo facile con gli dei schierati dalla loro parte.

Non per altro i ‘nostri’ amici – e so di ripetermi – sono eroi quali Don Chisciotte e il guascone dal grosso naso e l’abile spada. Eroi destinati alla sconfitta, ma immortali nel sogno e nel verso. Entrambi, parafrasando il titolo della autobiografia di Giorgio Albertazzi, ‘perdenti di successo’. E ci confortiamo, proprio rinnovando la lettura de La pelle, dove viene riportato appunto inedito del 1953 e in cui lo scrittore annota: ‘… Ma una cosa so certamente, che il valore umano dei vinti è superiore a quello dei vincitori … In questi ultimi anni, ho viaggiato, spesso, e a lungo, nei paesi dei vincitori e in quelli dei vinti, ma dove mi trovo meglio, è tra i vinti. Non perché mi piaccia assistere allo spettacolo della miseria altrui, e dell’umiliazione, ma perché l’uomo è tollerabile, accettabile, soltanto nella miseria e nell’umiliazione. L’uomo nella fortuna, l’uomo seduto sul trono del suo orgoglio, della sua potenza, della sua felicità, l’uomo vestito dei suoi orpelli e della sua insolenza di vincitore, è uno spettacolo ripugnante’. Non condividiamo del tutto – non si tratta solo di ‘estetica’ –, ma non ci sentiamo distanti, solo forse un po’ distinti.

Così, a dispetto di certi atteggiamenti da ‘ancien régime’ che hanno contraddistinto un tempo del nostro impegno (volentieri cantavamo la Vandeana e non ci piacciono le abiure. Mai), qualcosa di Saint-Just e di Robespierre ci attrae, ma ci allontana e ci offende la ghigliottina la testa che rotola nel cesto e, soprattutto, la folla che faceva urla e festa verso quei nobili – penso all’Andrea Chénier di Brasillach – che, pallidi e dignitosi, offrivano il collo alla mannaia. Non per retorica umanitaria, si badi bene, per stile… E così, l’Addio Lugano bella e La locomotiva di Francesco Guccini non disdegnamo di cantare, noi anarco-fascisti. Di quelle figure immortalate dal color seppia del dagherrotipo con i cappelli a larghe falde e il fiocco al collo, sognatori di un mondo altro e per quella utopia prendere la via dell’esilio o del carcere in catene. E ci piace lo squadrismo, spavaldo irriverente strafottente e destinato, purtroppo, ad essere messo da parte (e si rallegrerà l’amico Giacinto Reale per questa mia correità con le sue passioni) per ritrovarsi fianco a fianco con i ‘balilla’ per l’ultimo e tragico atto del Fascismo ‘immenso e rosso’.

Pubblicando La pelle Curzio Malaparte volle apporvi una citazione di Eschilo, il primo fra i grandi tragici greci, tratta dall’Agamennone: ‘Se rispettano i templi e gli Dei dei vinti, i vincitori si salveranno’. Non li hanno rispettati, i B 52 e due bombe atomiche, e non si sono salvati, nonostante il trionfalismo becero e volgare, regalando a loro (e di questo chi se ne frega!) e a noi un mondo peggiore. Perché, se ‘Dio è morto’ e il dominio del nichilismo s’è avverato, il tempio non è altro che delle colonne fragili e rose dal tempo e gli Dei una superstizione dura ad essere mandata al macero. E lo sapevano bene gli stessi Greci quando narrarono dei Titani tesi a raggiungere la sede delle divinità e da queste, irose e gelose, scagliati a terra. Lo sapevano bene. Ma si inventarono il mito, consapevoli come i Titani fossero precipitati, presi dal terrore nello scoprire come il cielo fosse vuoto e fredde le stelle.

(Digressione – pertinente? – Ricordate come il re Mida, a cavallo, inseguisse il Sileno, depositario delle origini del senso dell’esistenza. Ne parla Nietzsche, se non erro, ne La nascita della tragedia. E, raggiuntolo, gli chiede di rendere egli stesso depositario del medesimo segreto. Vivere, certo, ma perché? Con un ghigno amaro la risposta è che il nascere è in sé il male, meglio il non esserlo, ma – essendo ormai qui ed ora – morire prima possibile. Non la durata, ne consegue, ma l’intensità diviene la cifra. O, come educava Seneca, possedere un animo grande e non accontentarsi di non avere affanni. E, ancora, sotto il medesimo cielo vincitori e vinti pagano al destino il tributo inscrutabile. In fondo l’uomo greco aveva trovato la risposta all’inquietudine del essere interrogante… Poi vennero e Cristo e Marx e Freud. E’ la modernità – l’età del nichilismo svolge un ruolo in sè disvelante – a renderci più liberi (forse) più nudi più poveri… altresì più indifferenti più feroci. E’ l’età del senso di colpa e degli incubi e della paura e di risvegli con gli occhi sbarrati e il lenzuolo bagnato. Non più la grata del confessionale ma il lettino dell’analista diviene l’altare a cui affidare tenue e inutile speranza. Oscena, la coscienza).

La voce dei vinti rimanda a volti dagli occhi mobili e inquieti, a giovinezze che furono ardenti e generose, a sangue versato – quello degli avversari e dei commilitoni di cui rimane memoria del colpo alla nuca di corpi straziati di orrori perpetrati –, a stagione ormai lontana e al contempo presente ogni sera, di cui s’è fieri e disperati. Gennaio 1997, su Raidue, ore 19,45, cinque sere a settimana, circa settanta ‘repubblichini’, combattenti mi piace chiamarli e non reduci, si raccontano. Con intelligenza rispetto abilità il regista, l’amico Sergio Tau, li guida oltre il rischio, ‘porto delle nebbie’, del rancore della rivalsa di rimpianti di atti assolutori e giustificanti. C’è l’Onore, certo, e la Patria tradita – farsi carico degli errori commessi da altri e pagare il conto con il proprio sacrificio alla Storia –, ma la dignità il rispetto della parola data guardare con animo sereno l’ineluttabile gorgo della sconfitta sono valori ‘di parte’, in grigio verde e in camicia nera (o forse sì)?

Alcuni degli intervistati mi offrirono l’amicizia mi diedero stima. Ne fui onorato, ne conservo vivo il ricordo. Dopo vent’anni l’impietosa anagrafe ha raccolto quei volti quelle voci quei gesti. E di loro cosa resta? Un Paese cialtrone perpetra l’inganno e la mistificazione e l’ottenebramento. ‘Pietà l’è morta!’ fu la parola d’ordine per dare il via alla macelleria messicana dopo il 25 aprile; la medesima consegna per gli stessi assassinati settant’anni dopo… Eppure quei volti quelle voci quei gesti ci parlano e ci raccontano che, nonostante tutto e comunque, scegliere fu un dono grande rispetto a nascondersi in soffitta o in cantina – ‘la zona grigia’ di cui parla Renzo De Felice – o attendere, in montagna, l’inossidabile ormai prossima vittoria.

Una lezione di vita, pur nel tempo e nelle circostanze dell’oggi. Così, quei volti quelle voci quei gesti (ho potuto leggere la trascrizione e, vi confesso, sono stato ripreso da quante emozioni!) si renderanno in libro. Presto. Allora, mi illudo, quella ‘pelle’ – dei vincitori e dei vinti – diverrà, come scriveva già nel ’49 Curzio Malaparte: ‘… quella bandiera è la bandiera della nostra patria, della nostra vera patria. Una bandiera di pelle umana. La nostra vera patria è la nostra pelle’. Essa lo è già, bisogna che si trasformi in un senso superiore – là dove l’uomo è altro ed alto.

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