9 Aprile 2024
Nietzsche Pavese Punte di Freccia Torino

Gli ultimi giorni di Torino


di Mario M. Merlino
Il ramo paterno della mia famiglia viene da Torino. Seguendo l’onda lunga della breccia di Porta Pia, il 20 settembre del 1870. Direttamente da Palazzo Carignano dove mio nonno e le sue sorelle vivevano, essendo il padre maestro di spada dei Savoia, e ricordavano d’aver visto, dai finestroni interni del palazzo, il conte di Cavour che usciva da una porticina laterale, mentre Giuseppe Garibaldi gridava al tradimento per la cessione, sotto le mentite spoglie del plebiscito, della natia Nizza e Savoia. E mio padre, pur essendo nato a Roma, sentiva forte quelle radici anche quando, ad esempio a tavola, ci raccontava di quel Risorgimento ove il re Vittorio Emanuele e il Cavour e lo stesso Garibaldi, in ombra il Mazzini, s’erano adoperati con comunità d’intenti sinceri a fare unita l’Italia (e mi assolvano gli amici borbonici a cui va la mia simpatia, soprattutto a personaggi quale il ‘brigante’ Carmine Crocco). Io vi sono stato, però, per la prima volta soltanto un paio di anni fa, ospite dell’Asso di Bastoni, a presentare il mio libro E venne Valle Giulia.

All’angolo di via Carlo Alberto al numero sei, terzo piano (qualcuno ha ipotizzato che fosse il quarto), ospite pagante per la modesta la cifra di 25 fiorini della famiglia di Davide e Candida Fino, rivenditori di giornali nell’omonima piazza sottostante, il filosofo Nietzsche vi ebbe dimora dal 5 aprile 1888, con breve interruzione nei due mesi estivi, fino ai primi di gennaio dell’anno successivo. E ne intesse tali e tante lodi da suscitare il sospetto che siano possibile frutto della follia montante… Il 3 di quello stesso mese, avendo visto un vetturino maltrattare con frusta e calci un cavallo, egli l’abbracciò, avendolo confuso per il musicista Richard Wagner di cui conservava un rapporto d’amore-odio. Preoccupato dallo strano contenuto delle lettere, i biglietti della follia, uno fra i pochi amici rimasti, il professore Franz Camille Overbech dell’università di Basilea, si precipitò a Torino e lo trovò in stato di esaltata euforia. ‘Io sono il tiranno di Torino’, urlava mentre martoriava i tasti del pianoforte.  Così Nietzsche lascia – e per sempre – la città, reiterando arie napoletane a tutto volume e annunciando alle guardie di sorveglianza all’entrata ed uscita come egli fosse il nuovo re d’Italia…
In quegli ultimi mesi al confine di un equilibrio sempre più precario aveva composto Ecce Homo con sotto titolo ‘come si diventa ciò che si è’. Il poeta Gottfried Benn (di cui ho scritto su Ereticamente e probabilmente già riportando questi versi che, chissà perché, mi sono particolarmente cari nella memoria) scrive, anno 1935, ‘Cammino con le scarpe rotte,/ scrisse questo genio universale/ nella sua ultima lettera – poi/ lo portarono a Jena – psichiatria./ Non posso comprarmi i libri,/ li leggo nelle librerie:/ appunti – poi a prendere l’affettato: -/ questi sono i giorni di Torino./ Mentre la nobile muffa d’Europa/ di Pau, Bayreuth ed Epsom si nutriva,/ lui abbracciava due ronzini,/ finchè il padrone non lo trasse a casa’.
Nel 1944 – siamo in pieno conflitto mondiale e in una città in cui la guerra civile si manifesta con particolare ferocia -, ricorrendo il primo centenario della nascita del filosofo, la Federazione del Partito Fascista Repubblicano volle apporre sulla facciata del palazzo una lapide. Un medaglione con la faccia di Nietzsche di profilo e una dedica a cura dello scrittore Antonio Rubino. Vi si legge, fra l’altro, come egli ‘conobbe la pienezza dello spirito che tenta l’ignoto, la volontà di dominio che suscita l’eroe’. E, nonostante che il padre di Zarathustra venisse considerato (a torto, si tende a leggere oggi) un anticipatore del nazionalsocialismo, nessuno ebbe tempo e voglia di scalpellarla dopo il 25 aprile (forse perché troppo occupati a dar la caccia e fare scempio dei fascisti rimasti in città. Le immagini dell’assassinio di Giuseppe Solaro ne sono tragica sintesi, in cui la nobiltà del vinto si eleva ben oltre il ghigno del vincitore). Essa, infatti, è ancora là e si può osservarla nonostante una certa incuria del tempo e il disinteresse degli amministratori locali.
Mi torna a mente come, essendo venuta meno quella ‘guerra fredda’, che tanto aveva pesato sulle vicende interne degli stati europei, sottomettendoli alla logica di Yalta e al predominio USA-URSS, simbolicamente con il crollo del muro di Berlino (nella pochezza di tre righe mi si perdoni essere riduttivo ché le cose sono ben più complesse), lo studioso Lorenzo Mondo pubblicò su La Stampa l’esistenza di un ‘taccuino segreto’, ventinove fogli scritti a penna o a matita, dello scrittore Cesare Pavese, che proprio a Torino, in un alberghetto nei pressi della stazione, si era suicidato il 28 agosto 1950. Per circa trent’anni non ne aveva dato notizia, su indicazione di Italo Calvino, perché non si dovevano turbare i sogni dell’antifascista casa editrice Einaudi e preservare l’immagine di Pavese d’una sorta di ragazzo cresciuto e mai divenuto adulto, mai trascinato nei giochi della politica, mestiere atto ai soli ‘grandi’… ‘Dignità vuol dire essere se stessi. Ma quando succede che si cambia idea? S’indaghi bene, si vedrà che non si cambia idea, ma che sotto sotto si aveva già presentito il pensiero nuovo. Che certe tue idee del passato non fossero quel c
he sembravano, ti risulta dal fatto che allora credevi di averle, ma non te ne interessavi (il tuo disinteresse per la politica, famoso!). Ora che nelle tragedie hai visto più a fondo, diresti ancora che non capisci la politica? Semplicemente ora hai scoperto dentro – sotto la spinta del disgusto – il vero interesse, che non è più le sciocche futili chiacchiere, ma il destino di un popolo di cui fai parte. Boden und Blut – si dice così? Questa gente ha saputo trovare la vera espressione. Perché nel ’40 ti sei messo a studiare il tedesco? Quella voglia che ti pareva soltanto commerciale, era l’impulso del subcosciente a entrare in una nuova realtà.
Un destino. Amor fati’…

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